
In questo agosto appena concluso – mese strano come tutta l’estate che va sfumando senza mai essere davvero cominciata – mi è capitato di assistere ad alcuni concerti che per un motivo o per l’altro se non sono stati tra i migliori visti nel corso dell’intero anno, sono stati senz’altro quelli dove più mi sono divertito. D’altra parte infilare in sequenza Black Lips, Belle and Sebastian, Van Pelt e Oh Sees era un po’ come srotolare un tappeto rosso davanti ai miei piedi e invitarmi a passeggiarci sopra, peraltro in un periodo che per sua natura – festival a parte – non dovrebbe offrire grandi emozioni. Una premessa allettante che alla prova dei fatti non si è per nulla rivelata deludente.
Questi quattro concerti meriterebbero ognuno un racconto a parte e può anche darsi che prima o poi mi venga da scriverne: abbandonata ormai da tempo l’idea di essere tra i primi a parlare di una cosa in un’epoca in cui la cronaca si fa in tempo reale con un tweet, sarebbe d’obbligo essere viceversa gli ultimi a farlo, ragionandoci sopra con calma.
Qui volevo solo rilevare una caratteristica comune ai gruppi che ho incontrato in quei giorni, un attributo difficilmente definibile e scarsamente considerato dai più: l’attitudine. In particolare un paio di episodi hanno stimolato la mia attenzione: John Dwyer, unica pedina rimasta in piedi negli Oh Sees, presentatisi per il resto in formazione rimaneggiata e stravolta (ok, a tutti è mancata la presenza della ragazza alle tastiere e il chitarrista mod tatuato fino al mento), prima del concerto ha chiesto che fossero rimosse le transenne che separavano il pubblico (che si immaginava piuttosto caldo, per questo erano state previste barriere altrimenti assenti in quel luogo) dal palco (che come i frequentatori dell’Hana Bi sanno è alto quanto il palmo di una mano) e a concerto iniziato è poi entrato immediatamente in rotta di collisione con il servizio d’ordine che provava, come da contratto, ad arginare crowd surfing ed irruenza delle prime file che si, in effetti, erano piuttosto entusiaste, facendo si che lo stesso servizio d’ordine si ritirasse rapidamente ai margini della scena.
Poi mi ha colpito il fatto che dal canto loro i Black Lips, gruppo ormai da tempo elevato ad uno status major, qualunque significato vogliate dare al termine, vadano ancora in giro scassati come la prima volta che si presentarono a suonare da queste parti (credo fosse il tour di Let it Bloom e si esibirono se ben ricordo in un centro sociale di Ravenna tipo 2005, io quel giorno avevo altro da fare quindi non dispongo di dettagli) e quando decidono di creare un effetto scenico per il proprio palco lo fanno appendendo alle spalle del batterista due lenzuoli cuciti male con verniciato sopra a spray il loro nome sbilenco e qualche fiore dai contorni incerti.
Tutto ciò non significa probabilmente nulla. Ma a me che sono nato (musicalmente) quando si cominciava a teorizzare l’abbattimento delle barriere tra un artista e il suo pubblico, si iniziava a praticare il do it yourself e tutte quelle menate che andavano di moda quando c’era il punk, ste robe ancora un po’ di effetto lo fanno.
E mi fanno riflettere ancora una volta circa cosa intendiamo noi per musica e cultura indie e cosa invece intende il resto del mondo. Ma il pippone stavolta lo risparmio: a me stesso prima ancora che a voialtri.
Reigning Sound “Falling Rain”
A proposito di pubblico irrequieto: uno dei concerti più coinvolgenti ed elettrici mi sia mai capitato davanti agli occhi fu la data che abbinava sulla stessa spiaggia i festeggiamenti per le estemporanee reunion di Oblivians e Gories (Hana Bi, 17/7/2009).
Uno dei tre Oblivians, Greg Cartwright, è anche il cantante e chitarrista dei Reigning Sound. Mi avessero detto solo qualche anno fa che a un certo punto sarei finito ad ascoltare (anche) questa musica non ci avrei mai creduto: tradizione americana pura tra Bob Dylan e Bruce Springsteen (addirittura!!!!). Per aspetti diversi potrei pensare la stessa cosa riguardo i miei ascolti del nuovo Ty Segall o dei Woods o di Kurt Vile, tutta gente che mi piace parecchio ma che di nuovo ha ben poco. Intendiamoci: oggi nulla è nuovo. Ma di qui a mettermi ad ascoltare musica che ha molto a che fare con Dylan e Springsteen (da un gruppo nato a Memphis, Tennessee potremmo aspettarci altro?) e nulla da spartire con Suicide e Joy Division, pensavo corresse molta più strada di quella che in realtà ho percorso. In ogni caso questo è un gran bel disco e Falling Rain è un pezzo che ha la cadenza e la portata di un piccolo inno.
Real Estate “Paper Dolls”
Per quanto anch’io non apprezzi per nulla i dischi di sole cover di un unico artista (cfr. Fiver di Cesare la scorsa settimana a proposito di Arthur Russell), nella mia personale collezione ho diversi album del genere che pagano tributo a Velvet Underground, Jam, Galaxie 500, Suicide, Joy Division, Slowdive e andando a braccio, lontano dalla libreria dove sono depositati, credo di dimenticarne qualcuno. A conferma della premessa devo dire che questi dischi li comperai per curiosità e che nessuno di questi mi piace. Viceversa apprezzo quegli artisti che pagano pegno alle proprie influenze ed esplicitano le loro passioni suonando cover di canzoni altrui ai concerti o infilandone qualche registrazione su disco, in genere sui lati b dei singoli. Mi vengono in mente la Disorder dei Bedhead e le Ceremony di Galaxie 500 e Xiu Xiu, ad esempio. I Real Estate piazzano sul retro del loro nuovo singolo (Had to Hear, estratto dall’ultimo album Atlas) Paper Dolls, canzone dei Nerves, misconosciuta ma gloriosa band power pop californiana con un impressionante rapporto inverso tra dischi pubblicati (un solo ep) e influenza esercitata sui posteri (uno dei pezzi più conosciuti dei Blondie, Hanging on the Telephone era roba loro, per dire). Ottima scelta quella di interpretare un pezzo dei Nerves, canzone che peraltro si adatta ai morbidi giri di chitarra della coppia Courtney/ Mondanile molto più di quanto mai avessimo potuto prevedere.
Twin Peaks “Flavor“
Big Star, Teenage Fanclub, Posies, Replacements a proposito di power pop su le antenne e una bella girata alla manopola del volume: da Chicago ecco i Twin Peaks, quattro ragazzi giovanissimi che in attesa di farci ascoltare un album intero (in uscita proprio in questi giorni) hanno messo fuori un ep che si intitola come la canzone qui sopra. Meno di due minuti sono sufficienti per metterci dentro tutto quello che ci deve stare.
Burnt Palms “Isolation“
Fossero stati britannici e nati 20/30 anni fa, questi Burnt Palms avrebbero avuto ottime possibilità di infilarsi nella classifica dei 50 migliori dischi indie inglesi che abbiamo appena finito di commentare. In realtà queste due ragazze e il loro amico sono nati giusto l’altro ieri nella California del Nord e suonano veloci, ritmati e melodici come si confà a chi ha i Buzzcocks nel cuore e le spiagge del Pacifico nell’anima. La batteria è una mieti trebbia che macina i primi settantacinque secondi di questa canzone spianando il campo e lasciando poi a quel punto alla voce lo spazio per aprirsi in un verso che è ossigeno puro. The Girl You Knew è il loro secondo album e a quanto pare sarà stampato dai tipi della We Were Never Being Boring, il che, per quanto mi riguarda, equivale a una certificazione di qualità doc.
The Hive Dwellers “Streets Of Olympia Town“
Ogni volta che esce un disco che vede coinvolto Calvin Johnson a casa mia si fa festa. Gli Hive Dwellers sono la sua anima folk e Moanin’ è il loro secondo album. Allegro e ciondolante come il rimbombo della sua vociona che ci parla della città che tanto gli è cara in questa canzone. Sul sito della K Records a gennaio del 2013 misero un annuncio con cui cercavano ragazzi di Olympia che sapessero ballare come Calvin Johnson per partecipare alle riprese del video del pezzo. In giro non ne ho visto traccia e dato che è passato un anno e mezzo temo che non abbiano trovato soggetti adatti. Oppure il video uscirà adesso, in concomitanza della pubblicazione dell’album. Se lo vedete avvisatemi, non vorrei perderlo per nulla al mondo.
Arturo Compagnoni