
Sulla questione del nuovo album degli U2 è stato detto tutto, a questo punto. Personalmente non mi sono scandalizzato per essermelo ritrovato nel computer e penso che l’unica fondamentale lezione che possiamo trarre da tutta l’operazione è del resto semplice semplice: la musica è diventata un gadget. Punto. Nessuno pagherà più per un prodotto che viene dato in regalo, senza nemmeno la fatica di richiederlo. Siamo arrivati al punto di non ritorno, non ci rimangono che le nicchie. Le nostre piccole porzioni di mondo che ci ritagliamo settimanalmente a seconda delle forme del nostro gusto, che ci intestardiamo a ritenere manifestazioni artistiche.
Si continuerà a scegliere, ad informarsi e a pescare tra le decine di canzoni, album, video che settimalamente ci finiscono, in un modo o nell’altro, tra le mani con la consapevolezza che il mercato, quello vero, batterà un territorio inesplorato. Sempre più distante da quella visione che abbiamo coltivato da sempre.
La gratuità del consumo musicale non mi riguarda personalmente, comunque. Guardavo lo scaffale dove tengo i vinili (sì, lo so che non fa più figo dirlo) dell’ultimo anno: quasi 70 pezzi in 9 mesi. Che sommati ai 10 euro mensili che, lo confesso, lascio a quelli di spotify, mi fanno sentire abbondantemente in pace con la mia coscienza.
Non so nemmeno io il motivo, a dire il vero. So solo che fin da quando ho iniziato a seguire le vicende legate alla musica, e parlo di un bel po’ di anni fa, il fatto che un disco fosse pubblicato o meno da un’etichetta indipendente costituiva fin da subito una di quelle pregiudiziali che proprio non sono mai riuscito ad evitare di considerare.
All’inizio è stata una questione di meri gusti musicali. Se pescavo nel catalogo SST o Rough Trade era proprio perchè quelli erano i suoni (e le parole) che più mi emozionavano. Probabile che certi dischi mi piacessero poi perché erano la raffigurazione di un mondo che mi consentiva di sentirti finalmente “differente” e rappresentato. Insomma nell’arco di trent’anni di frequentazioni musicali ho riempito casa di centinaia di dischi cosidetti “indipendenti”. Non solo quelli, naturalmente, ma -come dicevo- con una decisa predilezione per la categoria in questione.
Ho sempre coltivato una piccola avversione per il mondo della discografia ufficiale, quello delle cosidette major, di conseguenza. Ricordo ancora lo slogan che l’industria musicale forgiò all’epoca: “home taping is killing music”. Figurarsi che effetto poteva avere per noi che i dischi li compravamo dividendoci gli acquisti. Uno passava alla cassa con i New Order e una cassetta vergine per l’amico. La settimana dopo era il contrario: Wedding Present e cassetta d’accompagnamento obbligatorio per la registrazione “pirata”.
Quando la musica si è trasformata, per un breve periodo, nella mia professione principale il rapporto con le major del disco è diventato, se possibile, ancor più problematico.
Era una questione di predisposizione e linguaggio, innanzitutto. Passione da una parte, professione dall’altra, che non faceva mai rima con professionalità inoltre. A dire il vero dovrei ringraziarli, i ragazzi delle major romane. È anche grazie a loro se mi sono costruito una discografia indipendente di tutto rispetto. Grazie alle borse di promo che finivano per essere scambiati con le discografie complete degli Wire o con i vinili della K Records con la benedizione dei ragazzi di Disfunzioni Musicali che mi trattavano con la benevolenza che solitamente viene concessa ai parenti stretti.
L’episodio più divertente fu quando la major di turno mi convocò per un ascolto privato di un nuovo album di Neil Young (mi sembra fosse Mirror Ball). Non potevano nemmeno far circolare una copia promo. Nulla. Riserbo assoluto. Mi presentai con la mia copia vergine di una cassetta e lo registrai seduta stante, mentre lo ascoltavo, direttamente dal loro impianto. Ti lasciavano da solo per favorire la concentrazione dell’ascolto, dicevano. La sera stessa lo passai in radio, sulle frequenze della Rai. Nessuno si accorse mai di nulla. Qualche ascoltatore di Stereonotte però quell’edizione ancora se la ricorda.
Ehi, ma bando alle chiacchere, è lunedì: il tempo delle nostre 5 canzoni……..
ARIEL PINK – Put Your Number In My Phone
Cazzone di gran talento, Ariel Pink, con un nuovo singolo e album in arrivo. Put Your Number In My Phone è una canzone languida che profuma di anni sessanta, di serate estive passate sulla spiaggia, di surf e strumentazione vintage. I 70 minuti del nuovo disco (in 2 brani con Kim Fowley) si prospettano come una delle potenziali bombe dell’anno.
FOXYGEN – Cosmic Vibrations
Da Ariel Pink a Foxygen il passo è breve, tant’è che pure loro hanno cercato di farsi produrre l’album in uscita da Mr. Kim Fowley, senza riuscirci. Insomma il background è il medesimo: psichedelia virata in chiave pop, gli omaggi ad una certa stagione del rock classico con l’attitudine scapestrata di chi comunque non si può prendere troppo sul serio. Cosmic Vibrations (no, appunto….dai) è una ballata punteggiata da tastiere di altri tempi e voci in falsetto. Pezzo stratosferico.
LOS ANGELES POLICE DEPARTMENT – She Came Through (Again)
Questa canzone è fragile come le prime ballate dei Grandaddy. Poi appena appena qualcuno lavora sulle melodie vocali, su qualche arrangiamento a più voci, si tira in ballo il nome dei Beach Boys, inevitabilmente. Canzone dal tono intimo ma con un andamento che ti acchiappa e non ti fa più scappare, ti tiene stretto nella quiete di una psichedelia appena accenata. Gioiello.
Ryan Pollie canta, suona e registra, da solo in casa. L’album di debutto dura 24 minuti per 11 canzoni e ne fa una delle più interessanti scoperte di quest’anno.
OPERATORS – True
Mi mancano i dischi della DFA. Mi manca il faccione di James Murphy, sinceramente. Penso che LCD Soundsystem sia uno dei pochi nomi degli anni zero che meriti rispetto e devozione. Il nuovo progetto di Dan Boeckner (un passato da protagonista nei Wolf Parade, Handsome Furs e Divine Fits) sembra riavvolgere il nastro e ripartire da quei suoni che combinano l’aggressività del punk-rock, il ritmo del funk bianco e un diluvio di synth a ricordarci la sempreverde lezione della new-wave dei primi anni ottanta. Questa versione dal vivo, con la batteria posizionata in primo piano sul palco, è semplicemente fighissima.
SHELLAC – Dude Incredible
A sentire questa canzone (ma andrebbe bene l’intero album) qualcuno dovrebbe arrossire per la vergogna di aver mai posseduto e, sopratutto, ascoltato un qualsiasi disco dei Rage Against The Machine, per dire. Chitarre che scuotono le fondamenta, ritmi che prendono per la gola. Steve Albini ci ricorda semplicemente cosa significhi suonare duro, senza compromessi. Un basso, una batteria e una chitarra. Volumi da spavento. Riff come rasoiate (l’ho scritto? cazzo, l’ho scritto!) e una voce sgraziata che colpisce esattamente dove deve colpire. Dedicato a tutti quelli che ascoltavano “metal”. La vostra adolescenza è stata terribile, passata ad ascoltare quei dischi terribili. Una qualsiasi canzone degli Shellac vi costringe a dolorose sedute di autocommiserazione, ne sono certo.
Cesare Lorenzi