I CCCP si sono riuniti. Un libro, una mostra, poi la reunion è diventata un tour e poi chissà.
Io amo i CCCP. Sono una delle band di cui più ho rimpianto, negli anni, di non aver potuto vedere un concerto: quando suonavano andavo alle elementari.
I CCCP han suonato a Bologna. È la città in cui ho vissuto di più nella vita e quella per cui più mi dispiaccio: per i suoi turisti senza gusto, per i tesori dimenticati, per quelli rifiutati.
La mia Bologna, così bella e così arresa.
Emilia paranoica.

Niente da dire sull’operazione nostalgia appena vista, anzi: credo che i CCCP in piazza a Bologna siano la fotografia – la più bella, a dire il vero – di questo momento.
La fotografia, ahimè, malinconica di un tempo il cui motto è disinnescare. Disinnescare il confronto, condannando qualunque comportamento non conforme alle regole. Disinnescare la protesta, manganellando chi non “rispetta le norme condivise”.
I ragazzini che buttano vernice lavabile sui monumenti vengono processati e definiti terroristi. Gli spazi occupati sgomberati. Le città vivono di turisti e dei ricchi che possono permettersi affitti stellari. Sono i giorni nostri, inutile lamentarsene.
Disinnescare per addormentare. La rabbia non si può dire. L’importante è essere funzionale.

Produci, consuma, crepa.

Si può argomentare, ma non litigare. Si può parlare, ma non alzare la voce.
Si può partecipare ai bandi per mettere la propria innocua associazioncina in una stanza sgarrupata in comodato d’uso, non occupare spazi abbandonati.
Si può dissentire, ma non gridare. Non disturbare. Bisogna rispettare le regole, volare bassi, desiderare poco.
Intanto i salari sono fermi all’inizio degli anni Novanta. Che ironia: guadagnamo come quando si faceva musica bella, ma non possiamo più permetterci i biglietti per andare a sentirla.
Ma, basta lamentarsi! Viviamo nell’epoca del sussurro e del sorriso! Tutti a metterci like.
Che nella città più progressista d’Italia si sta bene e perché devi rompere i coglioni?
Fedeli alla linea. Ma la linea non c’è.

I CCCP in Piazza Maggiore è amarcord. Non c’è niente di male, tutt’altro. E accade, come è nello spirito di Bologna, al posto giusto e nel momento giusto: in una città di cui rimane il ricordo.
Non ho visto il concerto e me ne dispiaccio a ogni post di chi c’era. Dev’essere stata una gran serata che, come tutti gli amarcord, avrà lasciato il suo velo di malinconia. Quello che provo ogni volta che torno nella città in cui arrivai perché c’erano i Massimo Volume, Filosofia al terzo piano di Zamboni 38 e tre centri sociali in centro.
La malinconia che mi prende quando ricordo che nell’estate del 2000, in Alexanderplatz a Berlino, dei ragazzi tedeschi mi dissero: “Sì, Bologna, la conosciamo: c’è il LINK”. E adesso, a Milano, quando dico che ho vissuto lì, altri ragazzi, forse nati proprio quell’estate, mi rispondono: “sì, Bologna, la conosciamo: ci sono le tagliatelle.”
È una questione di qualità.

Ognuno decide cosa vuole prendere dal mondo. Io amavo le birre al TPO in via Irnerio e c’è chi è felice delle tagliatelle scotte sui tavolini per turisti assonnati.
C’è chi respirava l’avanguardia nelle sale del LINK di via Fioravanti e chi oggi lo celebra, dopo averlo chiuso e raso al suolo.
Io amavo l’aria nuova e libera di una città curiosa e piena di contrasti e c’è chi è felice di far la fila per vedere un canale dalla finestrella di via Piella.
Ognuno decide cosa vuole dare di sé al mondo. C’è chi crede che il cuore sia sempre la carica dirompente di qualcosa di nuovo e chi pensa che l’importante sia primeggiare. Costruire, cementificare. Mostrare, far vedere. Competere nei mercati internazionali del turismo e ripetere, sempre più stanchi “siamo la città più progressista d’Italia”.
E ricordare i bei tempi che, come i CCCP che non ho visto quarant’anni fa e forse vedrò adesso fuori tempo massimo, non torneranno più.
Amami ancora.

FABIO RODDA


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