“Ma cosa vengono a fare? Ma perché non se ne stanno a casa loro?”
“Ma cosa credono di trovare qui? A casa nostra?”
Dialoghi rubati, filtrati attraverso le cuffie in una mattina piovosa su un bus qualunque. Due persone qualunque in una mattinata qualunque.
Per fortuna ascolto la miglior live band al mondo e mi distraggo da parole idiote.
Sono appena uscito dalla questura: ho perso la patente e dovevo rifarla. Ufficio denunce, il poliziotto, gentile, non due parole in italiano corretto in fila ma gentile, mi chiede se ricordo come e dove l’ho persa. No, non ricordo.
Per “casa” s’intende qualsiasi struttura usata da uomini e donne per ripararsi dagli agenti atmosferici.
Bologna. Questura. Io non sono bolognese. Lui neanche.
Nello stanzino a fianco, la poliziotta con fortissimo accento calabrese quasi grida a un uomo indiano un non ti capisco, devi tornare col tuo avvocato o con un interprete.
Una mattina qualunque, in una questura qualunque.
Non ti capisco. Forse non ti ascolto. Faccio un lavoro di merda sottopagato e non ho voglia di capire. Perché sono a casa mia e tu no e sei tu che devi capire come fare.
Se non capisci sono problemi tuoi. Io sono a casa mia. Tu potevi stare a casa tua.
Io sono veneto. Anzi, bellunese. Anzi, di Pedavena. Ma sono nato a Feltre. Quindi forse dovrei sentirmi feltrino. No, mi sento pedavenese perché ci sono cresciuto. Per diciotto anni. Ma sono venti e più che vivo a Bologna. Quindi, dovrei sentirmi bolognese?
Comunque sia, non sono bolognese. E non mi ci sento neanche: mi fa cagare la mortadella, non me ne frega niente della Fortitudo e tifo Milan. Perché mio nonno era milanese purosangue e milanista doc e io andavo con lui a SanSiro che c’erano solo due anelli. Correva lo scorso millennio. Milano era la sua casa. Quella di mio padre. Quindi è anche un po’ casa mia? Mi devo sentire milanese? Sono lombardo?
A Bologna ci vivo, ci ho studiato, pagato l’università. Ci ho comprato un appartamento e ci pago le tasse – un fracasso – da più di vent’anni. Allora è un po’ casa mia? Dovrei sentirmi bolognese?
Dovrei sentirmi “a casa?”
La casa non è solo un luogo fisico abitato dagli uomini, ma un luogo psichico: il fondamento di un individuo. Per questo “essere a casa” equivale a “essere integri a livello psicologico”.
Il poliziotto mentre scrive il verbale del mio smarrimento di patente mi fa una lezione non richiesta di sociologia applicata: è un problema con Loro. Perché a casa loro sono abituati a fare quello che gli pare. E poi arrivano qui e ci sono le leggi da rispettare. Io non sto a giudicare se sono giuste o sbagliate, devo solo farle rispettare. E Loro non sono abituati.
Ma loro, chi?
Loro. Le leggi. La casa. Casa mia. Casa tua. Ma è casa tua Bologna? Tua che sei di Catanzaro e sei arrivato qui con un treno malconcio una notte di tantissimi anni fa, coi sacchetti di plastica con dentro i panini che sembrava stessi andando in Siberia, che forse lassù manco ce l’hanno la soppressata.
Mi sento a disagio. Cammino nervoso. Alzo il volume delle cuffie.
Non mi sono mai stati simpatici gli sbirri, inutile negarlo: quando vedo una divisa m’infastidisco, mi sento a disagio; forse il retaggio degli anni novanta di occupazioni e manifestazioni, di scontri nelle piazze. Oggi che la gente è veramente alla frutta nessuno ci va più in piazza, nessuno s’incazza e grida in faccia al potere; ma la gente, di giorno, grida addosso al bangladese che gli ha venduto la birra la notte prima in Piazza Verdi. Al bar, insulta “quelli dell’est”, anche se Ana che pulisce il culo alla nonna è tanto cara, anche se è rumena. Ma cosa c’entra?
I poliziotti, davanti all’ufficio denunce, danno del “tu” automaticamente a chiunque non sia italiano e gli si rivolgono infastiditi come parlassero a un bambino scemo e un po’ rompipalle.
La casa non è soltanto un luogo, ma anche il fascio di sentimenti associato ad esso. Il trauma principale nei rifugiati, secondo K. Papadopoulos, è il comune doloroso abbandono della propria casa e il successivo tentativo di recuperarne una.
Ma fanno il loro lavoro. Fanno rispettare le leggi. Anche quelle che io non riconosco come giuste. Forse per questo non andiamo d’accordo.
Ma sono diventato grande – vecchio – e non polemizzo con uno che a stento parla la lingua ufficiale della nazione in una mattina qualunque mentre faccio una stupida denuncia.
Né inveisco contro la calabrese che sbraita nel gabbiotto a fianco.
Alzo le spalle, deglutisco il fastidio e me ne vado via.
Poi ci penso su. Troppo. Forse dovevo arrabbiarmi prima.
Non c’è più volume da alzare. Cresce solo una gran voglia di gridare e fa un po’ male in fondo della pancia.
Terrone. Così si dice dalle mie parti di uno nato al sud. Terrone del nord, così dicono di me in Lombardia. Polentone, così mi chiamano al sud.
Casa mia. Dov’è? Cos’è?
La mia ragazza non è italiana. Lo sarà tra poco, avrà un pezzetto di plastica con su scritto che è cittadina italiana. Temo firmata dal premier Conte. Sai che onore…
Ma le serve. Perché sono dieci anni che, ogni anno, deve rinnovare il permesso di soggiorno. Ogni anno in fila a lasciar le impronte digitali. Ogni anno a fare la domanda a luglio e riceverlo a gennaio, quattro mesi dopo che il precedente è scaduto. E in quei quattro mesi non può registrare un esame all’università, rinnovare la patente, cambiare medico. Andare a Londra senza richiedere un visto mesi prima in ambasciata. Già, io prenoto dal cellulare un volo a venti euro e vado a vedermi gli Idles all’Electric Ballroom e lei deve depositare il passaporto all’ambasciata e chiedere se può.
Il permesso.
Perché è una straniera. Una forestiera. Una che non è di casa.
Il permesso. Per stare. Dove stai. Dove hai fatto le medie. Il liceo. Dove ti sei innamorata. Dove hai scoperto le lacrime. Il cinema. Il sesso. I concerti. Dove lavori. Dove spendi i tuoi soldi.
Devi. Chiedere. Il. Permesso.
Casa mia. Casa tua.
Lei parla in italiano perfetto, senza accento e piuttosto forbito perché l’ha imparato a scuola e non per strada. Non il dialetto che io ancora metto nelle frasi. Non i verbi transitivi che si portano su i terroni quando scendono il cane, non quello dei romagnoli che hanno rimasto solo due sigarette, non le madonne che infilo come intercalare nelle frasi perché son de Belun quando mi agito.
Ma lei, ogni anno, ha passato giorni di rabbia perché maltrattata da qualcuno che la faceva sentire fuori posto. Come una che deve chiedere permesso.
Scusi, posso entrare? Perché non è a casa mia.
E tu, con quella divisa addosso, che aspetti il pacco di mammà con dentro la ‘nduja e le hai gridato in faccia di muoversi e l’hai fatta sentire indesiderata, ospite non voluta; tu, sei a casa tua?
Tu che guadagni meno del lavapiatti che stai umiliando e che mantiene una famiglia qui e una in Pakistan. Tu, che sei una terrona; sei a casa tua qui, in piena pianura padana?
Io, che sono un polentone che odia l’umidità di questa piana senza confine, che non dico soccia, che mi fa cagare il sangiovese e il tortellino; io sono a casa mia?
E tu che sei bolognese doc, che vai a farti l’aperitivo da Zanarini e spendi cinque euro a bicchiere per un rosso che su da me ti prenderebbero a sberle se solo glielo facessi vedere da lontano, tu che stai a San Lazzaro nella casa dei nonni e quando prendi il 27 imprechi per chiunque abbia qualche tono di scuro sulla pelle in più di quelli che gradisci tu. Tu, che ti senti a casa, sei poi così sicuro che la nonna non fosse una polentona venuta giù con la piena? O il nonno un bel terrone venuto su col treno della speranza che puzza di piedi scalzi ancora prima di entrare in stazione?
Essendo il luogo in cui gli opposti vengono fatti coesistere e sono mantenuti in equilibrio, la casa va a definirsi come la matrice stessa della soggettività. L’azione simbolica della casa sull’individuo si riflette anche nella vita sociale, andando a rappresentare un costrutto chiave che riunisce e sovrappone tre campi: l’intrapsichico, l’interpersonale e quello sociopolitico.
E se anche la tua famiglia fosse qui da sempre, dal primo fondatore della stirpe abitante di questa piana ricca e accogliente, tu pensi davvero che ce ne freghi qualcosa? Che noi, che di casa qui non siamo ma ce la siamo vissuta, sudata, pagata, pensi che ce ne freghi un cristo o una minchia di te e del tuo suprematismo? Lo sai che il supermercato in cui fai la spesa lo gestisce un pugliese? Che l’autista del bus che porta i tuoi bimbi a scuola è lucano? La dada di tua figlia all’asilo è albanese e la badante della nonna moldava? Che la pizza che ti piace tanto la fa un egiziano che ha imparato il mestiere da un napoletano. Lo sai, sì?
Dalle mie parti, molti anni fa, è nata la Liga Veneta. Poveretti ubriaconi incazzati con tutti. Teste di cazzo che si esprimono a rutti e poi vanno a lavorare con Bogdan e Medi e non si curano neanche del fatto che non siano italiani: parlano in dialetto e bevono grappa al bar, quindi vanno benissimo. Razzisti in teoria, per approssimazione. Tanto per incazzarsi con qualcuno perché la pagnotta è sempre e da sempre dura.
Quando studiavo all’università vivevo in un cesso di casa con cinque amici. Tre del nord, tre del sud. Facevamo per qualunque cosa “terroni contro polentoni”: a chi toccava pulire, a chi la spesa, le partite alla play, i mega tornei di Risiko. Il Ciga, che è nato e cresciuto a Reggio Emilia, diceva che lui era del centro Italia, anzi, che Reggio è centro, centro-sud, perché il nord sapeva di razzista.
Ho sempre riso di quelle che ho sempre creduto solo parole stupide. Divisioni ridicole.
Poi ho vissuto qui, nella cicciona e godereccia e accogliente Bologna. E ho visto il razzismo, quello vero. Quello dei sorrisi borghesi e radical chic di chi non ha pregiudizi ma i marocchini no. Di chi chiacchiera col barbone sotto casa e fa beneficenza alla mensa dei poveri di Santa Caterina, ma se la figlia esce con un albanese l’ammazzo.
Del “qui tutti possono fare tutto” ma nei posti che contano ci stanno solo i mortadellari, anzi, solo alcuni tra i cognomi che contano tra i cognomi che sanno di passatelli in brodo.
Qui tutti possono stare. Ma al loro posto. Perché qui è casa nostra, alla fine.
La perdita della casa come luogo ambientale e psichico è spesso la base dell’insorgenza del disturbo post traumatico da stress che porta a rivivere continuamente l’esperienza della perdita, a vivere in uno stato di perenne allerta e nervosismo. Di sfiducia verso tutto e continua tensione.
La miccia che prima o poi, spero, accenderà in un rogo furibondo. In cui le case non saranno più di nessuno.
Vorrei poter ancora alzare il volume. Ma non ne ho più. È stata solo una mattina storta. Solo una signora col passeggino che cerca di salire sul bus e nessuno la aiuta, perché è negra. Solo quella stronza cessa che non voleva ascoltare il tizio indiano o bangladese. Faceva il suo lavoro. Solo lo sbirro che Loro e Noi. E io sono stato zitto.
Solo stare zitti. Che ci siamo abituati. A sentire gli insulti. Le separazioni. I discorsi da suprematismo bianco. O nordico o regionale o bolognese contro quelli di Modena.
Non sono mai stato zitto. Stamattina non avevo le energie di discutere, può succedere.
Anzi no, non può succedere, perché è così che ci si addormenta, che ci si abitua, che ci si gira dall’altra parte.
Che è inutile arrabbiarsi se ti trattano male mentre sei in fila per il permesso di soggiorno, che poi magari fanno apposta a non dartelo oggi.
Che è inutile rispondere allo stronzo sull’autobus che a voce alta fa discorsi da nazista.
Che è bene farsi gli affari propri.
Discorsi da cagasotto. Quando siamo stanchi diventiamo tutti codardi. E loro, gli unici loro che considero “loro”, cioè altro da me; loro: i razzisti, fascisti, borghesi, sessisti, leghisti, il nostro attuale governo, le forze dell’ordine, le istituzioni che difendono lo status quo, chi usa ancora la parola “problema” quando si parla di migrazioni e cittadinanza. Loro ci hanno presi così, per sfinimento, stanchezza, che ognuno ha già le proprie battaglie e non si hanno sempre le forze per combattere quelle di tutti.
Una mia carissima amica che sta combattendo una guerra contro una malattia mi ha scritto di recente che le cure stanno funzionando. Al mio “che bello, quando ci vediamo?” ha risposto “mi opero e poi sconfiggiamo il fascismo”. La amo.
Non starò mai più zitto. Perché non si deve. Perché è un dovere alzare la voce.
Perché per mezza stramaledetta parola che non ho detto ho un mal di pancia e una voglia di bestemmiare che vorrei suonare al campanello di un Salvini del cazzo a caso e spaccargli il naso con una testata e lasciarlo lì, per terra, senza una parola, a domandarsi cosa sia successo, come sia potuto accadere nel corridoio di casa sua. Dove si sentiva sicuro. Protetto. A casa. A casa sua.
FABIO RODDA