Jon Spencer Blues Explosion
Jon Spencer Blues Explosion

Era un tempo dove capitava che qualcuno dei tuoi amici ti chiamasse la sera e ti dicesse semplicemente: tieniti pronto, domani mattina ti vengo a prendere, si va a Salisburgo a vedere Jon Spencer. Un dettaglio il fatto che fossero 590 chilometri, Bologna – Salisburgo e altrettanti al ritorno, naturalmente. Che ci fosse di mezzo l’università. Che non si sarebbe dormito, se non sul sedile della macchina, qualche ora in un parcheggio di un autogrill.
Ho parlato con Jon Spencer la prima volta nel settembre del 1994, proprio in quella occasione. Me lo ricordo con esattezza grazie alla piccola mania che mi fa segnare in un’agenda le date dei concerti a cui assisto. Il giorno esatto, per gli amanti dei numeri, é stato il 23.
Il club di Salisburgo dove abbiamo chiaccherato (la prima delle 3-4 volte che abbiamo avuto occasione di farlo) si chiamava Arge Nonntal.
Ma era anche il tempo in cui La JON SPENCER BLUES EXPLOSION aveva appena pubblicato, in rapida sequenza, Extra Width e Orange. I due album che contribuirono a fare di Jon Spencer e compagni un piccolo caso nel mondo dell’indie dell’epoca. La solita trafila fatta di articoli (in particolare sulla stampa inglese), tour sempre più frequentati e amicizie di un certo rilievo: Beck e Mike D di Beastie Boys tra gli altri. Condizioni che creavano quell’attesa che non ci faceva conoscere ostacoli. Bisognava andare e si andava. Punto.
Ricordo un Jon Spencer sfatto dalla stanchezza e da un tour che non regalava chissà quali soddisfazioni. Ma comunque disponibile per i due disperati arrivati appositamente dall’Italia per lui. Quella chiaccherata finì su un numero di Rumore.
Al di là della consuetudine che le interviste comportano, dal tracciato di domande e risposte un pò scontate ricordo che Jon Spencer mi lasciò addosso una sensazione che è sempre ritornata tutte le volte che ho avuto a che fare con lui, anche in seguito. Oppure anche solo osservandolo su un palcoscenico.
Una di quelle persone che si capisce immediatamente che non sono in quel luogo ed in quel ruolo per caso. La retorica del rock imporrebbe una di quelle sentenze tipiche di queste occasioni, roba così: un talento gigante toccato dal fuoco sacro. Ben più prosaicamente uno di quei personaggi che non ci si può immaginare possa fare qualcos’altro nella vita. Se non suonare una chitarra, urlare in un microfono con le stigmate del perfetto intrattenitore tatuate addosso.
Jon Spencer, come Bobby Gillespie per esempio, è uno di quegli artisti che paga i propri debiti. Gente capace di omaggiare un’infinità di artisti blues, soprattutto, ma anche punk che sono arrivati prima di loro. Non si tratta di copiare pedissequamente ma di prendere ispirazione, rileggere e trasformare lasciandosi ispirare dalla propria visione personale della materia. Più che suoni e canzoni in senso stretto un percorso che si misura in attitudine. Nonstante si capisca perfettamente da dove venga fuori ogni singolo riff il risultato finale è semplicemente una cosa nuova. Non solo ispirazione ma anche convinzione assoluta di quello che si sta per compiere. La Jon Spencer Blues Explosion è sempre stata una faccenda di vita vissuta. Dal primo all’ultimo istante. Senza compromessi.

The Jon Spencer Blues Explosion – Do The Get Down

Mi è tornato in mente tutto questo perché Jon Spencer e compagni hanno appena pubblicato una nuova canzone. E soprattutto un nuovo video. Che è veramente un omaggio fantastico ad una New York che c’era e che ora si è trasformata in qualcosa d’altro. Il pezzo, come si dice in questi casi, spacca di brutto. E fa pensare che l’album in uscita potrá comunque avere un senso. Ma il video, dove si susseguono una serie infinita di piccoli omaggi visuali (si riconoscono la vecchia Times Square pre Disney, gli Swans, Jay-Z, i Wu-Tang Clan, estratti di Permanent Vacation di Jim Jarmush, un concerto hard-core a Tompkins Square Park, il sindaco Giuliani, il vecchio Post e i suoi titoli sensazionalistici, Tom Verlaine, Basquait, i Ramones, il CBGB’s, New Yor Dolls, Patti Smith, Dead Boys, Talking Heads, Lou Reed che fa la pubblicità per gli scooter della Honda davanti al Bottom Line, Andy Warhol e Nico, Taxi Driver, Alan Vega, i Velvet Underground e molti altri): è nella sua semplicità un fantastico modo di ricordare un mondo del quale è possibile provare una certa nostalgia senza doversene vergognare.

Modest Mouse – Lampshades On Fire

Non potranno mai fare un disco banale, i Modest Mouse. Magari brutto (anche se dubito) ma banale no. Quello nuovo che uscirà da qui a qualche settimana si può ascoltare in una piccola parte di anteprima. Tre canzoni pubblicate che devono mantenere le attese di un intervallo infinito (ben 8 anni dall’ultimo “We Were Dead Before the Ship Even Sank”) e che danno il polso della situazione. Mi piacciono tutte e tre. Molto. Ci si ritrova tra le mani la band di sempre, in fondo. Con i soliti stacchi che vanno a prendere spazio, alla ricerca di respiro, come se all’interno della canzone ci sia sempre bisogno di un momento in cui è necessario fermarsi un attimo….yeah we have scars, yeah we have scars / This is how it’s always gone / And this is how it’s going to go…..canta Isaac Brock con la solita inconfondibile zeppola in “Lampshades On Fire”. Ma questa volta non ci sono rimorsi: è tempo di muoversi in avanti e di non guardare indietro…We’ll push, push, push, push, push a little forward….nonostante si sappia fin da subito che si commetteranno gli errori di sempre…..Find another planet, make the same mistakes…..Una canzone bella come la vita, insomma. Ogni tanto fa male però lascia segni del suo passaggio. Di questi tempi praticamente impossibile chiedere di meglio.

Twerps – I Don’t mind

Ma questa canzone dei Pastels che roba è?? Non mi sembra di ricordarla…..per poi scoprire che in effetti non si tratta della voce di Stephen Pastel ma di qualcosa che sembra molto molto simile. Ecco, ho detto Pastels. Si potrebbe finirla qui, evidentemente. Ma faremmo un torto ai Twerps e alle loro numerose sfumature. Perchè suonano, soppratutto in questo brano, come una copia dei Velvet rifatta da 4 studenti in overdose di cappuccino ma non solo. Quando si sente il suono inconfondibile della Rickenbecker tornano alla mente i Byrds, trattati con poca deferenza e un pizzico di irruenza. Allo stessa maniera di quelle bands che un tempo venivano etichettate come “paisley underground”. Un gioiello di disco, avrete inteso. Da Melbourne, altra parte del mondo.

Porcelain Raft – Closed Eye Vision

Dei Porcelain Raft non avevo mai sentito parlare. Ho solo avuto la fortuna di capitare ad un loro concerto, per puro caso. Era la data losangelina di Youth Lagoon e Porcelain Raft facevano da gruppo spalla. Porcelain Raft è il progetto di una sola persona, alla fin fine. Mauro Remiddi che da Roma si è trasferito a Londra e poi a Brooklyn per inseguire il suo sogno. Quella sera salirono sul palcoscenico in due: lui, alla chitarra, voce, synth e tastiere e un batterista, che ho scoperto proprio in questi giorni essere quel Mike Wallace che ora picchia i tamburi per i fantastici Viet Cong.
Quella sera fu un trionfo. Il giorno dopo comprai il cd del primo album che diventò la colonna sonora costante di quel viaggio americano. Per quel che conta finì dritto filato nella mia top ten di fine anno, il 2012. Lo scorso anno Porcelain Raft pubblicarono un nuovo lavoro, sinceramente sotto le aspettative. Mentre ora se ne escono con questa breve canzone, solo voce e piano, che me li riporta dove li avevo lasciati all’epoca dell’esordio. Una canzone evocativa, che come racconta Remiddi stesso è a proposito del deserto di Joshua Tree, Don Quixote e dinosauri (che è come dire nulla e il suo contrario però mi piace ugualmente).
94 secondi che mi rimettono in pace con il mondo.

Tobias Jesso Jr. – Hollywood

Alla maniera di un vecchio crooner, nonostante la giovane età, Tobias Jesso Jr. sembra avere le carte per rinverdire la tradizione della più classica ballata americana. Un piano Rhodes e la voce, innanzitutto. E la voglia di raccontarsi senza paura di scadere nell’autobiografia. Hollywood racconta della sua avventura metropolitana, alla ricerca di fortuna, alle prese con una band destinata al fallimento. Per lui canadese dalle belle speranze attratto e poi respinto senza troppi convenevoli dal sogno californiano. Adesso è il momento della rivincita, come si compete al classico copione che all’iniziale caduta alterna la successiva rivincita. Ora è il momento dei sold-out, degli articoli sulle riviste. Circondato da tutti quelli che all’inizio gli hanno voltato le spalle. Una di quelle sceneggiature scontate che però rimangono affascinanti.
Merito innanzitutto di Chet White, produttore e bassista della prima incarnazione dei Girls che è andato a ripescare Tobias Jesso Jr. fino a Vancouver, dopo aver messo le mani su un demo, procurandogli il contatto giusto. Non era proprio Randy Newman che cantava I love L.A., del resto? Uno di quei dischi che, lo confesso, in qualche scaffale di casa mia fa bella presenza, in compagnia di Ben Folds Five. Un altro che dietro ad un piano ha regalato belle canzoni.

Cesare Lorenzi


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