
Qualche settimana fa sono andato a veder suonare i Pastels. E’ stata la prima volta nella mia città e nel “mio club” (in versione estiva ma pur sempre il “mio club”), la seconda in assoluto. L’occasione precedente capitò nel ’93, l’estate in cui decisi di salire per il mio terzo e ultimo giro al festival di Reading. La presenza dei Pastels nel tardo pomeriggio, sotto la tenda che ospitava il secondo palco della rassegna, fu in pratica l’unico vero motivo che mi spinse a volare verso l’Inghilterra. Non ricordo molto di quel concerto, ma la sensazione che ancora oggi mi rimane a distanza di 22 anni non è quella che potrei associare ad un evento particolarmente memorabile. Tra anni più tardi, con la mia seconda vita arenata nella bassa marea di un preoccupante stand by passionale, in attesa di un disincaglio che di lì a poco avrebbe portato a un naufragio senza superstiti, organizzai un viaggio di una settimana in Scozia, una sorta di back to roots alla ricerca di radici che in realtà non avevo mai avuto. In quell’epoca la Scozia più che una passione era per me una vera e propria ossessione. Un’ossessione che, guarda caso, trovava nella musica la sua ragion d’essere. In particolare l’epicentro era localizzato nella mitologia indie della mia tarda adolescenza: la Postcard e la Creation, i Jesus and Mary Chain, gli Orange Juice, i Fire Engines, le Shop Assistants, i Vaselines, i Josef K e, naturalmente, i Pastels. Mitologia poi nutrita dal proseguo della storia: la Chemikal Underground, i Delgados, i Mogwai, gli Arab Strap, i Teenage Fanclub, fino a quel concerto dei Primal Scream a Benicassim ‘98 quando Gillespie e la sua band montarono sul palco all’ombra di un grande stendardo con ritratto un leone rosso in campo giallo sovrastato dalla scritta remember Bannockburn*.
Da quel giorno per diverso tempo accarezzai l’idea di stamparmi sul braccio un bel tatuaggio col disegno del cardo simbolo di Scozia o in nobile alternativa, un leone sormontato da quella stessa scritta: ricordatevi di Bannockburn. Ho sempre amato la retorica, lo ammetto.
Quel viaggio che poneva ovviamente Glasgow – città turisticamente non proprio appetibile – come meta ultima, aveva tra i suoi nemmeno tanto velati scopi il pellegrinaggio al negozio di dischi e libri gestito da Stephen McRobbie (alias Stephen Pastel, cantante, chitarrista e anima dei Pastels).
Questo per dire quanto questo gruppo possa aver significato per me.
Prima del concerto di qualche settimana fa, quello nella mia città, mi sono ripassato la loro intera discografia rendendomi conto che, in tutta sincerità, a me dei Pastels piacciono veramente ed incondizionatamente solamente due dischi tra i cinque pubblicati in oltre 30 anni di attività. Sono i primi due, roba di 25 e passa anni fa, che fanno poker con le raccolte di singoli Suck On e la successiva Truckload of Trouble, doppio vinile con dentro una delle mie canzoni preferite di sempre (Truck Train Tractor) e la formidabile coppia di ep del ‘91: Thru’ Your Heart e Speeding Motorcycle, con l’omonima cover strappa lacrime della canzone di Daniel Johnston.
Chiaro che il giudizio su un gruppo come i Pastels non può essere limitato alla musica. Stephen McRobbie ha – in maniera forse involontaria – codificato uno stile di vita più ancora che un genere musicale. Ma non è mia intenzione analizzare questa faccenda, né investigare la biografia del gruppo e neppure analizzarne la discografia. Ciò che pensavo quella sera, mentre assistevo al concerto, riguardava più che altro me stesso, mettendo in moto il più classico dei miei personali meccanismi di transfer: quello che utilizza la musica come chiave di lettura della vita o anche solo come traduttore istantaneo di singole situazioni quotidiane. Ragionavo sul fatto che al principio, negli anni di Up for a Bit (1987) e Sittin’ Pretty (1989) e di tutti i singoli di allora, i Pastels non solo mi piacevano ma di più, possedendo le due caratteristiche distintive del me stesso di allora, erano letteralmente lo specchio dentro cui mi riflettevo. Erano difatti dotati di una timidezza ai limiti del patologico associata all’allegra velocità con cui affrontavano le canzoni e attraverso la quale – probabilmente – schermavano anche una parte del loro impaccio relazionale (ora, non che le loro canzoni fossero particolarmente veloci, in ogni caso avevano però ritmo) . Pensavo questo proprio in chiusura di concerto sulla doppietta Baby Honey/Nothing to Be Done, indubbiamente un momento che ha ribaltato emotivamente l’intera serata, rilevando i differenti effetti che l’invecchiare ha prodotto su di loro e su di me.
Pensavo che loro negli anni hanno mantenuto inalterata la timidezza senza scalfirla con la tempra della maturità, mentre la saggezza degli anni trascorsi ne ha frenato la velocità. Da parte mia ho invece invertito il dosaggio degli elementi base. Lo scorrere del tempo ha in parte levigato la mia naturale introversione mentre la velocità, per non dire la fretta, è ancora l’unico ritmo che conosco per fare le cose a modo mio. Come se domani fosse sempre troppo tardi. Il che naturalmente non riveste un particolare significato. Però mi ha fornito lo spunto per parlare un po’ di uno di quei gruppi che in qualche modo hanno cambiato la mia vita. E tanto basta.
*La battaglia di Bannockburn (23/24 giugno 1314) fu una grande vittoria scozzese durante la prima guerra di indipendenza dall’Inghilterra. Lo scontro fu decisivo per le sorti della guerra e produsse come conseguenza di fatto la restaurazione dell’autonomia da parte della Scozia.
The Pastels “Truck Train Tractor”
Una volta, tantissimi anni fa, il mio amico Alberto mi raccontò di un suo viaggio in Inghilterra. Una sera era stato in un club e il dj aveva suonato questa canzone. Pensai che un posto dove suonavano quella canzone doveva essere per forza il posto migliore del mondo, e per tanti anni ho sperato di trovare un locale del genere anche dalle mie parti. Ovviamente non l’ho mai trovato un posto così. Nemmeno quando ho cominciato a passare io i dischi ho mai messo questa canzone. Toccherà rimediare prima o poi.
Shop Assistants “I don’t Wanna Be Friends with You”
Sono sempre rimasto in buoni rapporti con le mie ex. Ma guardandomi indietro e con il senno di poi credo che in almeno un paio di occasioni avrei dovuto metter su questa canzone a tutto volume, poi avrei dovuto girare le spalle e andarmene canticchiando astiosamente: You loved me and now you wanna leave me/think too much of me to deceive me/Say you wanna go while were still friends/ but I believe in the bitter end/If you don’t love me anymore/just tell me you don’t want to know/But I don’t wanna be civilized/You leave me and I’ll scratch your eyes out/I dont wanna be friends with you/I will never be friends with you/Honey, I will not lie to you/Honey, I would have died for you/But I could never be friends with you/I will never be friends with you.
Josef K “Sorry for Laughing”
Praticamente i Franz Ferdinand con 30 anni di anticipo (loro, i Franz Ferdinand intendo, del resto non ne hanno mai fatto mistero). Solo con più spigoli e nervi scoperti. Del resto partivano da un nome scippato a Kafka (Josef K per quei 2 o 3 che non lo sapessero era il protagonista de Il Processo) e non avevano alcuna intenzione di semplificarsi la vita. Enormi.
Teenage Fanclub “Live at Reading Festival 1992”
Questo concerto lo vidi assieme a Cesare se non sbaglio, a fianco di Bobby Gillespie. Naturalmente non eravamo in mezzo al fango. L’accoppiata The Concept/Everything Flow la suonarono nel finale e tra le 9 canzoni di quel set (la lista l’ho ritrovata in rete, mica me la ricordavo) piazzarono una cover di Dylan e una loro versione di Take the Skinheads Bowling dei Camper Van Beethoven. Come direbbero i miei amici giovani: ma di cosa stiamo parlando?
Primal Scream “Velocity Girl”
Una volta qualcuno, molto più autorevole di me, scrisse che questa è la canzone pop perfetta. Non so, troppo difficile dirlo, ma se non lo è ci va molto molto vicino. Di sicuro rimane uno dei modi migliori per impiegare 85 secondi della propria vita.
Arturo Compagnoni