mcisreissue1

Out on tour with the Smashing Pumpkins
Nature kids, they don’t have no function
I don’t understand what they mean
And I could really give a fuck
The Stone Temple Pilots,
They’re elegant bachelors
They’re foxy to me
Are they foxy to you?

(Range Life, Pavement)

Un aspetto della critica musicale che non ho mai digerito è il suo costante tentativo di rendere oggettive situazioni che per mille motivi sono invece assolutamente e indiscutibilmente soggettive.
Per critica musicale intendo qualunque tipo di critica: dagli amici che discutono al bar del nuovo Oneohtrix Point Never, al recensore di Pitchfork che glorifica l’ultimo Grimes, passando per l’open space facebook dove un botto di gente si sente in obbligo di dirci qualcosa di più (citazione) riguardo la rilevanza della figura di Kamasi Washington all’interno della scena new jazz internazionale. Chiunque parla o scrive di un disco, esaltandolo o sparandogli contro cannonate alzo zero, lo fa quasi sempre in termini assolutisti, evitando di porre quello stesso disco in rapporto alla propria personale scala di valori, con sfoggio di una competenza qualunquista che a uno come me – ancora ancorato ai tre accordi tre di ramonesiana memoria – pare davvero titanica. Per costoro, cioè più o meno per tutti voi, esistono solo due tipi di musiche: quelle belle e quelle brutte. Niente di più illusorio e fuorviante.
Per come la vedo io se non tutti gli abituali ascoltatori di musica almeno noi fanatici – che come i partigiani siamo sempre meno e arriveremo all’estinzione al massimo tra una generazione, dopodiché nessuno si ricorderà di nulla e finalmente si potrà ricominciare da zero considerando la musica come un accessorio futile alle nostre importanti giornate – dovremmo invece rivendicare orgogliosamente le nostre passioni senza vergognarci di ammettere che di certe musiche non ci interessa nulla, su altre non abbiamo competenza alcuna e alcune altre ancora non ci piacciono per niente non perché siano brutte ma semplicemente perché sono lontane dalle nostre abitudini e dalla nostra sensibilità. In altre parole: non sono nelle nostre corde. Chiarito questo dovremmo però evitare di frantumare i maroni agli altri criticando dischi che già in partenza sappiamo non avere le caratteristiche che apprezziamo e viceversa non dovremmo cercare di convincere il mondo circa la bontà di certe canzoni che sappiamo benissimo piaceranno solo a noi e ai nostri compagni di merende.

In questi ultimi mesi, per dire, mi è capitato diverse volte di imbattermi in celebrazioni dedicate al ventennale dall’uscita di dischi ritenuti particolarmente significativi da qualcuno. Delle due l’una: o sono diventato improvvisamente sensibile all’argomento e dunque faccio caso a queste feste di compleanno cui prima non prestavo molta attenzione, oppure il 1995 è stato un anno incredibilmente prolifico sul versante dischi capolavoro.
La cosa mi ha colpito perché a me viceversa gli anni ’90 più o meno nella loro interezza non è che siano piaciuti un granché. E i dischi usciti in quel periodo cui sono più legato – Screamadelica, Slanted and Enchanted e Nevermind a parte – non sono quelli di cui vengono abitualmente celebrati i ventennali. Senza pensarci troppo su, i primi titoli che mi vengono in mente sono Painful e I Can Hear the Heart Beating as One degli Yo La Tengo, i primi due di Built to Spill e Modest Mouse e gli ultimi due dei Beat Happening, i Teenage Fanclub di Bandwagonesque, la discografia completa di Make Up e Bikini Kill. Tutta roba, ne sono conscio, ritenuta memorabile da una percentuale di pubblico assai marginale.

Ho una teoria sul perché i dischi usciti negli anni ’90 a me piacciano abbastanza poco e sul perché personalmente non serbi un gran bel ricordo di quegli anni. Una teoria che ovviamente non ha nulla a che vedere con la qualità della musica prodotta in quegli anni, viceversa ha molto a che fare con la soggettività che guida i giudizi: ad inizio decennio ho sostanzialmente cominciato a diventare adulto, salvo poi tornare sui miei passi alla fine di quella stessa decade. Un processo di andata e ritorno che ha richiesto una fatica fisica e psicologica notevole: il servizio civile al sindacato dei metalmeccanici (è una storia lunga e non vale la pena raccontarla), la faticosissima chiusura del corso di laurea, il lavoro in radio, quello al giornale e poi quello vero per pagare i conti e le bollette, un matrimonio fatto e poi disfatto, una convivenza e poi un’altra convivenza, quattro traslochi e probabilmente qualcos’altro che al momento non ricordo. Tutta roba stressante. In un contesto del genere la musica, che allora come ora e sempre rappresenta per me una costante colonna sonora alla vita, è stata in qualche modo inquinata dalla vita stessa. Una spiegazione da romanzo e frutto di una mente che definire contorta è dir poco, me ne rendo conto. In ogni caso lascio a voi che in quegli anni non eravate ancora nati o che di quegli anni conservate un ricordo legato alla spensierata pre e post adolescenza le celebrazioni di quei meravigliosi dischi. Io mi accontento di pigiare il tasto start e far calare il braccio del vecchio Technics sopra i solchi del nuovo Fat White Family, magari tra 20 anni i vostri figli ne festeggeranno il compleanno come quello di uno dei dischi chiave di metà anni ‘010. O forse no, ma poco importa.

Fat White Family “Whitest Boy on the Beach

Che poi non è vero. Il disco dei Fat White Family uscirà verso fine gennaio e quindi non ce l’ho e nemmeno l’ho ascoltato in qualche anteprima digitale. Però gira da qualche giorno questa canzone, che mi par di capire sarà il singolo. Nella copertina, ammesso che quella sia la copertina, citano i Throbbing Gristle di 20 Jazz Funk Greats e già solo questo varrebbe loro l’accensione di un cero, facendo d’altronde il paio con quell’altro riferimento che piazzarono nel titolo di un 45 giri (I am Mark E. Smith). La musica ricorda l’asse Spacemen 3/Spiritualized, quindi una roba piuttosto diversa da quella che abbiamo ascoltato nel loro primo album. Chapeau.

Walter “House on Fire

San Francisco è oggi la California che incrocia neo psichedelia e garage punk ibridando generi e persone. I Walter mescolano membri di Ducktails, Meatbodies e Sadgirl e portano in giro le proprie canzoni in comitiva col compare Ty Segall in versione Fuzz. Sixties music attualizzata e rivista in chiave molto affine ai più che limitrofi Oh Sees.

Kelley Stoltz “The Anarchist in Me

A proposito di San Francisco. Stoltz ha 44 anni, un tot di dischi usciti, la maggior parte dei quali per Sub Pop, il suo nuovo invece è appena stato pubblicato da Castle Face: le cose a volte non accadono per caso. Lui è uno di quei personaggi di cui mi dimentico sempre, salvo poi ricordarmene ogni volta che mi capita per le mani un suo nuovo disco, e quello è il momento in cui mi domando immancabilmente perché io non sia un suo fan totale. Questa canzone è uscita come lato b di un singolo di inizio anno. Me ne sono innamorato sin dal titolo. Suonerà al Covo il 12 dicembre: esserci.

Zombiero Martìn “Skins

Gli Zombiero Martìn sono un trio post punk proveniente da Fano, amanti della forma wave newyorkese dei Talking Heads e delle moderne peripezie rock n’ roll dei Thee Oh Sees, l’oscuro amore garage dei Crystal Stilts e la ricerca melodica lo-fi di Best Coast”. E’ del tutto evidente che all’ufficio stampa di questi ragazzi piace vincere facile con me. E ben gliene incolga, altrimenti forse non avrei schiacciato il play sull’ennesimo link che mi arriva a casa. Il pezzo è una bomba, se l’album (Fur Laboratory Skin Maker) varrà altrettanto costoro mi obbligheranno a riscrivere la mia personale geografia dei nuovi suoni della giovane Italia.

Tullia Benedicta “Devotion

Ci sono video perfetti per certe canzoni e canzone perfette per certe immagini. Tullia la ricordo come un volto tra i tanti allineati sul bordo della spiaggia di Marina di Ravenna, uno dei luoghi che tanto amo. Ora la ritrovo a Londra dove vive e fa musica (anche) assieme ai Piano Magic. Anteros è il suo primo disco. In questa canzone ricorda parecchio Zola Jesus, in altre ricorda altro, in altre ancora non ricorda nient’altro che se stessa: un suono sospeso tra nebbie shoegaze e ombre gotiche. Proprio bello.

Arturo Compagnoni


2 risposte a “Ventanni (Fiver #45.2015)”

  1. Avatar Creamy Tales (Big Cream per SG) | SNIFFIN' GLUCOSE

    […] altre parole per descriverli. A me non è che gli anni ’90 abbiano lasciato un gran ricordo, l’ho anche scritto qualche tempo fa, ma se ci sono delle cose che conservo care di quel periodo sono proprio queste: fuzz a secchiate, […]

  2. […] altre parole per descriverli. A me non è che gli anni ’90 abbiano lasciato un gran ricordo, l’ho anche scritto qualche tempo fa, ma se ci sono delle cose che conservo care di quel periodo sono proprio queste: fuzz a secchiate, […]

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