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Esistono band che si trasformano in “classici” in poche settimane.
Esistono band che hanno la presunzione di cambiare la vita delle persone.
Esistono band che si amano per l’attitudine, prima ancora che per i suoni o per le canzoni.

Esistono band come le Savages.

La musica che ci piace di più ama il confronto, la discussione e non si limita a fluttuare nell’ambito dello scontato.
Nessuna polvere di fata, in definitiva.
Non si parla di suoni, non si parla solamente di canzoni, in questo caso, o quantomeno non solo. Come ha ripetuto spesso ultimamente Jehnny Beth, la cantante delle Savages: la musica dovrebbe essere una fottuta forma d’arte. Non è pretenzioso ricordare al mondo questo fatto prezioso. Ma la verità è che la musica viene utilizzata e riutilizzata come una puttana. L’unica opzione valida per un musicista è stare in piedi di fronte al mercato e sostenere che questa è una cazzo di forma d’arte. Per pensare meglio, per sentirsi meglio, questo è quello che dovrebbe essere il fine della musica.Savages_-_Silence_Yourself

If you tell me to shut up, I would tell you to shut up*

Non sono una band come le altre, le Savages. Vedere sulla copertina dell’album d’esordio, Silence Yourself (Matador 2013), una vera e propria dichiarazione d’intenti, una sorta di manifesto è vicenda che ai nostri tempi è diventata una rarità. Una roba che ci rimanda ai tempi del primo post-punk, quando l’energia di una musica primitiva, istintiva e definitiva si amalgamava con la pretesa di elevarsi artisticamente in qualcosa che potesse davvero colpire il cuore delle persone.

Arte e non mercato, innanzi tutto, ma anche idee e non conformismo.
È fantastico quando oltre ai suoni circolano anche parole, opinioni e contraddittorio e una scheggia di esistenzialismo a fare da perimetro.

A dire il vero in questo manifesto introduttivo al loro mondo, le Savages, dicono qualcosa di molto semplice. Lo fanno con enfasi e parole adeguate. Ma il concetto è disarmante: abbiamo fatto tutti quanti un passo troppo in là, il rumore ci sommerge. Dobbiamo fermarci un attimo. Stare in silenzio e ripensare. Alle cose davvero importanti della nostra vita. Silenzio e non rumore. Quel silenzio però capace di essere talmente forte da risultare assordante.

packshot_savages_hd_1024x1024Le Savages ci costringono a ripensare anche al nostro approccio con la musica. Al senso che troviamo veramente nel nostro affannarci al prossimo ascolto, alla prossima novità. Finito uno sotto l’altro. Senza sforzi apparenti, è sufficiente un semplice movimento dell’indice per archiviare una band e ripartire con una nuova canzone. Con il risultato che tutto si trasforma in rumore di sottofondo. Nessuna profondità solo superficie. La musica gratuita comporta questa assurda penale da scontare: nessuno ha più velleità di elevarsi, tutti troppo occupati a sopravvivere nel grande oceano della socialità virtuale, mentre la vita vera scorre lì fuori e nessuno sembra accorgersene o comunque preoccuparsene.

La nuova fruizione della musica prevede tanti “mi piace” ma pochissimi amori veri, purtroppo.

Le Savages entrano sul palco e rimangono ferme immobili, in silenzio. Scrutano il loro pubblico per alcuni secondi che diventano interminabili. Vogliono solamente assicurarsi di creare una connessione di sguardi, sentimenti e coinvolgimento. In tasca i cellulari spenti, come si premurano di far sapere alla loro audience prima del concerto, e poi via: 50 minuti di bomba post-punk, roba da lasciare annichiliti.

Non si limitano al mero aspetto sonoro, avrete inteso. E su questo punto è inutile da un certo punto di vista spendere troppe parole. Perchè, sì è vero, sono un gruppo derivativo. Dannatamente già sentito. Ma i riferimenti sono quelli giusti e questo basta ed avanza. Tutto il resto è attitudine ed energia. Non serve molto di più, sopratutto quando quel di più è roba che è diventata merce rara. Le menate a proposito dei “derivativi” mi avevano già stufato ai tempi del primo Jesus and Mary Chain, per dire. E sono passati 29 anni.

L’approccio è a 360 gradi, inoltre. Guardatevi i video, per esempio. Meritano tutti. Particolarmente bello l’ultimo in ordine di tempo, questo…

Il rimando è a “lo straniero”, il romanzo di Albert Camus. Un’opera che aveva già influenzato i Cure in passato, in una delle migliori canzoni del post-punk inglese, un singolo del 1978, “Killing an Arab“. Un urlo contro l’assurdità della vita, vero manifesto esistenzialista.

I numerosi riferimenti alla sessualità femminile delle canzoni hanno fatto sì che nomi come quelli di Liz Phair, PJ Harvey o Patti Smith venissero tirati in ballo. Quel che è certo è che l’argomento ha la sua importanza nelle dinamiche della band, con opinioni che hanno fatto discutere. In particolare quando Jehnny Beth, la cantante, ha ammesso di apprezzare la pornografia che come ha spiegato: mi ha aiutato a liberarmi dalla pressione del romanticismo e dal mito del piacere della donna.

Le Savages si limitano ad evitare filtri quando si tratta di comunicare con il proprio pubblico, cercano di essere brutalmente oneste a rischio di risultare poi vulnerabili, che si tratti di sessualità o meno. Ma nel loro caso non valgono gli artifici di scena, così comuni in ambito pop. Inseguono e cercano di realizzare, alla fine dei conti, solamente quella che è la magia dell’arte: alzare il volume, nel loro caso, mettersi a nudo senza barriere e entrare nella vita delle persone come una tempesta. Alla faccia della banalità di chi parla di semplici canzonette.

A questo punto dovrebbero semplicemente uscire di scena. Sarebbe perfetto. Del resto la rabbia di questo ruggito ha per forza di cose vita breve. Non hanno sbagliato nulla e nulla è probabilmente migliorabile. E questa è musica che non può perdere d’intensità neanche un pò, a rischio di trasformarsi in triste rappresentazione. Un debutto, una folgorazione, un addio. Poi, tra dieci anni, il palco principale del Primavera per la reunion. Che razza di mondo.

Cesare Lorenzi

* Shut Up, Savages

Le Savages saranno in tour in Italia nei prossimi giorni, il 24 al Tunnel di Milano, il 25 al Circolo degli Artisti a Roma ed infine il 26 a Bologna al Locomotiv.


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