Made in Barcelona.

Non era il mio primo PS e potrebbe esser stato l’ultimo, ma solo per sopraggiunti limiti di atleticità, più che di età: se non investi cifre da capogiro o non prenoti un anno per l’altro, sicuramente dormi oltre la Barceloneta, o nel bario Gotico, o, come io quest’anno, nel Raval. Il che vuol dire una mezz’ora, tre quarti d’ora di metro o tram all’andata e altrettanto su bus notturni, navette o, se c’hai veramente il fisico, con la metro di nuovo aperta dalle 5 del mattino.

Con questa opzione io venerdì ci ho messo comunque oltre un’ora a tornare. Sai, con giusto 100000 persone più o meno che provano a scendere nella stessa fermata e che si sparpagliano per la città, non va tutto proprio liscissimo.

Dentro al festival, poi, dagli enormi palchi Estrella Damm e Pull&Bear, ovvero il main stage in parallelo, al palco Dice, il più lontano, o anche all’Ouigo, l’ultimo nell’area principale del Forum, la passeggiata è di diverse decine di minuti. Poi, ovviamente, file ai bar, file ai cessi, ecc, ecc, ecc.

Insomma, il Primavera Sound è tante cose fantastiche, ma ha ormai una dimensione che costringe a tour de force di cui non sento il bisogno e di cui non ho più voglia. Forse.

Giovedì

Entriamo dopo un viaggio della speranza Milano-Francoforte-Barcellona (i voli diretti anche Ryanair costavano 300 euro A TRATTA già mesi fa), ovvero la soluzione più rapida nel range di costo accettabile per un volo da poche migliaia di chilometri. La sorpresa è forte fin dall’inizio: siamo arrivati tardi, all’ora in cui, gli altri anni, sulla salitona che porta all’ingresso del Forum non si vedeva quasi nessuno. Questa volta, invece, una marea umana si muove dall’uscita della metro senza soluzione di continuità fin dentro.

Suonano i Dinosaur Jr al palco proprio di fronte all’ingresso. Lo stesso – bellissimo, in una specie di anfiteatro – in cui li vidi qualche anno fa con quattro gatti davanti. Non riesco neanche lontanamente a calcolare quante siano le persone che affollano tutto lo spiazzo e gli spalti/scalinata fin in cima alla collinetta. Mai visto niente di simile.

Ascoltiamo qualche pezzo da lì, poi proviamo ad andare al bar. Proviamo, appunto, perché, non scherzo e non esagero, facciamo un’ora di fila per prendere una birra. Un’ora vera. In tutta la serata mi berrò due birre, io che me ne faccio due solo mentre penso cosa bere, di norma, in un qualsiasi pub.

Situazione ingestibile: sembra che il festival sia organizzato dalla parrocchia che non sapeva dell’arrivo di una valanga umana: cessi inarrivabili (ma tanto non bevi, quindi mica ci devi andare…), bar impossibili, palchi che sembra non si possano raggiungere.

Evito di muovere verso l’area big per aspettare Yo la Tengo allo stesso palco dei Dinosaur Jr e la situazione diventa più serena. Ovvio, il più giovane lì in mezzo avrà la mia età, sento parlare di Lire, cori per il Bologna FC e gran cannoni che passano qua e là. Bar sempre irraggiungibile, ma ormai mi sono rassegnato. Loro, sempre loro. Non li ho mai amati, sempre rispettati, tutto confermato.

Parto, armandomi di coraggio e con un filo d’ansia punto il main stage. Anzi, I. Perché son due, in parallelo: su uno si suona, sull’altro si fa allestimento. Tame Impala a sinistra prima, Pavement a destra poi. L’impianto audio è pazzesco: da centinaia di metri di distanza, l’ultimo spiazzo su cui si riusciva ad arrancare prima di un muro di teste oscillanti, la musica arriva perfetta e potente, disturbata solo a volte dal vento, ma contro di lui, anche l’impianto del PS deve arrendersi. Non amo Tame Impala, molti sì, arguisco dal delirio puro che ho attorno. Grandi performers e grande atmosfera, ma a me i pezzi proprio fan fatica ad arrivare. Amo invece di più i Pavement, che comunque non sono il mio gruppo preferito, e loro fanno un super live, da mettere nella mia top five di quest’anno.

La serata prosegue, io no: due aerei, bus, metro e niente birra chiedono una pausa. Il rientro sarà comunque una tragedia greca per un bus notturno che non passerà mai e vari ripiegamenti e una mezz’ora a piedi prima di far la nanna.

Venerdì

La sveglia a metà mattina si fa godere con una bella colazione sul terrazzino del b&b condita da un meno bello, ma scontato, shitstorm su tutti i social contro il Primavera: i cessi, i bar, il delirio. Qualcuno bravo, come il solito Damir Ivic, scrive su Soundwall un pezzo tosto ma corretto denunciando quello che sta succedendo. Altri, meno bravi, avvoltoi da tastiera si divertono a becchettare il (già) cadavere del festival più figo d’Europa ormai dato per defunto.

Fiduciosi, torniamo, sapendo che questa volta la serata sarà tutta nell’area big: a parte i Pond, si infilano Fontaines Dc e Beck, per me i due migliori live di tutto il festival, e The National e Caribou uno dopo l’altro sui due palchi grandi. Si trova un bello spiazzo sotto una colonna di casse, relativamente vicino a un bar e si fa lì la serata.Ma la cosa più bella è la sorpresona: sembra che il “locale” abbia cambiato gestione. I bar non sono affollati, non ci sono file ai cessi, si cammina serenamente fra una zona e l’altra. Ora, io non so veramente cosa hanno fatto gli organizzatori, ma qualcosa simile a un miracolo se lo sono inventati: è di nuovo il Primavera del 2018, affollatissimo ma sempre vivibile, caotico ma sopportabile. D’altra parte, se vuoi i festival da qualche migliaio di persone ci sono eventi meravigliosi come La Route du Rock o il nostro Ypsigrock. Non si può pensare di star comodoni a dieci metri dal palco con la birretta al Primavera Sound, è tutto enorme e, quindi, complesso.

Ma la serata è stupenda: due concerti, dicevo, di una bellezza rara: Fontaines DC, per me tra i migliori gruppi ora in giro (se non I migliori), hanno la maturità di affrontare un palco del genere con la strafottenza delle rock star. Sembrano nati negli stadi da 90000 persone, per quanto sono carichi e rilassati. Bravissimi. Bellissimi. Mercoledì torno a vederli qua al Magnolia, e questa volta voglio vedere proprio il muso di Grian Chatten a un palmo dal mio. Beck è inspiegabilmente più figo di vent’anni fa e in completo bianco balla e fa cantare una marea umana felice come se tutti stessero compiendo gli anni nello stesso giorno, nello stesso posto. Meraviglioso.

Poi, The National, centocinquantaseimilionesima volta che li vedo, ma sempre loro. Ormai il live è un “best of” che significa un boato dietro l’altro a ogni prima nota di chitarra. Caribou e i giovini cominciano a ballare, io faccio loro compagnia per un po’ e poi volo dall’altra parte del mondo a sentire King Gizzard & The Lizard Wizard. Dico sentire, perché di vedere non se ne parla: la folla è tanta, le mie energie meno. Entro nell’area palco, senza smettere di camminare butto l’occhio, esco dall’area palco, continuando a sentire le loro chitarre e la loro gran fotta. Non mi straccio le vesti: ero all’Hana-Bi quando Stu Mackenzie fece stage diving per farsi lanciare in mare e riportare sul palco dalla gente del Beaches Brew, mi son beccato il meglio già cinque annetti fa.Ma la cosa più bella è: zero ansia per i cessi, zero ansia per i bar, il che significa poter tornare il beone che sono e spassarmela fino a notte fonda, fino al concertone dei Mogwai che sfanculano di brutto la loro regina e il giubileo. Loro sempre grandiosi, non vanno in classifica perché i posti son solo cinque: ordini della potentissima Redazione di Sniffin Glucose. Cinque come l’ora del mattino a cui ci si muove verso casa: la metro ormai è aperta. Ci mettiamo comunque un’ora e mezza a tornare, ma si sa, dopo sette live e altrettanti birroni, la fatica scivola via di dosso molto meglio e si va a letto contenti.

Sabato

La sveglia di sabato è una felice lettura di pezzi che inneggiano alla bravura degli organizzatori del PS che hanno salvato tutto dopo l’infelice esordio. Anche qui, l’ottimo Damir scrive con grande lucidità, le faine da tastiera tacciono di fronte al festival redivivo. Noi, caffè e giusto un giro in spiaggia alla Barceloneta e si riparte per l’ultima notte al Forum.

Persi Low, Einstürzende Neubaten e Automatic per una sfiga dell’ultim’ora, già so che questa sarà la sera della grande rinuncia: niente Nick Cave. Vero, è una bestemmia, lo so. Ma, anche qui, settecentotrentaduemilionesima volta che lo vedo e a questo giro avrei dovuto rinunciare a quelli che vanno di diritto nella top five del festival: King Krule e Bauhaus.

Il primo, stessa faccia da ragazzetto che aveva quando lo vidi a Manhattan ormai quattro anni or sono, i secondi, teatrali e magnifici come avessero la metà dei loro anni, immersi in una nuvola di fumo che manco Marzio con la sua fog machine al Bolognetti Rocks dei tempi migliori. Prima di loro, Black Country, New Road. Carini, interessanti. Non mi prendono veramente e non sopporto la mise da “son qui per caso, mi hanno chiamato mentre facevo i compiti in cameretta” del cantante. Va bene il low-fi, va bene il DIY, ma santa polenta, una briciola di sex appeal, di caricanza e di esser fighi sul palco ci vuole, almeno per me che son vecchio e questa nuova estetica straccion-primi anni Ottanta mi fa vomitare.

Che poi par di usare un ossimoro, visto che ricordiamo gli anni Ottanta come un decennio di fighettismo, ma effettivamente c’erano allora anche mullet, maglie rosa larghe, baffi improbabili sotto cappellini brutti; scarpe basse e calzini su e tanti altri orrori oggi gioiosamente riproposti. Ma si sa, de gustibus non dispudanum est, dicevano i saggi. Bar liberi, bagni ancora di più, tutto fila liscio. Concerti bellissimi, ci lanciamo verso l’area main perché Damon lo voglio vedere e lui non si tiene: live dei Gorillaz bomba. Altro super gruppo che non amo particolarmente, ma la sua testaccia inglese sì, e alla fine me lo son goduto. Sempre a un chilometro dal palco, ma con un impianto da spavento e un’atmosfera di festa tutt’attorno.

Poi, restano le forze per i DIIV e una passeggiata per salutare il Forum. Ce ne andiamo prima che scappino tutti, mentre suonano su in alto i Beach House, proprio come nel 2018. Un rimpianto solo per Shame, troppo tardi e troppo stanco io. Me li godrò un’altra volta.

Primavera Sound

Insomma, com’è stato questo festival? Bellissimo. Bellissimo, non c’è altro modo di dirlo: vedere così tanti sorrisi, così tanti ragazzi vestiti come pare loro, pettinati/unghiati/stracciati/infighettati come pare loro, così tanti limoni sul finto prato che copriva (bravi) la polverosissima terra battuta davanti ai mega palchi, sentire quella vibrazione bella e potente, vedere le fattanze prese bene è sempre e comunque bellissimo. Anche la prima sera, quella del delirio al bar, ho visto più sorrisi che musi incazzati, abbiamo riso assieme (ma quanti italiani c’erano?) della disorganizzazione, la gente era comunque allegrona.

Perché, credo, malgrado i ruggiti dei leoni social, è comunque un evento magnifico, una cosa che fa stare bene. E dopo gli ultimi due anni, ne avevamo tutti bisogno.

Mi spiego: il Primavera aveva, come sempre, una line-up incredibile, però le dimensioni, le sovrapposizioni, le distanze lo rendono, secondo me, un festival da “festa” più che da concerto. Venerdì sono stato benissimo, fermo nello stesso posto per quattro live sui due palchi grandi ma ero a un festone, non a un concerto, che per me vuol dire star vicino alle transenne se non appoggiato a quelle, sentire la musica nella pancia mentre vedi le mani sulle chitarre.

Il Primavera si sta Coachellizzando? Probabile: tante fatine e unghie smaltate, tanto fluo, le boiler room, molti dj set. La settimana prossima suona Dua Lipa. Non è più il festival indie? Beh, bella scoperta: non lo è stato almeno negli ultimi dieci anni, già enorme e pieno di star.

Però. Però è stato bellissimo. Costa troppo, sia di soldi che di fatica, ma è stato bellissimo. E non mi veniva da sorridere così tanto da tanto tempo. E stare al bar e brindare con gli sconosciuti perché vi fate i complimenti per magliette dei gruppi vecchietti è bellissimo.

Il Primavera Sound è bellissimo. Non me ne vogliano i puristi dell’indie e i menagrami che non vedono l’ora di veder qualcuno sbagliare per dire che è caduto. Il Primavera è inciampato, verissimo, si è rimesso in piedi in meno di 20 ore (e davvero non so cosa e come hanno fatto, ma l’hanno fatto ed è stato un miracolo) e il sapore che mi rimane addosso, dopo un’altra odissea di voli ritardati tutto domenica, è comunque quello del sorriso, del mare al buio davanti a cui abbiamo brindato dicendo che non ci saremmo più tornati. Almeno fino all’annuncio della line-up del 2023.

Giovedì

Dinosaur Jr Yo la Tengo Tame Impala Pavement

Venerdì

Pond Fontaines DC Beck The National Caribou King Gizzard & The Lizard Wizard Mogwai

Sabato

Black Country, New Road King Krule Bauhaus Gorillaz DIIV Beach House mentre ce ne andavamo, come nel 2018 salutiamo così il PS22.

L’ultimo?

FABIO RODDA


3 risposte a “PRIMAVERA SOUND 2022 | MY TWO CENTS”

  1. Avatar Matteo Maioli
    Matteo Maioli

    Bellissimo articolo Fabio. Manca solo un accenno alle folli sovrapposizioni Gorillaz – Idles e Bauhaus – Nick Cave e alle defezioni di The Strokes e Bikini Kill, secondo me non degnamente sostituiti. Ma le impressioni sono più o meno le stesse, con la differenza che ho tentato di vedere qualche artista in più ma a scapito del finale di Beck, ad esempio.

    1. Avatar fabio rodda

      Grazie Matteo, un accenno alle folli sovrapposizioni c’è, ma nel postare l’articolo s’è perso: per vedere Kong Krule e Bauhaus ho dovuto rinunciare a Nick Cave. Verrà riportato completo. Grazie mille per lettura e commento

  2. Avatar fabio rodda
    fabio rodda

    ciso Matteo, grazie per la lettura e il commento. Un accenno alle sovrapposizioni c’era, ma si è perso nel caricamento del pezzo sulla piattaforma: per vedere King Krule e Bauhaus ho dovuto rinunciare a Nick Cave. Grazie mille ancora!

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