Ogni tanto capita qualcosa a ricordarci l’ineluttabilità del fatto che la vita prima o poi finisce.
La circostanza che i nostri miti non siano immortali mi appare una faccenda tremendamente ingiusta. Qualcuno dovrebbe inventare degli universi paralleli in cui loro non invecchiano mai, non si ammalano e non muoiono, come fossero divinità dell’antica Grecia.
Giusto tre anni fa, il diciannove gennaio del duemilaequattordici, scrivevo una cosa che rimane tra quelle che meglio rappresentano il mio pensiero e probabilmente meglio descrive me stesso. La riprendo qui di seguito, spostando giusto qualche punto e qualche virgola. Avrei dovuto declinare qualche verbo al passato ma ho preferito di no. Preferisco far finta che quel faro di cui scrivevo in apertura resti per me sempre acceso. Voglio pensare che mi rimangano a disposizione qualcosa in più di quei duemilacinquecentocinquantacinque giorni che mi separano dalla sua luce.

And when she talked about the fall I thought she talked about Mark E. Smith” (Sniffin’ Glucose, 19/01/2014)
Per quanto mi riguarda Mark E. Smith è sempre stato un faro che indica una precisa direzione, uno spartiacque tra fare la cosa giusta e quella sbagliata.
O meglio: sul come arrivare alla situazione giusta tramite mille azioni sbagliate.
Il 5 marzo del 2007 l’uomo compiva 50 anni e gli inviai una lettera di auguri.
In quelle poche righe constatavo come tra le nostre rispettive età ci fosse una differenza di sette anni.
Il che significa che quando lui deciderà di mollare il colpo io avrò ancora un margine di 84 mesi, vale a dire 2.555 giorni per stabilire se imitarlo e chiudere alla sua stessa età.
Un bel po’ di tempo.
Questa cosa mi tranquillizzava allora come mi tranquillizza oggi.

Mi sono sempre proposto di recuperare quelle parole per festeggiare i miei 50 anni.
Tra poche settimane Mark E. Smith di anni ne compirà 57, il che significa che qualche mese dopo per me saranno appunto 50. Avrei dovuto aspettare a scrivere, poi però nell’arco di pochi giorni mi è capitato di leggere le due cose che incollo qui sotto e mi è venuta voglia di buttare giù qualcosa adesso.
Non mi sono guardato spesso quest’anno. Non lo faccio in generale. La mia ultima moglie dice che ho delle belle guance a forma di mela, occhi azzurri e capelli castani.
Due mesi fa ho notato che i miei denti nell’arcata inferiore erano diventati piuttosto neri. Non mi è parsa una buona cosa. Il dentista è stato fantastico; per un paio di centinaia di sterline ha risolto il problema. Ora i denti di sotto sono gialli, proprio come quelli di sopra che tra l’altro sono finti.
Ho l’osteoporosi: è una faccenda di famiglia. Alcuni anni fa mi sono fratturato l’anca destra; ci sono voluti mesi per recuperare. Per qualche tempo sono salito sul palco in sedia a rotelle, ora ho una piastra di acciaio in ogni anca e ho smesso di saltare in scena. Ho 56 anni e mi piace invecchiare. Quando ho cominciato con i Fall ero diciottenne, quindi ho sempre dovuto cercare di sembrare più vecchio di quello che ero per ottenere ingaggi come musicista. Erano altri tempi. Non credo che molti gruppi del passato sarebbero andati lontano con gli standard di stile che ci sono oggi: qualche idiota avrebbe di sicuro detto ai Kinks quali scarpe indossare
”.
(Mark E. Smith, cantante dei Fall, 14/12/2013)

Con il passare del tempo e con l’età ho capito che nella vita ci sono solo due strade: una conduce verso la costruzione di una vita sociale e affettiva, verso la cura della propria persona sia in termini spirituali che fisici e magari anche verso una carriera lavorativa che dispensi qualche soddisfazione. L’altra strada invece porta dritto dritto a seguire maniacalmente tutto quello che fanno i Fall e Mark E. Smith. Diciamo che io ormai una scelta l’ho fatta”.
(Ferruccio Quercetti, cantante dei Cut, 05/01/2014)

Ora, per come la vedo io, ci sono tre modi di invecchiare e uno solo è quello giusto.
C’è chi non si rassegna al passare degli anni ed in maniera artificiale altera il proprio aspetto fisico modificandone forzatamente le caratteristiche.
Ricicla oggetti, persone e situazioni, imponendosi una gioventù fittizia incastrata in un presente artefatto.
Altri invece adottano un approccio esattamente opposto: si consegnano disarmati all’oggi cancellando ciò che erano in passato ed eliminando così una prospettiva di futuro che sia se non ideale, perlomeno accettabile. Costoro mettono in stand by ogni azione e atteggiamento che sino ad un certo punto della vita gli erano propri e spesso generavano passioni, barattandoli con un quieto vivere fonte di tranquillità quanto di appiattimento fisico e mentale. Finché si rendono conto che il tasto premuto in precedenza non era quello di pausa ma quello di arresto.
Troppo tardi.
Stop.
Chiuso per cessata attività.
Infine ci sono quelli come Mark E. Smith. Coloro i quali affrontano sfacciati il tempo senza nascondere il viso pieno di rughe, solchi sulla pelle come fossero cicatrici, una per ogni volta che si è andati oltre. Gente il cui sguardo è puntato dritto avanti a sfidare con spavalderia e strafottenza il presente, forti di un passato con cui ci si è costruiti attorno un monolite di roccia ed alabastro.
Persone inattaccabili dentro a quel monolite la cui struttura molecolare è costituita dai rimorsi per le tante azioni sbagliate ma dove parimenti non trova alcuno spazio il rimpianto, perché di cose lasciate indietro non ce ne sono.
Ed è proprio lì il punto, la parola d’ordine.
In ogni caso nessun rimpianto.

Questa mattina in macchina ho ascoltato “45 84 89 a sides” dei Fall (come recita il titolo: i 45 giri dall’84 all’89). Un disco che infila 17 canzoni sfacciatamente strepitose.
Canzoni su cui tanti altri hanno in seguito costruito carriere. Nessuna però al servizio di quella voce stracciata, svogliatissima, incazzata e soprattutto cattiva.
La voce di Mark E. Smith. Pensavo che è per canzoni come queste che vale la pena fare quello che ho sempre fatto. Pensavo a quello che ha scritto il mio amico Ferruccio. Pensavo che pur provando a fare delle scelte che conducano ad un certo tipo di esistenza, diciamo quella strada che dovrebbe indirizzare verso “la costruzione di una vita sociale e affettiva, verso la cura della propria persona e magari anche verso una carriera lavorativa che dispensi qualche soddisfazione”, alla fine bisogna farsi una ragione di quello che si è perché questa è l’unica via possibile, atteggiarsi è perfettamente inutile. Arrendersi all’evidenza non solo è giusto ma è anche doveroso, anzi necessario.
Pensavo che uno come Mark E. Smith ha ragione.
Pensavo che in fondo l’ho sempre saputo.
E mi auguro sia questa la giustificazione alle mie mille azioni sbagliate.

In memoria di Mark Edward Smith
5 marzo 1957 – 24 gennaio 2018

Arturo Compagnoni


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