
Non avevo mai sentito nominare i Big Cream fino all’altro giorno. Immagino nemmeno voi, prima di un minuto fa. Niente di male, sarebbe strano il contrario. I Big Cream sono tre ragazzi appena sopra i 20 anni, arrivano da Zola Predosa, paese della periferia ovest di Bologna con cui la mia vita si è stranamente intrecciata a più riprese negli anni e la loro pagina facebook – attualmente ritenuta dai più autorevole unità di misura del pubblico apprezzamento – interessa a 194 persone in tutto. A me li ha presentati Federico, uno dei ragazzi che gestisce la More Letters, etichetta che ha base tra Bologna, Roma e Bari con – cito testualmente – una passione per le lettere scritte a mano, pratica che viene tradotta in musica attraverso la pubblicazione di audio cassette. Qualche tempo fa Federico mi aveva gentilmente spedito due cose fatte uscire da loro, gli ep di Homelette e Barbados. Mi ero prefisso di scrivere qualcosa perché la musica che usciva da quei nastri mi era piaciuta, così come avevo apprezzato la filosofia alla base dell’etichetta. Volevo raccontare una storia che includesse le mie vecchie BASF C90, un disco ogni lato, la Maple Death e la Best Kept Secret, giusto per provare a scoprire che fine abbia fatto oggi Alessandro, solitario ed eroico pioniere vicentino. Ma poi ho lasciato perdere.
A proposito dei Big Cream, Federico mi ha scritto che hanno un suono molto anni ’90. Cito di nuovo alla lettera: fuzz a secchiate, muri di ampli, voce svogliata. Tutto vero, inutile che cerchi altre parole per descriverli. A me non è che gli anni ’90 abbiano lasciato un gran ricordo, l’ho anche scritto qualche tempo fa, ma se ci sono delle cose che conservo care di quel periodo sono proprio queste: fuzz a secchiate, muri di ampli, voce svogliata e – aggiungo – carichi di melodia a pacchi da 6 distribuiti nei punti giusti.
Il titolo della canzone che apre il loro primo disco, un ep a sei tracce in uscita per More Letters su cassetta e MiaCameretta Records su cd, è un palese omaggio ai Dinosaur Jr. Si chiama What a Mess, frase che è il ritaglio di un verso di Freak Scene. Penso che certe canzoni pur legate a filo doppio al tempo in cui sono state scritte in effetti un tempo non ce l’abbiano per nulla e penso anche che quelle canzoni siano dotate di una immensità propria che è tale in rapporto all’importanza che rivestono per chi le ascolta. Meglio ancora: la loro bellezza è totalmente soggettiva. Che è poi l’unica bellezza vera e viva, il valore che ognuno di noi attribuisce ad esse. Mi viene da ridere quando leggo qualcuno che descrive una qualunque musica definendola derivativa. Tutto è derivativo. Potrei tirare in ballo un’ovvietà: la discriminante non è quanto si sia derivativi ma da che cosa si deriva e da come lo si fa. Dipende dalle canzoni. Palese scemenza di cui spesso tendiamo a dimenticarci per correre dietro a qualche cazzo di hype del cazzo.
Ricordo perfettamente la prima volta che ho ballato Freak Scene dei Dinosaur Jr. Ero allo Slego di Viserba, un sabato notte di un’altra era geologica. Freak Scene era una delle mie canzoni preferite di allora ed è una di quelle che nel tempo si sono consolidate nelle mie preferenze, caricandosi di nuovi colori anziché sbiadire. Oggi potrei dire che è una delle mie canzoni preferite di sempre. Figuriamoci se mi preoccupo di trovare derivativi dei ragazzi giovanissimi che oggi replicano a modo loro quei suoni. Freak Scene uscì su singolo per la SST nel settembre del 1988, un mese prima di essere piazzata come pezzo di apertura di Bug e un quinquennio in anticipo rispetto alla data in cui i tre Big Cream nacquero. Secondo Everett True quella è la canzone che ha inventato la generazione slacker.
I Big Cream partono da lì, non so dove arriveranno e nemmeno mi importa. L’effetto che mi fanno ora mi basta. La prima volta che ho ascoltato il loro demo erano le sette e mezza di una gelida mattina di dicembre e come ogni mattina a quell’ora stavo guidando sulla tangenziale nord di Bologna. Arrivato alla terza canzone più o meno all’altezza dell’uscita 5, avrei voluto accostare la macchina sulla corsia d’emergenza, scendere e cominciare a ballare, come quella sera di tanti anni fa a Viserba. Non l’ho fatto perché altrimenti sarei arrivato tardi a lavoro e probabilmente mi sarei congelato sul ciglio della strada.
Le sei canzoni sotto sono l’anteprima di Creamy Tales, disco che troverete tra qualche giorno sui siti di MiaCameretta Records e More Letters Records.
Buon ascolto.
Arturo Compagnoni