Se dovete salire su un palcoscenico fatelo come si deve.
Non pensate mai, neanche per un attimo, di mettervi lì, sotto la luce dei riflettori credendo che per risultare interessanti siano sufficenti due accordi e una strofa a proposito dell’ultima ragazza che ha scelto un altro al posto vostro.
Se decidete di suonare in pubblico fatelo come se dovesse essere l’ultima cosa che potete fare in vita vostra, suonate come se non ci fosse un cazzo di domani.
I Gun Club suonavano cosí. A Los Angeles, 1981. Tutto subito, in quel momento, su quel palco.
A costo di bruciarsi, come poi effettivamente é stato.
Una scintilla, due album clamorosi e puff, magia sparita, fine delle trasmissioni.
Troppi sentimenti, troppe menate, troppe storie al limite per poter davvero andare avanti.
Sí, lo so, la discografia ufficiale dice che il gruppo rimase in circolazione fino al 1993 ma per quello andate a vedere wikipedia.
C’é una canzone, la mia preferita, nel primo album del gruppo Fire of Love.
Una canzone che ad ascoltarla ora giá si capiva come sarebbe finita.
Tragica, evocativa, drammatica, bellissima.
Fire Spirit non dura nemmeno tre minuti ma non é necessario un secondo di piú.
È l’essenza del talento visionario di Jeffrey Lee Pierce….
Why can no one ever touch a Fire Spirit?
Why can no one ever hold a Fire Spirit?
Why can no one ever feel a Fire Spirit?
la coscienza che anche in quel mondo, in quella scena di talenti fuori dal normale (la Los Angeles dei primi anni ’80), nessuno avesse una sensibilitá romantica come la sua da condividere.
Emergeva giá (in fondo si tratta del primo album) l’esigenza di trovare il proprio spirito, lontano dal sunset.
I am going to the mountain,
I am going to the mountain,
I am going to the mountain….
I can see clearly
from my diamond eyes,
I’m going to the mountain with the Fire Spirit,
no one will accept all of me…
and the fire…will stop…
Fuggire via, verso la salvezza.
Ma cosí non é stato.
Il fuoco si é spento, come amaramente metteva in conto lo stesso Jeffrey.
C’è dell’epica in queste storie ed in queste canzoni quasi di frontiera, arrivano echi di un mondo che non esiste piú.
Quella California, quella Los Angeles sono cambiate profondamente nel frattempo.
Ma il meccanismo é rimasto sempre lo stesso, in fondo.
Gli occhi di diamante dei mille talenti che sbarcano nella terra promessa dell’industria dell’intrattenimento e ne escono a pezzi.
Oppure profondamente cambiati.
Jeffrey Lee Pierce se ne andó per una banale emorragia cerebrale nel 1996 a Salt Lake City.
Aveva 38 anni.
Due anni prima della tragedia lo vidi per l’ultima volta, in versione solista, in un club infimo non mi ricordo se in Austria o Germania.
Eravamo in 20. Scazzati, come e piú di lui.
Fece un concerto orribile.
Mi ricordo che in macchina, tornando a casa, con la mia compagna dell’epoca non scambiammo neanche una parola.
Diventa difficile vedere un uomo cadere a pezzi di fronte ai tuoi occhi e rimanere impassibile.
Ma non ero né deluso né arrabbiato.
Mi ero immedesimato in Jeffrey e pensavo che dopotutto la sua parabola in un certo modo rappresenta il nostro destino.
Semplicemente il fuoco aveva smesso di ardere e la consapevolezza della cosa che dimostrava su quel palcoscenico faceva quasi paura.
Avrei voluto abbracciarlo, alla fine.
Dirgli: va bene cosí, cazzo.
Torna a casa.
Mi devo invece accontentare di far partire ancora una volta Fire Spirit, é l’ultima della prima facciata. Sorrido, pensando che in fondo quello spirito non é andato perduto.
Mi aiuta a tenere la giusta rotta.
Giorno per giorno, finché sará il caso.
Cesare Lorenzi