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Ricorda che tutta la vita è un brevemente insieme
https://michellesalom.wordpress.com/amore-2-0/

La donna che ama come un uomo non è male. l’uomo che ama come una donna finisce in qualche lurido motel di frontiera a piangere come un vitello scannato.
Efraim Medina Reyes (C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo)

To be alone with me and went up on the tree/I’ve never known a man who loved me.
Skip. Skip. Skip. Presente quella pubblicità orrenda che si deve sorbire chi, come me, non ha nessuna voglia di pagare il canone mensile di Spotify e ne usa la versione “free”? Ecco: skip, skip, skip. Salta, passa oltre, vai avanti prima che il pezzo sia finito. Le prime tre note, i primi accordi. Poi via: altro pezzo. Senza stare a sentire che giro verrà dopo, senza neanche domandarti se ti perderai il riff della vita che non sta nei primi quindici secondi, se le parole dell’ultima strofa sono poesia. Non ci pensi su e via, altro pezzo. Skip.
Il metro della nostra solitudine è il ritmo dello skip: un’altra foto su Facebook a cui mettere mi piace, un altro selfie sorridente, altre gambe stese in acque azzurre da desiderare, avere, collezionare e dimenticare. Skippare.
Cambia sorriso, annusa un’altra pelle prima di averne scoperti tutti i nei, prima di ricordarti le piccole rughe che le disegnano gli occhi quando sorride. Passa avanti prima che quella voce diventi familiare, prima che possa fermarsi dentro la pancia e tu possa svegliarti con la voglia di sentirla, magari di fermarti e chiedere: «ma chi sei tu?» e di stare ad ascoltare la risposta.
You gave your body to the lonely/They took your clothes/You gave up a wife and a family/You gave your ghost.

I could give so much more.
I trenta sono i nuovi venti. I quaranta i nuovi trenta e via così. Ho sempre pensato che fosse una stronzata assoluta: una scusa per giustificare la nostra voglia di non crescere, la nostra pigrizia, la nostra paura di invecchiare. La scusa per non impegnarsi, non amare perché non c’è tempo, perché da single puoi fare quello che vuoi, andare a letto con chi vuoi, hai il tuo tempo per te e blablabla. Una grande, simpatica, puttanata da dire agli amici quando commentano le tue occhiaie per l’ennesima serata extra-time al Covo.
Fino a ieri. In una notte assurda per le strade di Bruxelles fra mille discorsi a metà, iniziati e persi fra le birre, lei mi dice: «dai che lo sai, tu non hai neanche trent’anni. La nostra generazione ne ha dieci di meno, almeno! Me l’ha detto mia nonna: loro si sposavano, facevano figli giovani perché avevano visto la guerra. I nostri genitori no e quindi hanno cazzeggiato, si sono sposati, divorziati, incasinati. Noi neanche quello. Perché siamo troppo lontani dalla guerra.».
La guerra come metrica della crescita, come linea di dolore che ti costringe ad andare avanti per credere in qualcosa di migliore. La guerra come assenza di pace, come abitudine alla sofferenza, alle macerie. Ma anche come speranza obbligata che diventa necessaria: non possiamo non credere che finirà, che la vita migliorerà. Non possiamo non darci prospettive.
Forse noi crediamo, forse purtroppo sappiamo, che il meglio per noi è già venuto e per questo ciclo possiamo solo vedere appannare quello che abbiamo sognato. Forse questa sensazione si è talmente infiltrata nelle anime che non ne siamo nemmeno più coscienti, è solo il dato evidente da cui partire. Forse non sappiamo più amare perché non sappiamo più sperare.
Sometimes, I still need you.

All this time I’ve loved you/and never known your face/all this time I’ve missed you/and searched this human race.
Siamo costretti a sognare. Sempre. A darci obbiettivi irraggiungibili. Così da poterli fallire senza troppa disperazione. Supereroi dell’immaginazione e conigli sui marciapiedi sempre più rabbiosi, faticosi, infelici. Immaginiamo la vita e la fotografiamo su Instagram e chi ha le energie per vivere davvero?
A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi sfuggono, cercando altri sguardi, non si fermano. Se uomini e donne cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia d’inseguimenti, di finzioni, di malintesi, d’urti, di oppressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe. (I.C.)
Siamo effimeri, come tutto quello che ci circonda, come il mondo pacificato e sempre sull’orlo del disastro che ci hanno dato in eredità nonni concreti e padri irrisolti.
Ma dobbiamo essere supereroi, sognare di immolarci per una principessa che non c’è, montare un bianco destriero che è una bicicletta piena di Moskow Mule alle quattro del mattino, cavalieri senza macchia che non potrebbero reggere nemmeno il peso di una promessa. Ma sempre pronti a proclamare la missione, il sogno di avere un motivo che trascenda le albe e i tramonti.
Wanna stay right here/until the end of time/‘til the earth stops turning.

When your body aches/From the unresolved dreams you keep/And the hours passed by/Just left on repeat (…) Don’t burn so late.
Un momento dopo. Un po’ più in là. Sempre. Fratelli inconsapevoli di Tristano, Otello, Mercuzio, lottiamo in bilico tra il sogno di edificare castelli impenetrabili in cui nascondere una fata, quella che non esiste nemmeno nelle fiabe che nessuno ci ha comunque raccontato da bambini. E la curiosità della pelle, seconda solo al silenzio del cuore. In un mondo ostile, complesso ed incomprensibile, in cui, sappiamo, il nostro posto è stato già preso da qualcuno che non se ne vuole andare o da qualcuno arrivato dopo quasi per caso. In una realtà che ci sfugge ogni giorno, in cui dobbiamo combattere per avere il minimo accettabile ma questo minimo è già il massimo a cui ambire, vaghiamo per terre di mezzo in cerca di un drago da sfidare finendo dietro banconi pieni di alibi. Perché il mal di testa del giorno dopo è un’ottima scusa per non dover ambire a qualcosa di più. Anche solo a cercare il modo di comprendere i suoi sguardi, di capire i suoi occhi, forse stufi di incontrarne ancora altri di un colore diverso. Forse pronti a fermarsi.
It’ll be a silent day/I’ll share with you/Fighting off the hostiles/With whom we collude/Am I hoping to find the key To this play of communications/Between you and me.

The less we say about it the better/Make it up as we go along.
Non ne sappiamo un cazzo e andiamo avanti a caso. Vaghiamo come bambini cresciuti senza accorgersene e non siamo capaci di accettare uno scopo, uno solo. Un impegno, una strada, una sola. E quindi, come pensare ad una vita da passare assieme? Quanto costa condividere il futuro? Quanto, essere in balìa non più solo di se stessi, che già è una fatica enorme?
Siamo tiranni egoisti mai svezzati e cresciuti in un ring in cui la campana che ferma i cazzotti non suona mai.
Oppure siamo solo sinceri, liberi dai vincoli della necessità. Liberi da una morale unica. Possiamo fare quello che vogliamo. Nessuno sa più dire cosa è giusto e cosa no, cosa si può e cosa no. Credere in qualsiasi cosa è quasi un imbarazzo, un segno di debolezza della mente. Credere, addirittura, nell’amore, quella cosa che vediamo continuamente fallire attorno a noi, è indizio di precoce arteriosclerosi, demenza senile o povertà di cuore.
Paradosso di questi tempi: cuori piccoli giudicano come inadeguati cuori che non hanno paura di riempirsi, rompersi, ricucirsi e ricominciare a pulsare.
Possiamo fare quello che vogliamo e quindi ci perdiamo. E cerchiamo. E non possiamo smettere di cercare perché ci siamo dimenticati cosa stavamo cercando. Sappiamo solo cercare. Corriamo perché, come insegna Forrest Gump, dobbiamo correre per andare dove stiamo andando.
Come la vita fosse un romanzo di Cormac McCarthy, camminiamo (corriamo) in mezzo alle macerie di un mondo che prometteva muri crollati e libertà e ha dato smartphone e terrore e gente che muore sulla spiaggia mentre tu fai il bagno. Mentre tu continui a fare il bagno.
Corriamo e ci perdiamo e quegli occhi che ti fanno tremare la pancia li lasciamo lì, a bordo strada perché non abbiamo posto per un fardello che non è il nostro, per un cuore che batte a ritmo diverso.
Perché il bosco da attraversare è sempre molto scuro e fa sempre molta paura e una mano amica potrebbe cominciare ad andare piano e costringerti a rallentare o, peggio, potrebbe decidere che deve andare più veloce e lasciarti indietro.
Forse tutto questo buio è solo la scusa per le nostre debolezze, o l’ombra in cui queste nascono. Ma andiamo, siamo in movimento e finché ci si muove si è vivi, ed è già qualcosa.
Magari, in realtà, stiamo solo aspettando di incontrare una donna che ci faccia dire finalmente: Home – is where I want to be. But I guess I’m already there.

Fabio Rodda


3 risposte a “Uomini 2.0 – l’amore ai tempi di Spotify (Fiver # 49.2015)”

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    soundchoke

    L’ha ribloggato su Soundchoke.

  3. […] Questo sberleffo nei confronti del genere maschile non passa indifferente, e nel giro di poche ore arriva una risposta: Uomini 2.0. […]

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