Bang Bang Machine – Eternal Happiness (Ultimate, 1994)
C’è stato un tempo in cui ho avuto un passato. Quei primi anni novanta pieni di stupore e risvegli mattutini invasi d’entusiamo a buon mercato. Un tempo foderato di grandi dischi, pietre miliari, coscienziose opere su 33 giri, linee blu e avventure nell’ultramondo. Tempi in cui Londra era raggiungibile ad ogni giro di luna, e con essa imprescindibili pellegrinaggi a questa o quell’etichetta, che – vi parrà strano – sorgevano come funghi e altrettanto celermente sparivano tra le pieghe della memoria e dei codici postali incollati con francobolli e certosina pazienza. E così, tra un giro dagli Zion Train (una vera e propria impresa arrivare in quella sperduta zona della capitale, in quel gennaio gelato, sorprendendoli al missaggio di una session con Sly&Robbie), una cena da Wong Key assieme al triumvirato della Hydrogen Dukebox, un inseguimento notturno agli Shamen o un appuntamento con i Pop Will Eat Itself capitò che – un pomeriggio particolarmente mite – ci recammo in quella che, per noi scostumati viandanti della provincia dell’impero, ci sembrava in quel preciso istante l’etichetta con le E maiuscola, ovvero l’Ultimate.
In quel 1994 aveva un carnet di lusso oltre che saldamente afferrato lo scettro delle nuove musiche pronte ad invadere l’Inghilterra. Nello specifico quello strano bolo indie frullato da tenui dentature sintetiche, rivestito di domopak ambient o che – semplicemente – strizzava l’occhio all’elettronica più danzereccia. Bei tempi, l’ho detto, e sfiderei molti (ma non tutti) a trovare qualcosa di analogo oggi. Come che sia si afferrava un volo utile su Monarch Airlines e a cadenza da modello F24 si partiva a fare incetta un po’ ovunque. Quel 1994 non faceva eccezione. Ci eravamo studiati un piano d’attacco infallibile: due etichette al giorno intervallate dal Record And Tape Exchange più vicino. Una macchina da guerra perfettamente oliata con una testa di ponte che era un passepartout infallibile. Molto più anziano di noi, con moglie e figli (non sempre al seguito) e un giro di contatti semplicemente strepitoso. Uno al quale Sister Ray apriva il caveau o semplicemente ammainava il Gran Pavese al suo palesarsi, annunciato da un fax proveniente dall’Italia. Un metro e novanta d’uomo con un passato da cestista ed un presente che ignoro avendolo perso di vista suppergiù all’uscita dei Bluetones.
Insomma, quel giorno – preso da immacolata bontate – mi disse: ‘oggi io e te andiamo all’Ultimate, piglia un paio di copie del giornale per cui sputi inchiostro e lascia fare a me’.
Obbedisco.
Glorioso fu quel settembre degno di tal nome, un settembre come solo negli anni novanta si riusciva a declinare, un settembre nel quale – armati di eccitazione e pazienza – setacciammo Camden in cerca di quel buco maleodorante. Qualche viuzza e un paio di diottrie dopo lo trovammo, sbirciando semplicemente su minuscoli campanelli dalle improbabili calligrafie. Suonammo e una graziosa pseudo crusty dalla pelle diafana venne ad aprirci; non fece in tempo a lasciare uno spiraglio in quella porta a vetri che l’omone vi si gettò come si fosse gettato su furibondo rimbalzo a tre secondi dalla fine. Con una dialettica da rivenditore di Folletto le fece intendere che, se non eravamo i Lester Bangs della Pianura Padana, almeno allo status di Nick Kent ci andavamo appresso di un’inezia.
“La sventurata rispose”.
Una porta a vetri da videoteca porno, due scrivanie piene di vinili e un sottoscala infernale nel quale immaginavamo stivato ogni ben di Dio. Ci guardammo stupefatti: avevano in catalogo i Senser, gli Eat Static, Banco de Gaia, 8 Storey Window, Sidi Bou Said, Children Of The Bong, Belltower, Levitation e – friccicore maximo – i Bang Bang Machine. I Bang Bang Machine! Ci sentivamo predestinati dal Signore per essere giunti al cospetto dell’etichetta che stava per pubblicarne l’album. Nulla o quasi sapevamo di quel quartetto, eccetto le solite due righe sul NME e l’altrettanto solito John Peel, che ne aveva marchiato a fuoco Geek Love (stupefacente EP) inserendolo al numero 1 della sua Festive Fifty del 1992. Lì, sulla sommità, a precedere PJ Harvey, Ministry, Wedding Present, Fall, Sonic Youth e Pavement. Mica pizza e 12”. Era, naturalmente, introvabile dacché edito su fantomatica Jimmy Kidd Rekordz che noi, merdosi provinciali, manco sapevamo pronunciare.
Grande fu la delusione nell’apprendere che l’esigua tiratura di quel singolo (ormai assunto a vero e proprio Sacro Graal) era stata bruciata nel giro di una settimana. Però. Però, disse l’avvenente biondina (o era castana?) non vi mando via a mani vuote, aspettate qui. Scese lungo quel fetido sottoscala per ricomparire un quarto d’ora dopo con un raccolto vinilico che avrebbe fatto piangere di gioia Mosè. Di Geek Love manco l’ombra, ‘che le eccitazioni nella vita te le devi guadagnare. Faceva bella mostra però una doppia copia di Eternal Happines (l’album d’esordio) in edizione limitata con Ep in omaggio, oltre ad una messe ‘due per’ di gran parte del loro catalogo annuale. Pesava assai. Lasciammo un po’ di copie della rivista ‘per la quale sputavo inchiostro’, qualche chiacchiera di prammatica e la promessa di tenerci aggiornati a vicenda tramite carteggi epistolari prima che una frettolosa stretta di mano ci rimandasse fuori nell’aria frizzante di un caotico quartiere londinese. Manco le donne ci davano benserviti così concreti, accidenti.
Cercammo Geek Love in ogni anfratto di quella metropoli per una settimana, setacciando ogni fottuto buco che avesse la parvenza di un negozio di dischi. Era una caparbia missione, che si risolse in un nulla di fatto. Il ritorno a casa fu mesto quanto una copula di suini sotto un temporale. Almeno finché non misi sul piatto proprio quell’Eternal Happiness e – immaginereste? – mi fece ringraziare il sussidiario che i romani si fossero fermati al vallo di Adriano. Era esattamente il disco che – lì ed allora – stavamo aspettando. Un melting pot drogato di psichetronica, vocalizzi alla Cocteau Twins, riverberi, bassi tellurici, italo disco (Technologica, pura Valerie Dore strafatta di MDMA). Un impianto rock scivolato sopra dei giradischi. Un doppio vinile che per mesi faticò ad allontanarsi dalla puntina: c’erano i Police per la generazione rave di Give You Anything, il sospiro indie in levare di A Charmed Life, l’umbratile nostalgia per peccatucci d’inguine di Bloodlines, i possenti muscoli d’ebano alla House Of Love di God Based Angels On You (Destroy The Heart è giusto dietro l’angolo). O ancora gli Invaders Of The Heart che giocano ai Red Hot Chili Peppers con gli Orb in cabina di regia nella sublime Love That Burns. Se dev’essere anni e C90 allora che lo siano appieno, come le chitarre di Moon Jelly dimostrano. Che disco, Eternal Happiness! Un disco che – nonostante il massiccio appoggio di John Peel – venne stritolato da ben più titolati colleghi; un disco che nemmeno una produzione cristallina ad opera di Craig Leon e Ray Shulman dei Gentle Giant (tanto per sottolineare l’assioma come, in quegli anni, tutto potesse essere ancora possibile, e il meticciato ancor di più) riuscì a sollevare dall’oblio.
A proposito, ne manca una vero? Esatto: di Geek Love, anche qui, nemmeno l’ombra. Cassata di brutto e inspiegabilmente dalla scaletta del long playing. Dovetti accontentarmi di un nastro gentilmente concesso dal maritato cestista e fare di necessità virtute. Sacro Graal era e Sacro Graal rimase, almeno fino a qualche tempo fa quando – a dimostrazione che tutto appartiene a chi sa attendere – in uno scatolone sperduto lungo i forforosi sgomitanti in qualche fiera del disco mi apparve in tutta la sua beltà. Jimmy Kidd Rekordz, parbleu! I due euro meglio spesi dell’intera vita, con buona pace di Discogs che lo quota giusto un caffè in più.
È qui vicino a me ora, e continuo a chiedergli come potrei fare per spiegare quel suo intreccio sonico tra gli Adorable di Sunshine Smile e i Cranes spogliati dal goticume; o come solleticarne l’acquisto all’infedele che mai avesso potuto approcciarne il profumo, il suo ergersi a tradimento quando scoppia in un abbeveratoio di lacrime e ologrammi Sugarcubes. Splendido nel suo nascondersi agli occhi, conscio che sia questo il vero lavoro di un diamante: celarsi. Lo guardo e mi dico che solo dei pazzi o dei geni potrebbero dare alle stampe un disco screamadelico edificandolo su delle campionature tratte da Freaks di Todd Browning. Non risponde, così passo la palla a voi, sperando stiate digitandone il titolo su Discogs, corazzati dal vostro Paypal. Già che ci siete anche Amphibian (Ultimate, 1995), secondo e ultimo atto prima della diaspora coatta, non disdegnerebbe di trovare la via di casa vostra. È un consiglio del cestista, fidatevi.
Michele Benetello