
C’è stato un momento in cui ne ho avuto abbastanza. Di concerti ne avevo visti troppi e il mio cervello mi impediva di entrare ancora una volta in un club o di mettere piede ad un festival.
Ho continuato ad ascoltare musica, naturalmente. Ma non dal vivo.
Praticamente senza accorgermene ho passato 3 anni interi in questo modo. Un giorno però, il richiamo della foresta ha iniziato a farsi troppo insistente e sono tornato a casa. Nuovamente sotto un palcoscenico, nuovamente intento a programmare ferie, fine settimana e momenti liberi con la programmazione dei miei clubs e festival preferiti sotto il naso, come un tempo.
Il ritorno non è stato indolore, però. Mi sembra di ricordare che fossi a Parigi, al festival di Pitchfork. Un paio di giornate dedicate a quella che a torto o ragione è considerata la musica nuova. Mi sono passate sotto il naso cose che mi sono piaciute molto, altre che non conoscevo e che mi hanno entusiasmato. Gruppi che dovevano spaccare ed invece mi hanno annoiato a morte, costringendomi ad un giro di troppo al bar. Il solito programma di un festival, insomma. Ma una cosa mi sembrava cambiata, però. L’atmosfera era fin troppo rilassata, tra il pubblico ma anche tra i gruppi che si succedevano sul palcoscenico. Non un momento di tensione, mai uno scazzo. Tutti a ringraziare quelli di Pitchfork che gli avevano regalato questa opportunità, e poi che figata Parigi, vuoi mettere. E grazie ancora. Al pubblico, fantastico, naturalmente. Ad un certo punto ho sperato che se ne uscisse il Lux Interior di turno e provvedesse a tirare qualche calcio ben assestato. Un paio di aste del microfono sulle teste delle prime file. Un pogo che si trasformasse in una piccola rissa. Niente di tutto questo, invece. Quel festival è finito così, manco fossero state le giornate delle buone intenzioni e dell’amicizia universale.
Da quei giorni sono passati un paio di anni ed io, nel frattempo, ho preso le buone abitudini di un tempo ed appena posso mi fiondo tra le prime file di qualche scantinato. Quella sensazione però non mi ha mai abbandonato del tutto e mi sembra che un po’ della tensione che c’era un tempo sia semplicemente scemata. Ed un concerto senza tensione è come una partita di calcio amichevole, per me. Sostanzialmente inutile.
Ho visto un video dove qualcuno ripeteva questi concetti e mi sono rincuorato. Era una delle ultime interviste concesse da Lux Interior, il cantante dei Cramps, prima di morire. Diceva che molta della musica attuale (naturalmente è un video di qualche hanno fa) ha perso qualsiasi pericolosità. Mi sembra utilizzase proprio questo termine: pericoloso.

Ho avuto la fortuna di vedere i Cramps dal vivo. Erano una di quelle band che non potevi raccontare ai tuoi genitori. Uno di quei concerti dove era meglio stare in campana perchè qualcuno era pronto ad infilarti un gomito nel costato. Loro, erano semplicemente uno spettacolo. La musica come dovrebbe sempre essere. Una faccenda di sudore, di eversione sotterranea, di istiniti primordiali, di divertimento, al limite del lecito e del consentito. Non so se mi sono spiegato bene ma, ecco, una band come i Tame Impala (per dire) non me li vedo proprio a suonare davanti ad un pubblico di malati di mente in un ospedale psichiatrico. Sarà l’estate, non lo so, sarà che la maggior parte degli ascolti attuali mi sfugge come sabbia tra le dita. Sarà che mi sono tornate in mente le parole di Sándor Márai, che ha descritto in maniera sublime cosa è lecito aspettarsi da un’esperienza di ascolto soddisfacente: “dalla musica sembrava sprigionarsi una forza eversiva capace di sollevare i mobili e di gonfiare i pesanti tendaggi di seta alle finestre. Era come se tutte le cose vecchie e ammuffite, sepolte da tempo nei cuori umani, ricominciassero a vivere, come se nel cuore di ogni essere si annidasse un ritmo mortale che, a un certo punto della vita, potrebbe mettersi a pulsare con implacabile violenza. Gli ascoltatori pazienti compresero che la musica rappresentava un pericolo”.
Nonostante non si facciano sconti, che si sia scelto sempre e comunque di guardare in avanti, nonostante questo, mi diventa comunque inevitabile ricordare che il mio ritmo mortale ad un certo punto ha preso vita, anche grazie a quella coppia di allampati rocker vestiti di nero. Mi sono reso conto che, da quel giorno, sono sempre alla ricerca di quel beat, che in fondo in fondo è semplicemente un battito del cuore ma anche un inconsapevole termine di paragone che talvolta mi fa scalciare con i piedi in segno di frustrazione come un bambino capriccioso. In serate così non rimane che tornarsene a casa, accendere un computer e far partire un video tipo questo qui sotto, giusto per mettere nuovamente le cose in prospettiva.
THE CRAMPS – Live at the Napa State Mental Hospital
PEACERS – Laze It
Il ritorno di Mike Donovan va festeggiato come si conviene solo ai grandi avvenimenti. Precursore di tutta la scena garage di San Francisco, che ha trovato con Ty Segall e Thee Oh Sees in seguito una grande esposizione pubblica, torna con un album nuovo di zecca per Drag City. La stessa etichetta che aveva pubblicato all’epoca i dischi di Sic Alps (il suo primo gruppo) una band che ascoltata ancora oggi regala momenti sublimi e qualche brivido. A dirla tutta, “She’s On Top”, canzone uscita solamente su singolo nel 2013 fa bella presenza nella mia top five dei brani favoriti dell’ultimo lustro.
Tanta fotta (ndr: fotta è l’insostenibile desiderio di trombare dopo una lunga astinenza) trova soddisfazione in questi nuovi 90 secondi (del resto, dopo tanto tempo), in attesa di un album in uscita in questi giorni. “Laze It” mette in chiaro che le coordinate sonore sono rimaste immutate. Psichedelia, virata in chiave garage e chitarre fuzz. Canzone splendida.
(Ah, il brano, nel video, comincia dopo 35 secondi di silenzio).
SARAH CRACKNELL – Ragdoll
Questa canzone me la immagino cantata da Bobbie Gillespie.
Oppure, vista da un’altra prospettiva, potrebbe sembrare una cover dei Primal Scream che, a loro volta, fanno il verso ai Rolling Stones. Sarah Cracknell ci aggiunge la voce, sì, proprio quella voce. Quella che abbiamo imparato ad amare nei dischi dei St. Etienne.
In questo caso non si va oltre gli stilemi della ballata classica, avrete inteso.
Talvolta non abbiamo niente di meglio da chiedere. Questa è una di quelle occasioni.
THE BABE RAINBOW – Love Forever
Canzone che farà impazzire chi ha apprezzato i primi due dischi di Allah-Las. O i Growlers. Si muove nei medesimi territori: pop, in versione psichedelica, con i santini degli anna sessanta nel taschino e a completare il quadro pure un immaginario fatto di camice a fiori, sandali e vita sulla spiaggia, come compete a dei buoni australiani. Band da tenere d’occhio, mi pare.
OUGHT – Beautiful Blue Sky
L’ho sentita la prima volta che avevo i piedi tra la sabbia della spiaggia dell’Hana-Bi, poche settimane fa. Gli Ought stavano pochi metri di fronte a me, su un palcoscenico che guardava il mare, e suonavano proprio questa canzone, all’epoca ancora inedita. E’ stato uno di quei momenti dove si ha la consapevolezza di vivere qualcosa di grande, decisamente oltre gli standard di un normale concerto. Gli Ought sono una band sopra la media, del resto, che accumula influenze riconoscibili e le trasforma in qualcosa di proprio, di personale. Si sente la New York dei Television e dei Velvet, certamente. Ma sembrano semplici suggestioni destinate a piegarsi al volere del carisma di Tim Beeler, uno che ha la faccia e la voce per farsi ricordare.
Una delle canzoni dell’anno, per quanto mi riguarda, tra chitarre irresistibili e parole che lasciano il segno.
CESARE LORENZI