
Giugno, l’estate è alle porte. E dunque: 1) ci becchiamo il carico delle ultime piogge, 2) peschiamo dal fondo dell’armadio i pantaloni corti, 3) organizziamo, calendario e cartina alla mano, gli spostamenti per i festival dei mesi a venire. Tuttavia giugno è ancora un mese di intersezione, non siamo costretti ad abbandonare l’asfalto rovente delle città e ringraziamo il cielo perché le spiagge non sono ancora popolate dai sound system giamaicani/salentini (nessun razzismo, semplici divergenze di gusto). Sarà che ultimamente si tende a dare per scontata l’equazione Sun Kil Moon = Dio (e chi è stato iniziato al culto ben prima dell’endorsement sorrentiniano, ha iniziato a chiamarlo semplicemente Mark Kozelek, per distinguersi dal novizio). Sarà che l’ex-leader dei Red House Painters ha fatto uscire l’ennesimo album capolavoro, Universal Themes, che col solito mix di vera partecipazione e spietata ironia ci racconta della sua vita e della vita di un’America crepuscolare, stavolta con qualche escursione più spinta nel garage blues. Sarà che il paragone fra quest’album e Carrie&Lowell, il lavoro di Sufjan Stevens spesso definito “il Benji del 2015”, mi sembra impietoso, sia per il talento debordante del buon Mark, sia per i difetti intriseci al suono di Stevens, quell’eccessiva pulizia sonora e quella disorganica tendenza a flirtare con l’elettronica che sin dai lavori precedenti non me lo ha fatto mai amare, considerandolo un musicista genialoide ma troppo confusionario. Sarà che questa settimana ho ascoltato, fino a consumarlo, il nuovo lavoro dei Dirty Fences, e avendoli visti live due volte a distanza di pochi giorni, con energia e guasconeria pressoché immutata, devo confessare che mi sembra una delle formazioni più potenti in giro, ultimamente. Sarà che i Moon Duo al Beaches Brew mi hanno incatenato con lo sguardo estasiato, grazie alla loro tenacia, capace di evocare campi sterminati di psichedelia. Sarà che da quando ho saputo delle date bolognesi, nell’autunno prossimo, di Metz e Yo la Tengo mi rimetto in pari con i loro lavori, serrando i pugni sulle linee di basso stuprate dei primi, portatori sani di quel suono stile Sub Pop che amo sin da quando, in adolescenza, ho iniziato a portare gli stessi occhiali di Steve Albini, o muovendo a ritmo la testa sulle melodie dei secondi, cantori di una stagione dell’indie americano che può rivivere in tutto il suo splendore solo attraverso le loro canzoni meravigliosamente pop. Sarà per questa serie di fattori, venuta a comporsi nelle giornate in cui il solleone inizia a picchiare duro, che, prima della strage di neuroni dettata dall’ennesimo dimenticabile tormentone da spiaggia, prima del naufragio nel mare di spritz consumato all’ennesimo noioso aperitivo, il simbolo del mio giugno è (mi si perdoni la banalità) il riffone di una chitarra. Dedicato a Ornette, padre del free jazz; e a Christopher , Signore dei Sith, nonché Signore di Isengard.
Jim O’ Rourke – Friends with Benefits
Jim O’Rourke è un mattacchione. Nel momento più fulgido della sua carriera ha dato vita ai Gastr Del Sol, una band che non può mancare fra gli ascolti degli appassionati di post-rock e che rivaleggia senza problemi con i più fortunati Slint. Successivamente ha collaborato con i musicisti più disparati: da Merzbow ai Sonic Youth, passando per progetti free jazz. Tuttavia ha sempre nutrito un amore viscerale per il songwriting, è lo dimostra con questo ultimo disco: Simple Songs. Non si tratta di un rimando al recente film di Sorrentino (al sottoscritto il regista partenopeo non piace) ma piuttosto una raffinata opera di pop barocco in cui si intrecciano melodie orecchiabili e sinfonie composte da archi e pianoforti. Questa è la prima traccia.
Föllakzoid – Feuerzeug
Conosco il Cile principalmente per due motivi: i libri di Roberto Bolano, uno dei miei autori prediletti, e le musiche monolitiche dei Föllakzoid. I sudamericani sfornano mastodonti kraut-psichedelici che sembrano inneggiare ad oscure divinità delle Ande. Per la loro terza prova la formula magica non cambia, e noi ne siamo abbastanza contenti. Istruzioni per l’uso: prima dell’ascolto procurarsi del peyote.
Kid Wave – Honey
Wonderlust è il primo album dei Kid Wave. Formazione londinese che spinge l’acceleratore sulle cavalcate chitarristiche e il cantato alla J Mascis. Insomma dentro ci troverete tanta nostalgia per gli anni ’90 declinata nella chiave più pop possibile. Si tratta di filologico revival, niente di nuovo sotto il sole, ma comunque roba che ti fa passare una bella mezz’ora, sorriso stampato in faccia e voglia di riprendere in mano la discografia dei Guided by Voices.
Mitski – Townie
Mitski, questo è il nome da tenere a mente. Non ho trovato molte informazioni sul suo conto, sennonché dovrebbe trattarsi di una ragazza americana di origini orientali di stanza a New York. In realtà non mi servono molte informazioni, mi basta ascoltare Bury Me At Makeout Creek.Recentemente ho avuto modo di pogare allegramente a un concerto delle Babes In Toyland, posso affermare in tranquillità che questo album, pur essendo infinitamente più pop, nasconde fra le pieghe della melodia le medesime schegge di metallo. E per di più ha il pregio di essere freschissimo.
Lone Wolf – Crimes
Lone Wolf è un cantautore di Leeds. La sua formula vincente consiste nell’intrecciare il songwriting intimista con una sorta di atmosfera new wave/soul creata grazie all’inserimento del pianoforte. Lodge è il suo terzo album e ci trasporta in un mondo onirico in cui gioia e dolore sono palpitanti potenze archetipe. Chiudete le imposte della vostra camera per un’oretta e lasciatevi rapire dalle atmosfere notturne che vibrano nelle corde vocali del lupo solitario.
Giovanni Bitetto
In coda a questo Fiver recuperiamo una vecchia intervista a Jim O’Rourke. Merita spazio il personaggio in generale ma ne merita ancor di più quando si mette a fare il songwriter in un’accezione quasi classica. Con il nuovo album (“Simple Songs”) è tornato a battere i territori della canzone pop come aveva già fatto in passato. Nel 1999 pubblicava sempre per Drag City “Eureka”, un disco che all’epoca fu vissuto come una vera e propria presa di distanza dal mondo dell’avanguardia e della sperimentazione sonora. Un grande disco che merita una riscoperta, magari. A distanza di 16 anni si aggiunge un nuovo album che può essere visto come un secondo capitolo. Un’intervista che ci ricorda come si affronta l’eterno dilemma del pop vs l’avanguardia. E come se ne esce vincitori. (C.L.)