Tim Buckley
Tim Buckley

Ci sono canzoni che vivono di vita propria. Quasi sempre sono grandi classici, ma a prescindere dalla loro bellezza o popolarità, sono canzoni talmente potenti da staccarsi dal proprio autore, prenderne le distanze, e come fossero state partorite dal nulla se ne restano lì, come se fossero lì da sempre, in una sorta di empireo melodico, pronte a ridiventare sostanza nella voce di chi le interpreta di volta in volta.

Non ho mai visto i Dead Can Dance dal vivo ed è uno dei gruppi che ho amato di più nella mia gioventù. Mi sono dovuto accontentare di uno scialbo concerto di Brendan Perry che qualche anno fa in tour nordamericano proponeva canzoni sue e del gruppo facendosi accompagnare da proiezioni video dozzinali e arrangiamenti talmente approssimativi da riuscire nell’impresa veramente difficile di neutralizzare quella che ancora considero una delle migliori voci maschili di sempre. La performance si avviava verso la sua annunciata conclusione e la mia delusione ormai era tale che a stento sono riuscito a trattenermi dall’abbandonare a quel punto, senza concedergli bis. Eppure sono rimasto. Quando Brendan è tornato sul palco però questa volta ad accompagnarlo non c’era la band di prima ma il solo Robin Guthrie armato di chitarra e pedali. Ho pensato subito a This Mortal Coil. Non osavo sperare perché mi ricordavo bene che quella canzone sul loro primo disco era cantata da Elizabeth Fraser. Le note di Robin erano troppo dilatate per consentirmi di riconoscerla subito, ma quando Brendan ha attaccato a cantare non ci sono stati più dubbi: era Song To The Siren. Resto lì inebetito, lacrime agli occhi che lavano via il fastidio che fino a pochi secondi prima mi stava spingendo fuori da quella sala.

È vero, come nota Cesare, che quella cover trasformò irrimediabilmente il brano in qualcosa di completamente differente dall’originale. Non credo che Tim Buckley potesse immaginare che quella canzone un giorno non gli sarebbe appartenuta più, probabilmente non gliene sarebbe neanche importato. Quella canzone nata come una folk song tradizionale e poi incisa in un deliquio di riverberi nell’album Starsailor (1970), fino a diventare parte fondamentale di uno dei momenti più alti dell’intera stagione dark-wave.

Per Damon McMahon, meglio noto come Amen Dunes, cantare Song To The Siren deve essere stato un po’ come sognare il sogno di qualcun altro. Eppure la sua versione è assolutamente personale, arriva come traccia numero due di Cowboy Worship, il suo nuovo ep, giusto il tempo di calarsi nella consueta nebulosa di psichedelia acustica e quando attaccano le prime note la voce pare filtrata da un tremolo persino più audace del solito. La magia prende forma di nuovo e l’impressione, folle, è che come già con This Mortal Coil anche questa volta sia stata la canzone a scegliere la voce e la sensibilità adatta ad interpretarne il mistero. Non viceversa.

Luigi Mutarelli

 


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