Neils ChildrenChange/Return/Success (Soft City Recordings, 2004)

Sono qui, immerso mio malgrado in una domenica mattina indecisa se affacciarsi all’inverno o rimanere pervicacemente avvinghiata ad un’estate da Righeira; sto combattendo i postumi di una cervicalgia mugugnando contro il Signore Vostro Iddio e cercando di far pulizie più o meno stagionali. Sempre che si possa ancora parlare di stagioni. Dei ravioli smunti attendono il mio parco desinare e Brutalism degli Idles si sparge per l’aere, dandomi l’illusione di avere 20 anni e un sacco di dischi della Rouska Records ancora da ascoltare. Tipo Moscow Idaho dei Cassandra Complex. Bel dischetto tra l’altro (Brutalism, ma anche il 12” dei Cassandra), non sono nemmeno male in mezzo a quello zuppolone di riferimenti più o meno celati e a quella smania di scovare ‘qualcosa’ che pare aver colto ciò che resta della discografia anglofona, ormai un pulviscolo cerebrale con le manine atrofizzate. E me li immagino gli A&R di tutto il mondo (ecco, fate un favore: non unitevi) che piangono la morte della Vacca Grassa incolpando il mondo d’essere il sicario prezzolato. Eppure Brutalism scorre potente in mezzo ad una muscolosa sobrietà di rigido post punk e a rimasugli 1977, tra una sezione ritmica da Transiberiana e chitarre che garrotano. È quasi da Dischord, se la Dischord avesse preso i natali a Leeds o in qualche altra città con i nervi a fior di pelle. È che qualcosa – da subito e mio malgrado – mi accende un campanello, un dejà vu alla Matrix che non riesco a mappare. Torno con la mente a quel buontempone di Vincent Furnier (per gli amici Alice Cooper) quando – la prima volta che ebbe modo di confrontarsi con Marilyn Manson – se ne uscì con la mirabile frase ‘credo d’averlo già visto, uno così’. Rumego (termine intraducibile se vivete sotto il delta del Po) tra i ricordi mentre ascolto le bordate possenti e le ritmiche feroci di Brutalism. L’aspirapolvere ne rimuove parte delle rasoiate dando l’impressione di un remix dei Main o dei Pussy Galore finchè – all’angolo nord del tavolo della cucina – il campanello s’accende. Sono semplicemente la versione 2.0 di una band di ragazzetti stonati e ipertricotici che mi allietarono assai il cuore nei primi anni 2000: i Neils Children. Sissì, né più né meno. Stessa angoscia sonora, medesima attitudine, identica calligrafia sebbene laddove i Bambinelli si vantassero delle loro sbavature d’inchiostro codesti pare vadano fieri della loro filigrana purissima. È la produzione, bellezza. Quella cosa che ti rende maestoso il suono, amplificandone le gesta. Insomma, forse un po’ troppo sopravvalutati questi Idles (del resto la concorrenza è ben poca cosa oggidì), ma state pur certi che di molto furono sottovalutati i Neils Children. Siamo qui per ristabilire le gerarchie.

L’aspirapolvere ha finito il suo dovere e io mi fiondo negli archivi per ritrovare Change/Return/Success cominciando a far di conto. Le note riportano un vanitoso 2004, Anno Domini dei Franz Ferdinand e soliti ricorsi storici glam che – puntualmente – colpiscono Albione come le influenze stagionali. Ma non vi sono più le stagioni, si diceva. No? Difatti sembra siano passati 35 anni dai Giochi della XXVIII Olimpiade (Atene, se ve lo state chiedendo) e invece sono solo 14, un nulla davanti ad un tempo che pare elastico e alla bisogna sa attorcigliarsi su se stesso carpiandosi in un sornione Back To The Future. Solo otto i brani degli infanti ma remavano contro assai davanti ad un panorama che stava prediligendo tutt’altro. Cavernicoli rispetto allo scibile coevo, neanderthaliani da incisioni rupestri. Altro che bella calligrafia e filigrana, quivi s’annunciava la cronaca di una morte bellissima e perdente.

Molto dev’essere stato l’astio sonoro di John Linger e Brandon Jacobs in quel di Harlow (Essex), duo al quale va ascritta l’intera parabola della band. Duo che altresì poteva vantare nomi da sceneggiato poliziesco e la semantica non è cosa da poco se la scelta della denominazione sociale era un chiaro omaggio ai John’s Children, embrione dal quale si sarebbero sviluppati i T-Rex. E Neil, allora? Niente de che, figlioli, soltanto il soprannome di Hawkins – primo bassista della band – pronto a lasciare subitaneamente per divenire fonico dei Subways. La confusione era alta sotto quel cielo ma bastava un venticello perché l’NME li inserisse nel fibrillante calderone che stava eruttando The Horrors e These New Puritans. Che sono quisquilie, pinzillacchere, bagatelle, minutaglia, inezie & minuzie. Ne avevano invece eccome tra le sei corde i Neils Children, ne avevano talmente tanto che nulla era da spartire con i due piacioni di poco sopra. Due singoli di assestamento (St.Benet Fink e Come Down) e arriva la bomba, con buona pace del Dorellik: I Hate Models ha le stimmate dell’inno rivoltoso, cola plasma da Public Image Limited, sferraglia sanguinolento come dei Red Lorry Yellow Lorry capitanati da Jimmy Pursey, ha i polpastrelli intrisi di veleno Gang Of Four e un’attitudine punk come mai s’era udita negli ultimi tre lustri in Inghilterra. Con la formazione a tre (Linger alla chitarra e voce, Jacobs alle pelli e James Hair al basso) Change/Return/Success vede la luce su Soft Recordings. Il titolo è preso dall’uso degli I Ching usato da Syd Barrett per Chapter 24 (a proposito, cercatevi il loro rifacimento di Lucifer Sam) ma la miscela no. No, no e no. E iddio benedica chi sa far del diniego la sua arma.

Come Down è un inizio da spettacolo e magia, dei Cream at the Gates of Dawn che guardano le macerie fumanti del post punk; s’accuccia ai blocchi di partenza come un trip psichedelico e affronta la prima curva alla stregua di un garage rock basico e primordiale. Brian O’ Shaughnessy – che produce – convoglia sapientemente le mille influenze (e irruenze) del terzetto (appena maggiorenne!) in una miscela che spara chiodi e lapilli. Del resto il suo Bark Studio aveva visto passare crema britannica tra la più eterogenea: dagli Hefner ai Sun Dial, dai Denim a Beth Orton. How Does It Feel Now You Are On Your Own? è sporco, blasfemo, Adamant-ino nella sua tribalità psichedelica. Poi arriva I Hate Models e – pure se già s’è detto – ne andrebbe rimarcato il possesso in ogni magione. Trying To Be Someone Else For Free è una Killing An Arab sporcata dall’imperizia e dai Gang Of Four, si adagerebbe benissimo su Three Imaginary Boys o Solid Gold o anche su qualcosa che ne riporti l’osmosi di entrambi. Non fai in tempo a girarti e un altro ordigno ti scoppia in faccia: Getting Evil In The Playground è la versione garage punk dei Kaiser Chiefs, corre a 120 all’ora in un ottovolante di chitarre e cori Sham 69 e lascia al palo tutto quello che avrebbero voluto essere i Maximo Park. Infettiva come What Will You Say To Me, abbecedario – eccoci! – sul quale gli Idles andranno ad edificare la loro sintassi. Change/Return/Success è sporco, caciarone, punk quanto poteva essere punk Nuggets o certa psichedelia ferruginosa dei Sessanta. Ha rabbie incontrollabili, delle chitarre maligne e impasti vocali ascrivibili agli Smiths (nel senso de signori Robert e Mark) e al vero John’s Children (Lydon). E proprio da un immaginario Nuggets rivisto dai Cure proviene In The Past, traccia che assieme alle ‘odiose modelle’ di poco sopra si candida quale meraviglia suprema: i tamburi singhiozzano, le chitarre sono magli che scintillano sullo sfondo, Linger prova a dare una propria interpretazione del termine pop music mentre un basso svogliato conduce ad un ritornello senza rughe. Una candela che arde su entrambe le estremità non potrebbe bruciare di più. See Through Me chiude in bellezza lo stupeficio di un disco più grande della somma delle sue parti, dei Generation X al Vortex, dei Wire che fan di conto (12XU), delle chitarre che ruzzolano lungo le scale di un film di Tim Burton, dei tamburi che minacciano guerra. They Predict A Riot. Sono 3,94 euro impegnabili su Discogs, al cambio attuale nemmeno 50 centesimi a brano. Manco iTunes è così servizievole con la musica che dovrebbe allietarci le sinapsi.

Pareva fatta, per i Neils Children, unici (con Libertines e Art Brut) a risalire la corrente rock and roll di quei mediani 2000. Un timido affacciarsi alle classifiche nella top 50; svariati tour con The Horrors, Razorlight e Bloc Party (nomi caldissimi di quella stagione) e addirittura due incursioni live in Giappone. Pareva fatta, già. E invece. All’arrivo di X.Enc tutto è cambiato, persino i capelli, resi mansueti dall’avanzare dell’età. E, a proposito: Hair – nomen omen – abbandona lasciando la coppia a dividersi strumenti e turnisti. Rivoluzione copernicana X.Enc, resa fruttata da 11 tracce che molto devono alla Postcard Records, indie scozzese e Orange Juice e dove I’m Ill si palesa come il più bel pezzo dei Josef K mai pubblicato. Stupore e difficoltà nel maneggiare cotanto voltafaccia. Ma mica è finita eh, che Linger dev’essere uno schizofrenico sonoro non da poco: Dimly Lit (Boudoir Moderne, 2013) spariglia nuovamente le carte e stavolta davvero non si sa da che parte prendere un album nel quale si avvertono profumi Stereolab e Silver Apples. Con un mixer appartenuto alla consolle del glorioso Moulin Rouge (qualcosa vorrà dire, non so cosa ma qualcosa) le 11 composizioni spaziano in un atmosferico jazz noir alla Barry Adamson (The Beat On The Boulevard) o in vittoriane partiture care a gente come Jack e Tindersticks (Edward The Confessor). Sorpresa e mutamento sonico più grande l’Inghilterra mai ebbe modo di ascoltare. Eppure anche quest’ultimo rimane album ottimo, intriso nel veleno di alcune grandi canzoni, sebbene ascrivibile ad un’altra entità che esula da quei Children Of The Revolution dell’esordio.

Di quella coppia alla Jeckyll e Hyde ne ho perse le tracce suppergiù in quei tempi, dalla terza lettera di Linger agli Apostoli (tra i quali mi pregiavo d’appartenere); sporadiche notizie davano il nostro riciclato in guisa di quotato produttore pronto a seguire la carriera del fratello Paul negli Electricity In Our Homes, banda transumante addirittura dalla Too Pure alla 4AD. Oggi la sigla Neils Children riposa in una morte apparente. Le notizie si fermano a Reduction, album liquido edito lo scorso anno dalla Structurally Sound, etichetta di proprietà dello stesso Linger. Eppure, riascoltandolo oggi, Change/Return/Success porta indelebilmente addosso la nomèa di confusionario capolavoro, fosse altro per aver caparbiamente voluto inseguire (e indicare, soprattutto) una strada sterrata, controcorrente, senza alcuna concessione. Erano destinati al fallimento, la loro meta ebbe successo.

I ravioli borbottano, la casa ha una parvenza di pulizia domenicale, l’aspirapolvere giace in luogo sicuro e la cervicalgia chiede un armistizio. E solo allora che ti fermi a pensare quanti ne vorresti di Neils Children, gente che sappia volare sul nido del cuculo, che riesca a mutar pelle e malignità come la Mystica degli X Men; musicisti che dell’incoscienza sappiano farne arma letale. Vorresti, certo. Ma poi sei costretto ad accontentarti degli Idles. Faremo di necessità virtute.

Michele Benetello


2 risposte a “I dischi che piacciono solo a me, credo #37”

  1. Avatar Marco Di Pasquale

    grazie per l’ascolto guidato: denuncio pubblicamente la mia ignoranza, soprattutto sui Neils Children, colmata con questa ottima rage music!

    1. Avatar Mic
      Mic

      Grazie a te per l’attenzione, Marco.

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