
Sono sempre stato portato a prendere in considerazione l’ipotesi che le mie idee, qualunque esse siano, possano anche non essere necessariamente quelle giuste.
Intendiamoci, ho un sacco di opinioni della cui correttezza sono convinto in maniera totale, ma sono (quasi) sempre disposto a metterle in discussione al cospetto di nuove prospettive attraverso cui valutarle.
E’ una regola che dovrebbe valere per tutti: tenere in considerazione il fatto che le nostre idee siano spesso e volentieri soltanto dei punti di vista e come tali possano essere soggetti a revisione, da parte propria come da altri, anche semplicemente al mutare dell’angolo di visuale da cui ci si pone a osservarli.
Questo è il motivo per cui mi piacciono quei film in cui la narrazione procede orizzontalmente lasciando l’interpretazione degli stessi eventi all’analisi dei diversi protagonisti i quali, attraverso il proprio filtro mentale composto da tante lenti sovrapposte (esperienze e cultura personali le principali), restituiscono all’occhio dello spettatore un racconto soggettivo di una realtà che viceversa avremmo ritenuto essere oggettiva.
Una visione pluridimensionale e colorata al posto di un monofonico grigiore.
L’altro giorno, ad esempio, mi è capitata sotto gli occhi la prima puntata di The Affair, ennesima nuova serie televisiva. Leggendo due cose in giro prima di attaccarne la visione, mi pare di capire che la serie esplori gli effetti di una relazione extraconiugale instauratasi tra un insegnante di New York padre di quattro figli, marito apparentemente felice e romanziere alle prese con la stesura del “difficile” secondo libro e una cameriera alla faticosa ricerca di un equilibrio pesantemente compromesso dalla morte del figlio.
Al di là della vicenda, più o meno interessante, quello che mi ha colpito da subito nel telefilm è la modalità scelta dagli autori per raccontare la storia: due distinte narrazioni degli stessi fatti rese diverse – a tratti molto diverse – dalla memoria dei due protagonisti e, circostanza ancor più intrigante, da pregiudizi e prospettive propri del mondo maschile e di quello femminile.
Sono molto curioso di vedere dove questa serie andrà a parare e scoprire fino a che punto le differenze tra uomo e donna – argomento che mi ha sempre appassionato e che da autodidatta sto personalmente studiando da decenni – possano indirizzare eventi e pensieri in una direzione piuttosto che in un’altra.
Per il momento ho deciso di fermarmi al primo episodio aspettando di recuperare tutte e dieci le puntate (in America al momento sono arrivati a trasmetterne quattro) per gustarmi la serie tutto d’un fiato: se sarà una delusione o una possibile illuminazione in grado di fornire nuovi elementi al mio studio ultra decennale lo scoprirò tra qualche settimana e magari a quel punto tornerò sull’argomento, affare in grado di catturare la mia attenzione da tempo e a cui prima o poi mi piacerebbe porre un punto fermo per capire una volta per tutte se le difficoltà di comprensione (e di conseguenza di relazione) con l’universo femminile siano una specifica propria del mio personalissimo mondo o piuttosto una faccenda collettiva riguardante due emisferi che da sempre tentiamo di incastrare in un eterno, improbabile, puzzle.
The Coathangers “Drive”
L’ultimo disco delle Coathangers me lo spedì gentilmente il loro distributore italiano qualche mese addietro: lo ascoltai con diligenza, mi piacque decisamente, lo recensii per Rumore, gli diedi 8. Poi il disco finì sotto una pila di altri cd e me ne dimenticai. Nemmeno sapere che le ragazze sarebbero venute a suonare vicino casa mia mi ha convinto a concedergli un altro ascolto. Poi un video intercettato per caso e tutto si rimette in moto. Qui dovrebbe partire l’ennesima tirata sulla superficialità dei nostri (miei) ascolti e sulla troppa roba inutile che affolla i nostri stereo (hard disk del pc, playlist di Spotify and so on) a discapito di cose che viceversa meriterebbero attenzione maggiore. Meglio lasciar perdere e far decollare la canzone con quella batteria da caverna e la voce che fa così tanto 90’s. Metto in valigia e stasera la suono al club.
Deers “Between Cans”
Il primo a parlarmi delle Deers fu Stephen Pastel con un paio di righe postate in rete. Lui è uno che parla poco e quando parla bisogna dargli ascolto. Da allora le ragazzine spagnole sono diventate il mio nome su cui puntare per la speranza di un futuro migliore. Voce da bambina sopra strumenti che disegnano partiture semplicissime. Lo so che durerà un attimo poi tutto sarà finito. Lo so che certi sentimenti li ho sperimentati mille volte e sono destinati ad andare in vacca al calar del sole. Niente di nuovo, niente che possa durare più dello spazio di una canzone, forse due. Ma i grandi amori devono resistere giusto un attimo poi svanire di colpo prima che si trasformino in consuetudine. Giusto così.
NOTS “Fix”
Il suono delle NOTS non tranquillizza, non rilassa, non è piacevole. La musica delle NOTS è una minaccia, come certe cose che si ascoltavano nelle canzoni delle rebel girl infilate tra i dischi dei taglia boschi grunge nel nord ovest americano a inizio anni ’90. E’ il rumore di un alba livida e piena di nuvole scure. Ho scelto la versione live, anche se a vederla si rischia il mal di mare, perché mi pare più adeguata a rendere l’idea del loro caos per nulla gentile. Essenziale la musica, essenziali loro.
The Beverleys “Hoodwink”
Se Le NOTS decidessero di smussare giusto uno o due spigoli potrebbero suonare come queste Beverleys. L’ep che avevano fatto uscire la scorsa primavera in combutta con gli amici Fucked Up motivava in pieno la definizione di junk punk che le ragazze di Toronto si erano auto attribuite, il nuovo singolo ce le restituisce con giusto un pizzico di vena pop nella voce della cantante tale da allungare sul loro suono ombre di Hole e Breeders. Poi ad ogni passaggio della strofa Outta my head/ Outta my heart/ Outta my skin la cantante si lascia andare facendo salire i giri fino al finale tutta raucedine e carta vetro. Nome da segnare e tenere d’occhio.
Dream Police “Hypnotized”
Postare cinque canzoni di cinque gruppi femminili sarebbe stato a questo punto uno stereotipo. Come dire che la musica suonata dalle donne rappresenta un genere a se stante rispetto a tutto il resto. Tipo la musica italiana. Magari un po’ è anche vero. In ogni caso i Dream Police sono uno spin off dei The Men Nick Chiericozzi e Mark Perro, progetto nato nel 2010 e mai sboccato in una produzione non fosse altro che un singolo pubblicato su cassetta. Leggermente provati da cinque mesi di tour ininterrotto in giro per il mondo con la band principale i due hanno deciso di buttar fuori un disco che giustifichi la parola dream nel loro nome e motivi l’hypnotized scelto come titolo: un incrocio tra Wooden Shjips e Spacemen 3 da ballare seguendo il ritmo sintetico di una drum machine.
ARTURO COMPAGNONI