Abba – Super Trouper (Epic, 1980)
Frida e Agnetha non sono mai state giovani. Sono nate milf. E realizzare che quei due scimpanzé potevano approfittare delle loro grazie mi faceva uscir pazzo. A questo pensavo mentre percorrevo i pochi metri che separavano casa mia da quella di Pier. I suoi genitori erano in montagna ed avevano acconsentito a lasciargli via libera per la festicciola del 31 Dicembre. Quattro piani tutti per noi. Un paradiso. Avevo la nomèa del ‘duro e puro’, quello tutto Ramones e Joy Division, il Jim Jones dell’italo disco (uomo stolto e limitato!), quello che arrivava con le novità synth pop marchiate Virgin Italia. Quello lì, che è poca roba ne convengo, con in sovrappiù un sacco di scheletri nell’armadio. Abba fra questi, e poco importava di essere stato in lussuosa e lussuriosa compagnia, dacché moltissimi tra i miei beniamini erano altresì affascinati dalla capacità melodica dei nordici. Persino i Throbbing Gristle. Voglio dire: i Throbbing Gristle! Fanatici all’ultimo stadio del quartetto, e sfido chiunque a trovare qualcosa di più diametralmente dissimile, nello sporco campo del pop. Come che sia io, verso le due gnoccolone, avevo un Sai Baba interiore che mi mandava in orbita, e non potevo non ammettere che i due scimpanzé avessero un tocco magico su quei polpastrelli pelosi; un tocco armonico davvero graziato da Vostro Signore Iddio.
Arrivai a casa di Pier verso le 21, giusto in tempo per notare la di lui notevole (ripeto: notevole. Vogliate credermi per una volta) sorella uscire – agghindata come Lene Lovich – con il fidanzato dell’epoca. La serata prometteva bene. Ci ritrovammo in una dozzina scarsa di ragazzi e ragazze – più i primi che le seconde, invero – per una pasta informale e un pieno di preoccupazioni del padrone di casa. Mi raccomando – disse – non fate confusione o casino, non distruggete nulla soprattutto; mangiamo qualcosa e poi ci imbuchiamo a qualche festa. Come no – pensai – tutti ad aspettare noi, proprio. Ogni modo mettemmo ai fornelli una scaricatrice di porto, incidentalmente iscritta all’Istituto Alberghiero, prima che cominciasse un fastidioso chiacchiericcio culinario ed io chiedessi a Pier di ascoltare un po’ dei suoi dischi. Avevo libero accesso per ovvi motivi, e lui una nutrita ed eterogenea collezione di vinili, uno zibaldone dove si mescolavano Toto, Classix Nouveaux, Siouxsie And The Banshees, Pink Floyd e tutto quello che ci poteva stare in mezzo. Poi, nascosto da un Supertramp (anzi: da IL Supertramp per antonomasia), vidi Super Trouper degli Abba. Nel mio Pantheon la versione gang bang dei Fleetwood Mac, chissà perché. Forse per le due donzelle, forse – inconsciamente – per delle strane relazioni dolorose. Loro. Forse perché, e qui sta lo snodo cruciale, Go Your Own Way dei secondi era null’altro che una permutazione lirica di quella The Winner Takes It All dei primi. Ero nel giusto, ma ci vollero ancora alcuni anni prima che lo comprendessi chiaramente. Come che sia, ornato da una copertina orribile – tipo Manhattan Transfer convertiti dai Testimoni di Geova – quel disco conteneva una gemma che aveva monopolizzato il monopolizzabile negli ultimi mesi. Era uno dei quattro o cinque singoli estratti. The Winner Takes It All, appunto. Avevo sempre avvertito qualcosa di fosco in quella canzone, troppo profondo e radicato perché fosse solo una registrazione da far finire al numero uno delle classifiche. Già. Mi ci misi d’impegno e decisi di decrittarla prima che l’anno terminasse. Il mio inglese era poca cosa, ma non abbastanza ‘poca’ da non capire quasi subito che lì, su quei solchi, si stava consumando una tragedia. Come in cucina dal resto, da dove proveniva uno strano odore di conserva e Vinavil. Venni chiamato a rapporto quasi subito, proprio mentre cominciavo a comprendere la ferita di Agnetha. Spensi il Thorens (si trattava bene, il Pier) per fiondarmi al posto a me assegnato, giusto in tempo per notare una brodaglia collosa dal colore indefinibile svettare dai piatti. Una cosa tipo fluidi vaginali della femmina di Alien. In climaterio. Tra bestemmie e improperi assortiti due di noi decisero di usare quella resina di stucco e muco per coprire dei buchi sulla strada, mentre un’altra coppia si sarebbe adoperata per trovare una pizzeria aperta. Io no. Non mi andava di bighellonare a meno due gradi centigradi in cerca di una suola per scarpe con del pomodoro stantio sopra. Volevo tornare da Agnetha, mesto e comprensivo verso le sue paturnie. Volevo augurarle Happy New Year, proprio come una delle canzoni del disco, ma ero (sono) una persona riservata e rimasi in silenzio ad ascoltarla, con un Doriano tra i denti e un buco sullo stomaco. E non solo per la mancata assunzione della pasta. Con un delicato su e giù della puntina capii il dolore al quale era andata incontro quella donna, che trovavo più affascinante quando circondata dal dolore (a 3’24″ del video v’è un suo leccar di labbra da paura). I don’t wanna talk… Lasciai che mi permeasse con la sua storia per decine di volte; e mentre i whisky e le grappe volavano in ogni dove io ero abbarbicato alle lacrime della nordica biondona. Il vincitore si prende sempre tutto, già. Riscrive la storia a suo piacimento e viene investito di luce e adulazione. Chi perde ritorna nelle retrovie circondato dall’oblio e dallo scherno. La storia di quasi ogni vita, in pratica, ma cantatevela voi questa, accidenti. The winner takes it all the loser has to fall it’s simple and it’s plain why should I complain?
Un disco pieno di ganci, Super Trouper, con titolo preso dal famoso faro ‘cercapersone’ usato nei palchi durante le esibizioni. Oltretutto marchio registrato dalla Strong Entertainment Lightning, ma nulla era un ostacolo per quella corazzata chiamata Abba. Un disco che parte a mille con la contagiosissima traccia omonima (un lieder per boscaioli allupati) approntata in velocità per completare una scaletta che necessitava di ulteriore minutaggio. Che disco Super Trouper! Privo di riempitivi e perfettamente focalizzato nel declinare il miglior pop da fischiettare del pianeta. Che sia la sublime And On And On And On (pezzaccio sul quale Umbertone Tozzi e la Electric Light Orchestra devono averci perso senno e sonno) o Me And I, ascrivibile ad un pop ruffiano che farebbe il paio con “Tu sei l’unica donna per me” di Alan Sorrenti. Solo molto meglio. Mi piaceva persino Andante Andante, ostia! Edulcorante diabetico finissimo, e nessuno mi toglierà mai il pensiero che gran parte del canzoniere di Madonna (quello meno danzereccio) si sia adagiato da queste parti. Avevo decalcomanie di Holly Hobbie al posto del cuore, altro che Blitzkrieg Bop pensavo, ormai convinto di saltar la cena e qualsiasi festa alla quale non fossi mai stato invitato, ‘che ognuno di noi ha le sue All Tomorrow’s Parties.
E se della perfezione di The Winner Takes It All s’è detto (ma andrebbe ripetuto ad lib, fosse solo per il groove ganzissimo della sezione ritmica) pure la citata Happy New Year ha il suo posto nel mondo, un posto dove ti par di veder spuntare un Babbo Natale che stappa una Coca Cola in bottiglietta e tu hai la Playmate del mese tra le mani sopra un soffice materasso ad acqua. Un sottofondo perfetto mentre guardi il calendario realizzando che anche questo 1973 se n’è andato. Oh Happy Day! E che dire allora del sublime cantico magno? Quella Our Last Summer che profuma di west coast, frittelle agli angoli delle strade e Laura Nyro (non è una bestemmia); retromania allo stato puro da umidicce lacrime e salivazione azzerata. Sentite qua: “l’aria estiva era leggera e calda, la sensazione era piacevole, la notte di Parigi faceva del suo meglio per compiacerci, passeggiando per gli Èlysèes bevemmo qualcosa in ogni cafè. Tu parlavi di politica e filosofia e io sorridevo come la Mona Lisa; era la nostra possibilità e fu una vera storia d’amore. Riesco ancora a ricordare l’ultima nostra estate, rivedo ancora tutto, le camminate lungo la Senna ridendo sotto la pioggia. L’ultima nostra estate, ricordi che rimangono”. Non c’avete un magone grande così, o voi devoti agli Hüsker Dü?
E ancora il folk-loristico incedere di The Piper o il genuflettersi su quel gran pezzo di pop tutto nero e tutto hot chiamato Lay All Your Love On Me. Quattro minuti e trentacinque secondi pieni di orgasmici spermatozoi pronti a fecondare gran parte dello scibile. Discomusic che si fa Madonna (ancora!) in un pentagramma che già inventa le squinziette barely legal alla Britney. Con in omaggio l’iscrizione a Tinder e un ritornello da sagra di paese, caserma, casalinghe disperate, apericena, parrucchiere felici, dark room. La quadratura del cerchio. E infine l’Evita Peron di The Way Old Friends Do, pronta a chiudere un album con una dose assurda di magone operistico e chiesastico, mentre ti incammini nella neve un inverno qualunque, col bicchiere di sidro in precario equilibrio come nel peggior Valzer delle Candele. Don’t Cry For Me Agnethina.
Finiranno qui gli Abba, su questo disco contagioso e perfetto, ‘che di quell’accozzaglia chiamata The Visitors c’è poco da dire, e ogni vero seguace lo sa. Finiranno qui dunque, un po’ come la nostra serata. Mentre la materia collosa si rapprendeva in strada, assolvendo perfettamente al suo compito, io mi ubriacai con questo Amaro Svedese per tutta la notte come se fossi stato immerso nel peggior film di Ingmar Bergman. Non ci imbucammo a nessuna festa e Pier fu comprensivo.
Michele Benetello