thin-white-rope1_1387149574_crop_680x441

Venerdì, quando ero già fuori dalla porta di casa, ripassando mentalmente la dotazione che mi stavo portando appresso mi sono accorto di non avere con me della musica.
Ancora non mi sono abituato a caricare dischi sul telefono, il vecchio ma sempre utile i-pod era al solito stipato di album nuovi che in quel momento non avevo alcuna voglia di ascoltare e in macchina già sapevo di non aver lasciato alcun cd.
In realtà avrei anche potuto fare senza musica; in effetti il Covo, dove venerdì sera suonavano i Toy, dista da casa mia non più di cinque minuti di macchina. Ma sarebbe stato un modo inadeguato per cominciare il week end: cinque minuti di silenzio dentro la mia macchina, da solo. Troppo spazio libero per i pensieri; sarebbe stato un po’ come lasciare a casa la mia personale coperta di Linus.
Dunque sono rientrato diretto allo scaffale dei cd, deciso a prendere la prima cosa che mi fosse capitata per le mani. Caso vuole che nella stanza della musica, dritto per dritto, siano allineati in ordine i dischi i cui nomi dei gruppi iniziano con la lettera T. A differenza dei vinili i cd nella mia libreria sono disposti alfabeticamente. C’è un motivo perché i cd sono in ordine di lettera ed i vinili no, ma in questo momento non è faccenda rilevante.
Comunque alla lettera T, proprio al centro della fila stanno i Thin White Rope, a portata d’occhio ideale, come certi prodotti esposti sapientemente sugli scaffali dei supermercati per conquistare clienti.
Thin_White_Rope_Moonhead
Era una vita che non ascoltavo i Thin White Rope, nemmeno ricordavo di averli in cd. Sicuramente Moonhead, il loro secondo disco, non lo comperai in quel formato nel 1987, anno in cui uscì.
A quell’epoca infatti ancora non acquistavo cd, ne sono certo. Devo averlo recuperato dopo; chissà quando, chissà perché. Beh no, non è vero, il perché posso immaginarlo: è un disco che ti ribalta e presumo volessi averlo anche in cd per ascoltarlo in auto. Magari proprio al principio di una serata come quella di venerdì scorso. Fatto sta che me lo sono portato in macchina e lì quel disco è rimasto per tutto il fine settimana. Il che equivale a dire che, tra un giro e l’altro, fino a tutta la mattina di lunedì l’ho ascoltato per intero più o meno tre volte.

Ricordavo bene l’avvio, Not Your Fault, quello che non ricordavo invece era quanto fosse bello quel disco. Tutto, dal principio alla fine. Quando venerdì sera Not Your Fault è partita ero ancora parcheggiato sotto casa.
Mi piace pensare che aver scelto quel disco ed avere cominciato la serata con quella canzone abbia in qualche modo deviato le sorti di tutto il week end. Che quella canzone abbia dato una carica e una motivazione differente dal solito.
Al contrario a dire il vero, poi nel fine settimana non è successo nulla di particolare. Ho visto un paio di concerti più (Mogwai) o meno (Toy) significativi, ho osservato la gente ballare, ho guardato un po’ di football in tv, ho recuperato la visione della prima parte di Nymphomaniac e di un paio di puntate di True Detective, ho comperato un botto di album usati al Disco d’Oro e ho provato a spiegare a Giulio i numeri inglesi dotati del suffisso teen.
Poi come sempre sono andato a correre e ho corso come fosse l’ultima cosa da fare prima dell’apocalisse.
Naturalmente l’apocalisse non è arrivata.
E io il lunedì mi sono alzato che mi sentivo come se mi fosse passato sopra un tir completo di rimorchio su cui era stato stipato un carico misto di elefanti, ippopotami e rinoceronti.
Ma dentro all’autoradio lunedì mattina, mi sono ritrovato Moonhead e da li sono ripartito.
Esattamente dalla stessa canzone con cui poco più di 48 ore prima avevo inaugurato il fine settimana.

Not Your Fault è uno dei miei pezzi preferiti di sempre e mentre le chitarre esplodevano a tutto volume venerdì sera sulla San Donato, pensavo a come fosse stato possibile che non lo ascoltassi da così tanto tempo.
Come ho fatto a privarmi per anni di una canzone del genere?
Dei nostri ascolti intasati da mille dischi inutili che la mattina ci sembrano capolavori imprescindibili, il pomeriggio cominciano ad annoiarci e la sera scompaiono nel più opportuno oblio e di quanto sia ingiusto che certi dischi occupino lo spazio che dovrebbe essere destinato ad altri forse ne abbiamo già parlato e inevitabilmente prima o poi torneremo a parlarne.
Ora mi interessa solo scrivere qualcosa riguardo Not Your Fault.

Not Your Fault parte con una batteria secca che al tempo stesso suona pulita e netta eppure rimbomba come arrivasse da dentro una caverna, una batteria di quelle che piacciono a me e che invariabilmente mi ricordano le batterie registrate da Martin Hannett. Anche se Martin Hannett coi Thin White Rope non c’entra nulla. Dubito li abbia mai ascoltati come dubito che i Thin White Rope si siano ispirati al lavoro di Martin Hannet per registrare il suono dei loro tamburi. Pochi secondi e dietro al rullante entrano le chitarre che sono due e forse per questo spediscono la memoria dalle parti dei Television. E come i Television infilano giri che prima graffiano, quindi si artigliano alla memoria e alla fine non si staccano più. Poi arriva Guy Kyser uno che già dal nome sembra puntare dritto al centro della mischia. La sua voce raschia la gola, comprime rabbia e sibila minaccia, ma lo fa in modo sereno, quasi consapevole che l’unica strada da percorrere sia quella che prima o poi porterà alla sconfitta: I know you’re confused and want a word for everything you see, but watch her when she comes to parties glowing like the third degree, e parte il gancio. Uno di quelli che non puoi far altro che seguire cantando, alzando il braccio e puntando l’indice al cielo: It’s not your fault, it’s no fault at all, she only wants you to join in her fall. E riparte il giro delle chitarre, tensione regolata, trattenuta, compressa ma non repressa. Poco dopo i due minuti la batteria batte colpi marziali che sembrano quelli destinati a chiudere la questione, accelera poi si ferma un attimo. E’ il minuto due punto trenta e davvero pare tutto finito, ma è appunto solo un attimo e i tamburi ripartono lì dove avevano iniziato: secchi, puliti e netti. It isn’t that she hated you because she thought you’re mormon-pure, but you should see she doesn’t like you and it’s nothing drugs will cure. E torna il gancio: It’s not your fault, it’s no fault at all, she only wants you to join in her fall, il dito che ora punta dritto in avanti indicando cosa neanche tu lo sai e la voce che urla dietro a quella di Guy Kyser.
Finchè c’è fiato, fino a che reggono le gambe, fin quando i nervi tesi fino a vibrare ancora non saltano.
Poi la canzone finisce, finisce per davvero.

Giusto il tempo di spingersi nella nuova settimana, acquisire il solito ritmo e rinnovare gli abituali riti. A primavera si sa, escono un sacco di dischi e c’è sempre poco tempo per ascoltarli tutti. Moonhead rientra nella sua custodia di plastica rigida e dalla macchina torna allo scaffale alla lettera T, dritto entrato nella stanza, fila centrale ad altezza occhi.

Gli Thin White Rope hanno pubblicato cinque album in studio tra il 1985 e il 1991 ed uno dal vivo che documenta il loro ultimo concerto tenutosi a Gand in Belgio, il 28 giugno del ’92.
Il loro nome, la sottile corda bianca, fu ispirato da una metafora usata per definire lo sperma da William S. Burroughs ne Il pasto nudo.
Personalmente li ho visti suonare dal vivo cinque volte, tra l’87 e il ’91: alla festa dell’Unità di Reggio Emilia, al Festival di Ebensee in Austria, a Monaco di Baviera in Germania, al Festival di Reading in Inghilterra e al Velvet Perestrojka di Rimini.

Arturo Compagnoni


Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un’icona per effettuare l’accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s…

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: