Fatemi il nome di qualcuno che riuscirebbe a togliersi da quel ginepraio che era Berlin per fare Sally Can’t Dance – un disco di facili costumi, che ha svicolato dai gusti dei fan di vecchia data per fare tutte le concessioni possibili al genere commerciale, scendendo al livello più basso di porcheria tollerabile – e saprebbe far arrivare quel disco di merda tra i primi dieci in classifica.
Lester Bangs
I Velvet Underground sono uno dei miei gruppi preferiti di sempre.
Mi piace tutta la loro discografia.
E apprezzo praticamente ogni cosa che i componenti di quel gruppo hanno messo fuori dopo lo scioglimento della band.
L’unico che ho perso di vista è stato Sterling Morrison, per il resto mi piacciono da morire Chelsea Girl e Desertshore di Nico; ho consumato Vintage Violence e Fear di John Cale; I Spent a Week There the Other Night di Maureen Tucker mi fa uscire di testa.
E naturalmente amo qualunque cosa abbia pubblicato Lou Reed.
Persino Growin’ Up in Public.
Ecco, lascio da parte giusto Metal Machine Music che per i miei gusti indie snob è un pelo indigesto e Lulu perché i Metallica proprio non li sfango.
Detto questo, ricordo la prima volta che parlai con Frabbo.
Era la sera in cui gli Oh Sees suonarono al Covo qualche anno fa.
Stavo intrattenendo qualcuno con la mia passione – già allora evidente – per John Dwyer (argomento che mi è capitato di rinfrescare anche su questo blog qualche settimana fa), raccontando con enfasi di quanto mi piacessero i Coachwhips quando Frabbo, che ancora non conoscevo personalmente se non per il suo ruolo “pubblico” di cantante dei The Tunas, sibilò li di fianco a me un secco: a me i Coachwhips fanno cagare.
Non gliel’ho mai detto ma ho apprezzato la sua franchezza quella sera.
Mi interessano opinioni diverse dalla mia quando ad esprimerle sono persone che reputo interessanti.
Per il resto ho una tale età per cui posso permettermi di ignorare le opinioni di tutti gli altri.
Mi possono infastidire certo, a volte anche fare arrabbiare, ma sono tranquillamente in grado di ignorarle.
Per questo – colgo l’occasione di scriverlo qui a futura memoria – non sono solito rispondere a chi cerca di attacar briga.
Non so se questa introduzione può servire a spiegare in qualche modo il motivo per cui ho chiesto a Frabbo di intervenire in questa sede o aggiunge qualcosa a quello che lo stesso Frabbo ha scritto qui di seguito.
In ogni caso mi pareva il caso di scriverla.
Arturo Compagnoni
Ascolto i Velvet Underground da una vita.
Li ho scoperti 17 anni fa, quando trovai tra le cose di mio padre una cassettina su cui erano stati registrati i loro primi due lp. Avevo 14 anni, frequentavo il primo anno all’Istituto D’Arte ed ero molto più sfigato di adesso.
Ricordo che c’era l’occupazione.
E la neve.
Chi mi conosce e sa del mio profondo amore per quei due album prima o poi arriva a pormi una domanda: ma te che piacciono tanto i Velvet Underground non sei anche quello cui fa cagare Lou Reed? .
Eccomi qui, presente!
Alcune settimane fa Arturo mi ha incontrato mentre suonavo qualche disco ad una mostra fotografica dedicata alla NY di Lou Reed.
Lui è un fan dichiarato dell’uomo e chiacchierando della cosa si è incuriosito: non è che se a uno piacciono i Velvet necessariamente debba apprezzare anche colui il quale ne fu il cantante, ma il fatto di disprezzare Lou Reed e contemporaneamente amare profondamente i VU è una faccenda che un minimo di corto circuito può crearlo.
E capisco possa incuriosire.
Ergo mi ha detto – non in questi termini ma mi piace pensare che il significato intrinseco fosse questo – spiegami perchè i Velvet si e Reed no, magari scrivilo e dillo ai quattro venti, se hai le palle!
Ho accettato.
E ora provo ad andare con ordine, partendo dal principio.
La mia diffidenza nei confronti di Lou Reed comincia praticamente nel momento in cui mio padre cercò di introdurmi alla musica che ascoltava da giovane.
Superati senza problemi gli ascolti di Led Zeppelin, Cat Stevens, Deep Purple (periodo Machine Head, una vera tortura) – ostacoli davanti ai quali oggi peraltro scapperei a gambe levate – mi arenai una volta arrivato a Bowie che, per la cronaca, in seguito ho imparato ad apprezzare molto.
Nella situazione di stallo post Bowie, confidando nel sangue rollingstoniano che scorre nelle vene di famiglia, mio padre provò ad indirizzare la mia attenzione su Lou Reed, partendo da Transformer.
Quel disco riscosse immediatamente il mio interesse, non fosse altro per il fatto che il titolo pareva un richiamo agli amati (e profondamente desiderati) Transformers.
Fui effettivamente rapito dall’attacco di Vicious: che figata!
Poi però arrivò il resto e il dramma si sviluppò rapidamente.
Non che capissi chissà cosa al tempo, d’altra parte avrò avuto più o meno 9 anni, ma l’atmosfera decadente che permeava quei solchi mi parve qualcosa di estremamente artificioso.
Mi viene in mente quando qualche tempo dopo mi regalarono una copia di Loaded.
Avevo 15 anni.
Mamma mia che noia, che beatlesata da strapazzo.
Quel disco l’ho venduto dopo un anno per comprarmi Superfuzz Bigmuff dei Mudhoney.
Ora la mia morosa lo mette sempre su, ed io sopporto in (quasi) silenzio.
E ricordo anche quando ascoltai per la prima volta il terzo album dei VU, che a 19 anni mi feci prestare con la speranza di trovare tra i suoi solchi una risposta. Il tassello mancante in grado di svelarmi il mistero e farmi finalmente sentire parte del genere umano e non della solita imprecisata razza aliena.
Non arrivai a metà del disco: una rottura di palle così non l’avevo mai sentita.
E dire che ero uno che ascoltava Nick Drake, perciò ero avvezzo alla smaronata.
No, neanche stavolta ce la feci.
Ma sto divagando, torniamo al punto: perché allora, alla luce di tutto ciò, ho abboccato come uno stronzo ai primi due lp dei Velvet?
Bè, qui si apre un discorso che sarà difficile sintetizzare, ma ci proverò. Schematizzando, andando per punti ma soprattutto cercando di non essere troppo analitico, giacché questo articolo nasce come chiacchierata da bar, e come conversazione da bar deve morire:
1) Apprezzo l’essenzialità, la semplicità e tutte quelle belle cose che fanno “punk”. Ma la sperimentazione è sacra. I Velvet non sperimentavano: facevano il macello.
Chitarre quasi free jazz, rumore, beat monotoni, voci femminili solenni, r&b, influenze dylaniane ma, soprattutto, il disastro.
Annotate la cosa e ricordatela quando tra poche righe arriverete al punto 3).
2) L’orrendo clima artistoide attorno al quale gravitavano. Sarà un caso eh, ma la carica creativa più deflagrante di Lou Reed e dei VU si è consumata tutta nel periodo in cui bivaccavano alla corte di Warhol.
Mi verrebbe quasi da dire che Lou Reed sia una delle migliori creazioni di Warhol.
Purtroppo, una volta scappatogli di mano (esattamente come la pop art), si è trasformato in quello che si è trasformato.
Ed infatti, come vediamo i quadri di Schifano fatti coi maccheroni venduti al Telemarket, ascoltiamo partire Perfect Day nei programmi della fascia oraria tardo pomeridiana che trattano di storie d’amore tra perfetti sconosciuti, quasi sempre al limite del subumano.
3) John Cale: lui era il vero supereroe dei VU.
Ok, Lou Reed scriveva la maggior parte delle canzoni, belle finché vuoi, ma senza John Cale dove vuoi andare?!?
Cosa ti salta in mente di mandar via uno così?!?
Sono convinto che la canzone bella sia tutto, ma a volte il vestitino che le metti fa la differenza.
Ad esempio, io sono sicuro al 100% che John Cale non avrebbe mai piazzato quel sax da pornazzo su Billy (da Sally Can’t Dance).
Infatti i dischi di John Cale da solo, in genere, non mi dispiacciono.
4) Nico. In White light/White heat non c’è ok, e quello è effettivamente il mio disco preferito dei VU.
Ma non importa.
Mi interessa quando canta, quasi declamando, la tragedia di All Tomorrow’s Parties o quando sussurra I’ll Be Your Mirror, con il suo accento teutonico e la violenta freddezza di un ghiacciolo infilato dove non batte il sole.
Sì insomma, non è male ascoltare ogni tanto qualcuno che non biascica dietro al microfono.
E infatti, come sopra, i dischi solisti di Nico, in genere, non mi dispiacciono.
Con Lou ce l’ho messa tutta ma non ha proprio funzionato.
Ho provato con Berlin, ho provato con Sally Can’t Dance, con Rock’n’Roll Animal, persino con New York e col blasonatissimo Street Hassle, e la mia personale conclusione è questa: il disco con i Metallica è la cosa più interessante e coraggiosa che abbia mai fatto dai tempi di Metal Machine Music.
Poi, che faccia oggettivamente vomitare, è un altro discorso.
Inoltre, non vorrei scadere nel radical-chic ad ogni costo, ma se dico che Metal Machine Music è l’unico suo disco che non mi tortura la borsa è, ahimè, tragicamente vero: non tanto per l’inutile rumorazzo che serpeggia fra i suoi solchi, ma per il concetto che sta dietro.
Sì, lo so anche io che col concetto e basta – per fortuna – non si fa musica, ma (e questo non lo dico io ma le sue interviste ed i suoi biografi) quando uno, la cui discografia è basata sull’inerzia e sulla poca convinzione nei confronti di quasi ogni suo disco, decide di andare totalmente a culo col mondo pubblicando un album del genere, bè per quanto mi riguarda è lì che vince.
Certo, qualche canzone che riesco ad ascoltare senza sbroccare l’ha certamente azzeccata, ma il solo fatto che non ne ricordi una (a parte la succitata Vicious) direi che è abbastanza sintomatico.
Poco tempo fa è capitato che le mie orecchie si imbattessero casualmente in Walk On The Wild Side, e sono stato colto da un’irritazione atroce, pari a quella che provo quando ascolto Battiato per radio o nel momento in cui qualcuno mi fissa.
Ero con un amico che in quell’istante ha condiviso il mio malumore mettendomi così una pulce nell’orecchio, e una domanda ha iniziato a rimbalzarmi in testa: ma davvero tutti pensano che sia questa colossale figata??
Seriamente, se dischi del genere li avesse fatti che so, Amedeo Minghi, e quando dico dischi del genere intendo proprio Street Hassle e roba così, davvero sareste tutti così convinti?
Boh, non so.
Il dubbio mi rimane.
In ogni caso, perdonatemi.
Davvero ci ho provato, ma non lo affronto.
Riccardo Frabetti