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The Van Pelt

Una antica leggenda metropolitana circolante tra i miei amici e conoscenti sostiene che nel segmento di persone nate negli anni ’60, oggi in vita e non ancora affette da totale rincoglionimento senile, io abbia presenziato a più concerti rispetto chiunque altro.
Ad alimentare il mito contribuisce senz’altro il fatto che i concerti visti li ho tutti segnati, quindi li ricordo bene e non ho alcuna difficoltà a citarli uno ad uno, con tanto di luogo e data di svolgimento. Il vademecum unico, quello che assurge a custodia di tutto ciò che mi è capitato di vedere sui palcoscenici di mezzo mondo in questi ultimi 35 anni, è una vecchia agenda del Banco di Sicilia, reliquia senza ombra di dubbio della mia seconda vita.
Ovvio che non sia così: non ho visto tutto quello che avrei potuto vedere. C’è gente che ha senz’altro avuto modo di assistere a più concerti che non il sottoscritto. Non molti magari, ma qualcuno di sicuro c’è. Ogni tanto è capitato che facessi errori di valutazione e lasciassi perdere cose che invece avrebbero meritato attenzione, altre volte è successo che non fossi dell’umore giusto per uscire di casa e infilarmi in mezzo agli altri, fatto sta che di cose rimaste indietro ce ne sono eccome.
Di certo però non ho mai bucato un concerto perché avessi qualcosa di più importante da fare. Del resto la mia vita non è di per se particolarmente interessante, non ci sono molte cose che mi piaccia fare e quelle poche hanno tutte a che vedere con la musica. Rarissimamente poi mi è capitato di saltare un concerto per semplice pigrizia: anche se sono sempre stanco detesto la gente pigra.

Tra le cose che non mi sarei dovuto lasciar sfuggire ma che in effetti mi sono perso ce ne sono alcune di cui mi pentirò in eterno, come il live dei Bauhaus al Puntacapo, il primo tour italiano di Nick Cave con i Bad Seeds e la calata degli Hüsker Dü, eventi entrambi capitati se non erro nel reggiano, ed omissioni un pò meno gravi, tipo il concerto dei Van Pelt.

hd_namelogoQuando i Van Pelt vennero a suonare in Italia ero in un periodo piuttosto complicato, più o meno all’altezza della 3/4 della mia seconda vita. Con questa faccenda del numero di vite e sul come queste trovino una loro precisa collocazione non credo sia il caso di occupare spazio qui. Diciamo che la cadenza degli intervalli l’hanno decretata apparizioni e successive sparizioni di determinate ed importanti figure femminili.
Ora ad esempio ho da un pezzo in corso la quarta vita e sono convinto non ve ne sarà una quinta; piuttosto tanti quattro punto qualcosa che ne protrarranno la durata finché il cielo non deciderà altrimenti.

Quando i Van Pelt vennero a suonare in Italia si era attorno al 1997 e come mi ha di recente ricordato Jukka, chitarrista di una nota rock band emiliana, dalle mie parti fecero tappa alla Scintilla di Modena. In quel periodo mi stavano scoppiando in mano situazioni e c’erano buchi da tappare, così la musica passò per qualche tempo un pelo in secondo piano. Fu in quei mesi, se non sbaglio, che persi cose che in altri momenti mai mi sarebbe capitato di lasciare indietro: tipo i Pavement ai Magazzini Generali e i Lemonheads al Vox, robe incredibili solo a immaginarle.
Mi consola in parte il fatto di aver timbrato presenza al concerto del fratello del cantante dei Van Pelt, Ted Leo che qualche tempo dopo (il 24 marzo del 2005) venne a suonare coi Pharmacists all’Atlantide. Chiuse con una cover di Suspect Device degli Stiff Little Fingers che ancora me la ricordo; andai a casa con gli occhi che bruciavano e non importava che fossi più vicino all’alba che al tramonto e il fatto che alle sei e mezza la sveglia sarebbe suonata era solo un dettaglio, perché l’unica cosa che veramente contava era il suono della chitarra che martellava le tempie e il ronzio degli amplificatori ficcato nelle orecchie.

In ogni caso devo essere sincero e far poco il figo: con i Van Pelt avevo un rapporto strano e forse li avrei saltati comunque, anche se non fossero capitati dalle mie parti al momento sbagliato, sulla 3/4 della mia seconda vita.
Mi piacevano, certo. Nanzen Kills a Cat in particolare era una di quelle canzoni che spesso capitava nel mio stereo. Con quel giro lì di chitarra all’inizio, seguito da un rullo di tamburi asciutto e preciso, poi la voce di Chris Leo che entra dopo cinquanta secondi: there it is, plain and simple, frasi tagliuzzate e parole in libera uscita: on top of the world, think about it, there’s nothing, frammenti di discorso che potrebbero non dire nulla ma che a te dicono tutto.

Alla fine i Van Pelt non li ho mai inquadrati davvero. Nel tempo ho ripassato più volte i loro due dischi e ogni volta che li ho ascoltati mi rendevo conto di quanto quei dischi – specie il secondo, Sultans of Sentiment – fossero buoni. Mi piacquero pure i Lapse dopo, anche se quando partiva la voce della giapponese mi ricordavano un po’ troppo i Blonde Redhead.
Eppure né Van Pelt né Lapse sono mai entrati nel lotto dei miei favoriti in maniera totale ed incondizionata.
Potrei inventarmi le più complesse giustificazioni ed i più disparati motivi sul perché ciò sia successo, ma la verità è che di motivi veri non ce ne sono e di giustificazioni reali non ne ho. Dei Van Pelt mi accorsi subito, li ascoltavo in diretta all’epoca, non me li sono persi ai loro tempi e di loro non mi sono poi dimenticato negli anni a seguire. Semplicemente mi sono sempre scivolati via dalle mani finendo in seconda fila, dietro a qualcun’altro.
Uno di quei piccoli eventi da catalogare nella categoria delle cose che capitano e quando te ne accorgi, quando ti fermi a pensarci un attimo, non capisci bene perché siano successe. Non riesci ad inquadrare il punto.
Forse trovavo troppo complicato ascoltarli. Quelle ritmiche spezzate e quella voce che non canta e alla fine nemmeno parla, non racconta storie ma esclama frasi utilizzando una metrica che è da manuale del suicidio commerciale.
La scuola Mark E. Smith in effetti, e come tale avrei dovuto considerarla da subito e apprezzarla più di quanto in effetti abbia fatto.

Qualche tempo fa è successo che dodici anni dopo il loro scioglimento il gruppo abbia deciso di tornare assieme per qualche concerto. Il perché lo abbia fatto sinceramente non mi interessa. Mi irrito quando qualcuno commenta il ritorno in scena di un gruppo liquidandolo con supponenti questioni di cassa. Certo e allora? Pensate forse che io mi alzi alle sei e mezza tutte le mattine perché mi piaccia farlo? Alla fine è sempre una questione di cassa, la cassa serve per vivere.
Comunque sia, trascorsi altri cinque anni da quella riunione i Van Pelt hanno pensato fosse il momento di mettere mano a quella manciata di pezzi che venti anni prima avevano registrato e di piazzarli su un disco stampato in vinile, le prime 240 copie di colore verde, dai tizi de La Castanya, una piccola casa discografica di Barcellona.photo
Erano le canzoni destinate ad entrare nel terzo disco, un disco mai uscito. A metà tra ironia e mito scelgono un titolo decisamente adeguato (Imaginary Third) per un album che, banale dirlo, suona fresco ed attuale come pochi.
Anzi suona forse meglio oggi di quanto i Van Pelt suonassero bene allora.
Con loro che entrano senza preamboli, nessun incipit. L’introduzione è un colpo di tamburo che sembra il proseguimento di una canzone e non il suo inizio; proprio come avessero ripreso le loro faccende lì dove le avevano lasciate, tre lustri or sono. Del resto quasi ovvio sia così stante il fatto che quelle canzoni erano lì allora e dei primi due dischi sono di conseguenza il logico proseguimento.
Anzi alcune di quelle canzoni già le conoscevamo costituendo l’ossatura di Betrayal!, il primo disco dei Lapse.
Quindi Imaginary Third più che un nuovo ascolto per aggiungere altre prospettive rispetto quanto già conoscessimo dei Van Pelt, è una maniera per riassumere le caratteristiche del loro suono, rispolverarne e, nel caso necessitasse, approfondirne la conoscenza.

Col senno di poi comprendo bene solo ora dove risieda la grandezza di una band del genere: le canzoni dei Van Pelt nutrono l’aspettativa. Dietro ogni passaggio strumentale ti aspetti che capiti qualcosa che regolarmente invece non succede così che il nostro pronostico venga eluso e si rimanga in attesa di altro.
Come è noto quello che non succede non ti delude: l’aspettativa rimane la forma più pura di piacere, come certi amori mai dichiarati che restano prima sospesi poi scompaiono irrisolti lasciandoti nel dubbio. Lo stesso dubbio che in fondo rimane ascoltando le canzoni dei Van Pelt, che basterebbe un niente, una virgola spostata di mezza riga o una pausa in meno tra le parole per trasformarle in altro. In qualcosa di più lineare e accattivante. In una canzone di Imaginary Third, una sola, si intravede contro luce quello che con altre scelte i Van Pelt sarebbero potuti diventare. La canzone si chiama The Threat e al principio sembra uguale alle altre: una cavalcata ad alto indice emotivo che pare non andare da nessuna parte; trattenuta, misurata e irrisolta. Poi a un certo punto quando ormai non te lo aspetti più, al minuto uno punto venti si apre, come a spiegare le vele o a spingere tutti i cilindri del suo motore.

Paradossalmente è quella canzone che fa capire come la bellezza dei Van Pelt fosse in fondo altrove.
Non nello splendore di una carnagione levigata e perfetta ma nel gonfiore sotto gli occhi che si mostra ogni mattina che segue la serata giusta, nel bugno scuro e tumefatto di un livido o ancora in quella mano che anziché carezzare il velluto preferisce far scorrere il dito nel solco di una vecchia cicatrice per seguire il contorno delle linee irregolari.
Ma in definitiva e soprattutto, il terzo album dei Van Pelt sarà la matita che mi consentirà di mettere una croce sopra al loro concerto. Una di quelle caselle lasciate indietro tanti anni fa, all’altezza della 3/4 della mia seconda vita.

ARTURO COMPAGNONI

I Van Pelt suoneranno in Italia ad agosto al Bianconiglio di Vittorio Veneto (TV) il 13 e all’Hana Bi di Marina di Ravenna il 14.


2 risposte a “Il terzo album dei Van Pelt”

  1. Avatar Fabrizio
    Fabrizio

    Quella sera alla Scintilla faceva un freddo incredibile. C’era un piccola stufa nella sala concerti e i poco più di dieci presenti erano attaccati a quel flebile fuoco cercando un calore che potevi solo immaginare. I Sin Eaters di Teddy fecero un concerto bellissimo. Teddy era veramente in forma e anni dopo all’Atlantide fece un concerto memorabile coverizzando anche i Lungfish! Avevo ascoltato molto i Van Pelt, ma purtroppo quella sera non fecero quel concerto che io mi aspettavo… ma ugualmente per tantissimi anni il bellissimo flyer del concerto è stato attaccato ai muri delle mie stanze. I dischi rimangono bellissimi e sono uno dei pochi gruppi, di quelle band americane post-punk e post Rites of Spring di quel periodo, che ascolto ancora molto volentieri.

    Sono contento di rivederli dopo tutti questi anni.

  2. Avatar mario rossi
    mario rossi

    Però “Buffet” dei Lapse è inarrivabile.
    Ok, quindi imparo da te che i Van Pelt sono stati alla Scintilla, posto infame ma molto vicino. E io dov’ero?
    Ma io ricordo Ted Leo nella bassa, è possibile? Poteva essere Soliera?
    Certo che i posti per i concerti li scelgono propio male. Adesso mi toccherà scegliere fra la provincia veneta e la riviera. Non so. Comunque ci vediamo la.

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