“So place your hard earned peanuts in my tin and thank the creator you’re not in the state I’m in” – (Spasticus Autisticus)

“The chances were slender. The beauties were brief” – (Sweet Gene Vincent)

‘Non sono un poeta, sono un paroliere’ – (Ian Dury)

Dickensiano d’infanzia e intenti, claudicante per maligna natura e piscina infetta da poliovirus, vagabondo di censo rock and roll, amante del Music-hall, avulso da tutto il cucuzzaro brit sebbene quintessenzialmente inglese in ogni esternazione. Homeless di lignaggio eppur amante dell’alta sartoria, Teddy Boy bohémien, affabulatore extraordinaire, cabarettista rabbioso, geografico di ritmi, patafisico nel porgersi, sbeffeggiante in e di vita. Ian Robins Dury è stato un Long John Silver tratteggiato di sberleffi, scorrettezze semantiche, black music, titoli caustici e Stax & Funk & Rock & Roll. Pregiato bardo della letteratura inglese, con pezzi e frattaglie che negli anni verranno presi un po’ ovunque, dai Clash ai Pogues (cosa non è ‘O’Donegal’?), dai Madness ai Libertines. L’immagine, pure: citofonare Rotten, obbligato da Malcolm McLaren ad andare a vedere ‘quell’uomo che ostenta una lametta come orecchino’ durante gli ultimi giorni dei Kilburn and the High Roads.

What a waste.

A Ian Dury arrivai tramite il solito ‘Ciao2001’ e uno spettacolo di Capodanno sulla RAI – credo 1979 – dove si presentò sul palco indossando un ghigno scapestrato in volto e una borsa di plastica da supermercato nella mano destra. Mostrava i denti e si leccava continuamente le labbra. Sembrava un adescatore di adolescenti. Stavo assemblando un puzzle per arrivare a mezzanotte, disperato come la morte. Dicevano avesse 40 anni (37 per l’esattezza, ma lo scoprii dopo), contraddizione in termini per l’iconografia rock, dove dovresti correre veloce e morire giovane. Lui zoppicava, invece. E io lo percepivo decrepito e fuori fuoco, perché nell’immaginario di mezzo secolo fa ’40 anni’ era un concetto che pervicacemente rifiutavo. Bastarono quattro minuti, una cantilena masticata e un paio malcelate smorfie. Il mattino dopo ero uno dei suoi.

Ascoltare Ian Dury e quella confraternita di super musicisti chiamati Blockheads è come girovagare in livrea ma con l’uccello di fuori nelle campagne attorno a ‘Downton Abbey’ prima di calarsi una pasticca di anfe per un po’ di sana rissa al pub. Rock. Movimento dal quale il nostro prende la rincorsa nel 1971 con la sua mistura di spoken word e calembour alla Fratelli Marx, caustico strillone di quotidiani. Ha già qualche esistenza alle spalle, alcuna persino sublimata e sopravvissuta. Dipinge benissimo e forse ancor di più, è amico di Peter Blake e si adopera come vignettista per il Sunday Times, insegna al Canterbury College of Art e di lì a poco andrà a recitare diretto da – ohibò e anche – Roman Polanski, Peter Greenaway, Alejandro Jodorowsky e Tim Pope. E ‘graziarcà’, raga. Ricorda un po’ l’altro grande (epperò francofono) artista multitasking coevo: Nino Ferrer. Ma qui di esistenzialismo ve n’è poco ‘eperfortuna’, che la pinta è sempre in bilico e un giro di schiamazzi notturni a Pimlico o Primrose Hill non si nega a niuno.

‘I could be the driver in articulated lorry I could be a poet I wouldn’t need to worry I could be a teacher in a classroom full of scholars I could be the sergeant in a squadron full of wallahs. What a waste’ – (What A Waste)

Non so se siete mai passati per Kilburn High Road. Io sì, spesso. ‘Me ne fregio’. Ero solito alloggiare tra Neasden e Willesden Green almeno quattro o cinque volte l’anno e dunque transitarvi nelle – ormai lontane, ostia – scorribande londinesi. Non ho ricordi di fiammeggiante vita rock and roll in loco ma dell’immenso Paddington Old Cemetery sì. Poco altro. I Kilburn and the High Roads che si accodano al pub rock hanno uno stilista come Tommy Roberts in guisa di manager (l’avete già sentita questa, vero?). Riescono addirittura ad aprire per gli Who ma il seguito rimane risibile nonostante due album di ottima fattura che indicano impervie vie tanto ai Sex Pistols quanto ai Madness. Londra ancora non brucia però fa già caldo. Tanto, anzi parecchio. Basta aspettare due giri di luna e una autocombustione non si nega a nessuno. Dury lo annusa e si mette in proprio. Il 26 agosto del 1977 esce ‘Sex & Drugs & Rock & Roll’ e non vi è abitante del pianeta che non la conosca. Un titolo che trascende la lingua, si fa inno e proverbio planetario, ‘phrasal verb’ di saltellanti intenti semantici. Una ‘Be-Bop-A-Lula’ fish and chips. Il Gene nella lampada con un giro di basso preso di peso dai polpastrelli di Charlie Haden in ‘Ramblin’’ di Ornette Coleman.

Ma il Dury che arriva al successo è soprattutto un disilluso signore di mezza età con prole (pochi mesi prima aveva presentato domanda da Harrods come ‘lift attendant’). Non che gli indizi indichino cambio di prospettiva dacché il singolo nella sua primeva incarnazione è quasi privo di riscontro. Il miserabile computo di 19.000 copie vendute è un’inezia per una industria discografica mai così potente e in salute. Nonostante la BBC lo censuri senza indugio (e quale miglior viatico per il successo essere ostracizzato dal mainstream?) e NME lo innalzi ‘Single of the Week’. Nulla da fare. Serve dunque ‘New Boots and Panties!!’ (Stiff, 1977), l’album. Che esce il 30 settembre del 1977, ha già in nuce spore Blockheads e riporta in copertina – immaginifica crasi tra ‘Ziggy Stardust’ e ‘Different Class’ – un ritorno al futuro e inconsapevole passaggio di consegne ritraendo il figlio Baxter a fianco del padre. Lo Spirito Santo guarda e alza il calice dall’alto del (finalmente!) milione di copie vendute.

“Here’s a little bit of advice you’re quite welcome, it is free. Don’t do nothing that is cut price you know what that’ll make you be, they will try their tricky device trap you with the ordinary. Get your teeth into a small slice the cake of liberty” – (Sex & Drugs & Rock & Roll)

 

Un Lp (sì, ellepi. E ci si deve guadagnare la fatica di girarlo) che è multiculturalità londinese, fa tesoro della tradizione ma è anche vaudeville e ‘Two Culture Clash’. Il singolone nella prima tiratura del disco non c’è ma viene inserito a gran richiesta nella ristampa. Ian Dury è un novello Fagin che gigioneggia in ‘Wake Up And Make Love With Me’ (‘rotola contro il mio corpo, portami dove vuoi. Quello che succede dopo è privato e anche molto maleducato’), rutta e scoreggia letteralmente dentro il groove epilettico di ‘Blockheads’ (eccoli! Punk a chi?), ‘Plaistow Patricia’ mette all’angolo gli Alternative TV e i Fall snocciolando tre accordi che faranno grandi Peter Doherty e canotte assortite. E se ‘Sweet Gene Vincent’ è la più bella dichiarazione d’amore che si possa fare a un idolo di gioventù (‘dolce Gene Vincent, ce n’è uno in ogni città. Ma quando la gamba ti fa ancora male e non hai più magliette devi rimetterti in viaggio’) allora ‘Billericay Dickie’ è orchestrina vittoriana e sghemba ‘uniquely british’ da tre palle e un soldo. Ma che testo, cristiddio. Ed è il 1977! ‘Clevor Trever’ diventa immediato classico. Tanto basta: Andrew King e Peter Jenner – già coppia manager dei Pink Floyd – prendono sotto l’ala protettrice il nostro.

Che si presenta per l’investitura magna all’Hammersmith Odeon nel maggio 1978, fresco delle vendite di cui sopra e di un seguito ormai divenuto pantagruelico. È il suo primo vero grande concerto nella capitale, il pubblico – in prevalenza punk – viene esortato dagli altoparlanti a prepararsi per l’arrivo ‘di uno dei grandi gioielli della corona inglese’. Sul palco giunge però Max Wall, vecchia star decaduta del varietà, eroe del nostro e fortemente voluto per scompigliare i piani. Un ‘épater le bourgeois’ al contrario, in pratica. E difatti. I ragazzi rumoreggiano incapaci di comprendere, la situazione si fa complicata. Ian Dury esce agghindato da azzimato dandy dei bassifondi, snobistico personaggio vittoriano. Immaginate Gary Oldman in ‘Slow Horses’. Solo zoppicante e con un bastone al quale appoggiarsi. Venti secondi di tempo, un’occhiata luciferina delle sue e centinaia di testosteronici adolescenti con la cresta si zittiscono. David Copperfield trova compimento.

A calar l’asso ci pensa ‘Do It Yourself’ (Stiff, 1979), un lavoro che cambia le lise mutande del punk, irridendolo di calembour e nonsense, mentre il nostro è già con i groove in Africa e il naso nei bagni dello Studio 54. Funk, jazz, reggae, Motown ottocentesca, ghigno surreale, humour osceno, Bartezzaghi di suoni e parole che si incastrano. Ha ufficialmente i Blockheads a sorreggerlo ora, un paio di loro provengono dai The Loving Awareness Band – qualcuno è transitato anche nei Kilburn and the High Roads – e sono una sorta di Harlem Globetrotters del pentagramma: c’è il Gallagher meno famoso tra quelli che hanno ereditato codesto cognome (Mick. Andrà in tour a impreziosire i Clash americani), un bassista di proporzioni epiche e natali indiani – Norman Watt-Roy. ‘The Magnificent One’ per noi adepti al culto – il sax urticante di Davey Payne e un genietto del meretricio sonoro chiamato Charles Jeremy Jankel (Chaz per gli amici). Vera spalla del capobanda, polistrumentista sofisticato e già co-firmatario di ‘Sex & Drugs & Rock & Roll’ (scriverà ‘Ai No Corrida’ per Quincy Jones. ‘Graziarcà’ credo d’averlo già detto). Kozmo Vinyl dietro le quinte è il loro Bez nonché ulteriore collante nascosto ed è altro bel personaggino da sviscerare (dico Clash e mi fermo).

Ma ‘quanto’ vi è dentro ‘Do It Yourself’? Mi sono preso la briga di andare a controllare sotto quale categoria venisse inserito dai tuttologi della rete. Discogs lo marchia come ‘new wave’, ‘dub’, ‘pop rock’, ‘disco’. Che è vero ma anche limitante per una congrega di strumentisti – e un eroe della classe lavoratrice – che vuole divertirsi, impastare qualcosa che si avvicini anche all’hip hop, irridere chi si prende sul serio, sbeffeggiare il re nudo, portare il vaudeville nei vecchi teatri dell’East End, tratteggiare un fumetto britannico lungo due secoli e trainare al guinzaglio Fela Kuti, Sister Sledge, Doobie Brothers, i Monty Python e la Giamaica (cosa non è ‘Lullaby for Franci/es’?) a spasso per Covent Garden. ‘Don’t Ask Me’ comincia come Love Boat e poi fa giustamente tappa ai Caraibi. ‘Waiting For Your Taxi’ è ‘screamadelico’ Curtis Mayfield, ma cantato da Uriah Heep. O Artful Dodger. Mentre ‘Sink My Boats’ è il più bel brano pop che non ha raggiunto le classifiche.

‘Had a love affair with Nina in the back of my Cortina a seasoned-up hyena could not have been more obscener she took me to the cleaners and other misdemeanours but I got right up between her rum and her Ribena’ – (Billericay Dickie)

Ian è poeta d’altre epoche, giullare ruminante di dittonghi, animaletto da palco incredibile e inquietante. Biascica, sberleffa scioglilingua, morde vocali, gargarisma inarrestabili estuari di rime che si rincorrono di volta in volta sopra un tappeto di possente e preciso miscuglio black o in rimasugli d’anni Trenta. Filastrocca oltraggi, riempie il canzoniere di storie che parlano di reietti, soul boys, relazioni fumettistiche, casi umani, amanti, copule improbabili, tossici e perdenti. Ha il suo personale ‘Spectacular Vernacular’ pieno di citazioni ingarbugliate, allitterazioni prodigiose, retaggi del varietà. Magus in Fabula nel trattare i personaggi che abitano i palazzoni di Zona 6, siano ‘Plaistow Patricia’ o ‘Billericay Dickie’.

‘Winnie The Pooh is having a wank, and what are you up to? Said Tommy the Tank, Peter the Rabbit is at it as well and all the young pixies in Dingelydell’ – (Fuck Off Noddy)

Qualcuno insinua che i Blockheads siano uno spreco di musicisti con un simile reietto pronto a dissacrare lo scibile, qualcun altro – e non sono pochi, invero – pensa che nulla sia mai stato così pieno di ipertesti (anche geografici) come quella Zuppa D’Anatra di suoni, visioni e liriche. Mi pregio di appartenere alla seconda categoria, non voleste credere a me potreste sempre prendere un manufatto a caso, tipo ‘Country House’ dei Blur, ascoltarne l’incipit metrico (‘city dweller, successful fella’) e poi chiedervi se non ve lo siete immaginato sputacchiato dal nostro, quasi fosse farina del suo sacco. Ecco.

‘He’s reading Balzac, knocking back Prozac’.

‘Laughter’ (Stiff, 1980) sebbene in discesa libera di patimenti è comunque summa teologica di suoni e way of life, peste colga chi dissente. Davey Payne cesella di sax, John Turnbull (non lo si confonda con quello di 23 Skidoo) piazza riff col bilancino, Charley Charles percuote pelli d’afflato Chic, Norman si prende in spalla l’intero groove, Ian Horne disegna il suono. Ne manca uno, vero? Chaz Jankel non c’è, è occupato a edificarsi una carriera solista che scopriremo tutti grazie a quel ‘Questionnaire’ che porta gli Steely Dan dentro il Loft di Mancuso. Ian risponde prendendo in formazione Wilko Johnson e conducendo i Cramps (‘Delusions of Grandeur’) al carnevale giamaicano. Ma è periodo buio e difficile, con il nostromo infognato in problemi con l’alcol e il Mogadon (Nitrazepam per gli amici), ciò non toglie che ‘Yes And No (Paula)’ sia un capolavoro del quale non si può parlare e quindi bisogna tacere. Ma scopritelo. E poi ‘Oh Mr. Peanut’ siglata Johnson. Wilko Johnson. E ‘Manic Depression (Jimi)’ che è West Coast e Dolly Parton. E Harry Belafonte. O ‘Fucking Ada’ (si può dire fucking?) che non capisco perchè non venga ululata dagli spalti degli stadi di tutto il mondo. Vi partecipano Ivor Raymonde (collaboratore di Dusty Springfield nonché padre di Simon di Cocteau Twins) e Don Cherry che presta la sua tromba anche per un tour dal tutto esaurito che solo i figli del Vallo di Adriano possono capire.

Eppure, nonostante i problemi personali e il crollo di vendite, in quel 1981 Ian Dury continua a essere considerato una delle eccellenze d’Inghilterra, stimato trasversalmente, ne è riprova quando rispedisce al mittente l’offerta (e una vagonata immane di royalties) di Andrew Lloyd Webber per scrivere i testi del musical ‘Cats’. La spiegazione? ‘Non sopporto la sua musica’.

‘Lo intitolai ‘Laughter’ per tirarmi un po’ su’ – Ian Dury

E poi – la chiudiamo? Ian si sarebbe già smerigliato i santissimi – vi è ‘Lord Upminster’ (Polydor, 1981) che torna a privarsi dei Blockheads ma non di Jankel. Sul retrocopertina sembra di vedere i Fall con Sly e Robbie e questi ultimi due partecipano davvero. Disco che è Kingston ma anche tangenziali dell’Essex, On-U Sound, Larry Levan, i Compass Point Studios di Nassau (dove viene registrato), la pinta alle cinque del pomeriggio al posto di quella ustionante brodaglia del cazzo chiamata tè. Un lavoro che ha parentesi davvero funky disco come da onomatopea in ‘Funky Disco (Pops)’, lovers rock (‘Red Letter’) e la pesante mano di Jankel (qui contraltare perfetto) a unire guarnizioni armoniche.‘The Body Song’ è Stele di Rosetta di parecchia merce black a venire, ‘Trust (Is A Must)’ ha quell’intreccio ritmico che rende necessario alzare lo sguardo verso gli scaffali in cerca del santino di James Murphy – sempre che abbiate gli scaffali a New York – e ‘Lonely Town’ ha un ritornello da classifica altrui. Il titolare lo ripudierà quasi subito, la critica lo sommergerà di reazioni negative. Io continuo a pensare che ‘Lord Upminster’ sia davvero quel meraviglioso ipermondo quantico privo di steccati dove Wailers (c’è Tyrone Downie), Tom Tom Club (Tina Weymouth partecipa alle registrazioni assieme alla sorella Laura) e Kool & The Gang giocano a fare gli Happy Mondays. E che la DFA si sia abbeverata assai su questi solchi.

La chiudiamo davvero qui? No, dai. Non ancora. Come tralasciare l’ascolto di ‘4,000 Weeks’ Holiday’ (Polydor, 1984) dove si fa accompagnare dai Music Students, Rico Rodriguez, Andy Fearweather-Low, Ray Cooper e Steve Sidwell? Aggiungo sul filo di lana ‘Apple’ (Wea, 1989) nel quale fa di talento mestiere, eppure racconta di pece e smalto ‘Love Is All’, canzone che profuma di Kirsty e Shane.

“Cheddar cheese and pickle, the Vincent motorsickle slap and tickle, Woody Allen, Dali, Dimitri and Pasquale, Balabalabala and Volare. Something nice to study, phoning up a buddy, being in my nuddy. Saying hokey-dokey, singalonga Smokey, coming out of chokey, John Coltrane’s soprano, Adi Celentano, Bonar Colleano” – (Reasons To Be Cheerful Part Three)

Nel 1998, già malato, sarà ambasciatore Unicef assieme a Robbie Williams (che lo citerà quale massima influenza) per una campagna vaccinatoria nello Sri Lanka. E chi meglio dell’uomo che nel 1981, senza compromessi e nell’Anno Internazionale del Disabile, aveva dato alle stampe quella Mutant Disco dai glutei Chic provocatoriamente titolata ‘Spasticus (Autisticus)’, laddove ‘Spasticus’ veniva eruttato come ‘Spartacus’ proprio per sottolineare la rabbia e il desiderio di riscatto. Andrà a descriverla come un ‘canto di guerra’. Non poteva essere altrimenti per un uomo con la parte sinistra del corpo semi paralizzata dall’età di sette anni per una poliomelite che l’aveva costretto in istituto per un lustro. ‘Sevizie e abusi del personale compresi’ avrà a dire.

“Ciao a te laggiù nella Terra Normale, potresti non comprendere la mia storia o non capirla. Mentre passo davanti alla tua finestra, lanciami sguardi fortunati. Puoi essere il mio corpo, ma non leggerai mai i miei libri” – (Spasticus Autisticus)

Un testo così possente, brutale e scorretto – ‘sbavo quando mordicchio’ – da finire ancora una volta sotto la mannaia dalla BBC, incapace di comprenderne la portata. Bisognerà attendere le Paralimpiadi del 2012 e gli Orbital (che la useranno come jingle) perché ‘Spasticus Autisticus’ abbia la rilevanza sociale e letteraria che merita. Dei Novanta di Ian Dury vi è poco da dire: qualche comparsata (Madness, Curve, Carter USM), due dischi passati sotto silenzio (‘The Bus Driver’s Prayers And Other Stories’ più ‘Mr. Love Pants’), raro interesse del pubblico. Ma non perde la verve, sia mai. Nel 1997 fonda la propria etichetta e la chiama ‘Ronnie Harris’. ‘È il nome del mio commercialista’ disse ‘così sono sicuro che ci penserà due volte prima di fregarmi’.

Questo era – anche – Ian Dury.

Adesso la chiudo sul serio, che c’ho i lucciconi perché a quell’uomo ho voluto molto bene. Ian Dury è stato il più terzomondista tra gli autoctoni d’Albione, intellettuale marxista ‘tendance Groucho’ che rifuggiva l’ovvio come la peste e io non ho più tempo, energie e voglia di illustrarvi un amore. Vi saranno però reunion gloriose dei Blockheads fino alla fine, fino a quell’ultimo concerto al London Palladium il 6 Febbraio 2000, ancora una volta tutti assieme. Sei settimane dopo – 27 marzo 2000 – il nostro(mo) ci lasciava. ‘Got a sense of tumour’ dirà con la sua solita et vetriolica spavalderia.

‘Was a very hungry fella I defrosted my paella came down with salmonella. Three weeks intensive care’ – (Poo-Poo in the Prawn)

‘Arseholes, bastards, fucking cunts and pricks, aerosol the bricks a lawless brat from a council flat, oh-oh a little bit of this and a little bit of that, oh-oh. Dirty tricks’ – (Plaistow Patricia)

Sto riascoltando da una settimana quella meraviglia di ‘Ian Dury: The Studio Album Collection’ (Edsel, 2014), grasso bignamone nel quale parte dello scibile viene sparso sulle moquette dei pub prima dell’ultima campana, con rimasugli di arachidi salate tra i denti, il foglio delle scommesse in mano, le corse dei levrieri in tv e una scazzottata con Benny Hill in sottofondo. Ci si puote biascicare una vita, sculettando e rimanendo basiti da cotanta perizia, in questi nove cd. Titoli favolosi (‘I’m Partial to your Abracadabra’, ‘Uneasy Sunny Day Hotsy Totsy’, ‘(Take Your Elbow Out Of The Soup) You’re Sitting On The Chicken’, ‘Poo-Poo In The Prawn’, ‘D’Orine The Cow’, ‘Jack Shit George’) E poi l’apoteosi: ‘The Bus Driver’s Prayer’, il Padre Nostro recitato citando le fermate londinesi del bus. E brani ancor di più: fatevi da soli due conti tramite la versione 12” di ‘Reasons To Be Cheerful, Part Three’ (la sua ‘Prisencolinensinainciusol’). O ‘Rattle In My Pocket’. O ancora ‘Cacka Boom’ che è pura New York Disco Jazz. O ‘You’re More Than Fair’, salsa e bossa e Hawai e la Honest Jon’s dovrebbe farci un pensierino. O ancora ‘Uncolhool’ edificata su un titolo geniale e un DNA che Strummer e Jones amavano sovente clonare, genuflettendosi. E infine quella panterata bon chic bon genre di ‘Hit Me With Your Rhythm Stick’ (numero uno in classifica, altro milioncino di copie e sax furtato da Rahsaan Roland Kirk. Ciao, Rip Rig + Panic) dove davvero si balla from Milan to Yucatan every woman and every man.

Nessuno mai come Ian Dury & The Blockheads. Sappiatelo, ‘Clever Bastards’ che non siete altro.

“Sono carismatico e non mi vergogno del mio aspetto fisico. Anche le persone attraenti hanno una debolezza. La mia debolezza è così evidente che non ha senso preoccuparsene. Fortunatamente sono piuttosto interessante da guardare. Lo so perché quando studiavo arte mi sono dipinto circa 500 volte” – (Ian Dury)

“One of few true originals of the English music scene” – (The Guardian)

Our Father

Who art in Hendon

Harrow Road be Thy name

Thy Kingston come

Thy Wimbledon

In Erith as it is in Hendon

Give us this day our Berkhampstead

And forgive us our Westminsters

As we forgive those who Westminster against us

Lead us not into Temple Station

And deliver us from Ealing

For thine is the Kingston

The Purley and the Crawley

For Iver and Iver

Crouch End

Michele Benetello


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