
Accendo la televisione solo per il calcio, ormai. Al pari delle vicende musicali l’altra mia grande passione che occupa la stragrande maggioranza del tempo libero e anche un po’ di quello che non sarebbe libero per nulla. Mi sono piazzato davanti allo schermo per seguire recentemente la finale di Europa League tra Liverpool e Siviglia. Ad un certo punto, dopo che gli inglesi sono passati in vantaggio, si è levato un coro dagli spalti che non era il solito inflazionato, seppure sempre emozionante, You’ll never walk alone. Ci ho messo un attimo a fare mente locale, stupito da quello che stavo ascoltando, ma si trattava proprio di There She Goes dei La’s, una delle mie canzoni pop preferite di sempre. O forse era la fine del primo tempo e il pezzo è partito dagli altoparlanti e la curva del Liverpool si è messa ad accompagnare il testo con un coro potente. Comunque brividi. Anche se i dettagli di questa storia potrebbero non essere precisi.
Il Marquee di Londra è uno di quei luoghi che è entrato di diritto nell’ambito dei club che hanno fatto la storia della musica. Un club che ha avuto un paio di incarnazioni differenti, personalmente mi è capitato di frequentarlo in qualche occasione all’indirizzo di Charing Cross Road, in pieno centro. Erano i tempi in cui si attendeva con trepidazione l’uscita del Melody Maker, quando si aveva la fortuna di trovarlo in qualche edicola ben fornita, per capire cosa avvenisse di importante a Londra che era il centro di tutto. In quei giorni (fine anni ottanta) si iniziò a parlare con insistenza di una nuova band di Liverpool, i La’s. Quello che conoscevo di quel gruppo lo avevo letto lì, tra le pagine di quei settimanali che ti lasciavano le dita sporche d’inchiostro. Fu un incontro fortunato, un puro caso: trovarsi a Londra e riuscire a procurarsi un biglietto di un gruppo di cui non avevo mai sentito neppure una singola nota. Funzionava così, allora. Ricordo un concerto brevissimo, poco più di mezz’ora e l’impressione di aver assistito a qualcosa di grande. Il giorno dopo entrai in un negozio di dischi e comprai There She Goes in sette pollici. L’album di debutto impiegò ancora qualche mese ad uscire: tra ritardi, registrazione interrotte e scazzi con la casa discografica, si intuì che non tutto filava liscio. Quel disco in effetti rimarrà l’unica pubblicazione del gruppo.
THE LA’S – There She Goes
Quando mi dicono pop penso sempre ai Beatles. Il gruppo perfetto, in fondo. Quando una canzone diventa patrimonio collettivo è come se fosse davvero di tutti e il suo significato originario si perde, si trasforma in qualcosa d’altro. Arriva nella curva di uno stadio, addirittura.
There she goes è una canzone che è finita dove nessuno poteva immaginare, come le migliori canzoni pop. Come le canzoni dei Beatles. Nonostante i riferimenti nemmeno troppo velati alla droga, all’eroina…..There she blows again, Pulsing through my vein…..ma ognuno, ad una canzone del genere, è libero di dare l’interpretazione che preferisce. Un amore, la squadra del cuore, per l’appunto. La magia della musica pop nel senso migliore e più compiuto: capace di travalicare barriere e confini, di modificare il corredo genetico delle persone. Musica che rimane dentro di noi per sempre, in rappresentazioni sempre nuove e, in certo modo, sempre uguali. Beatles, Kinks, Blur, gli Smiths….il brit-pop, direbbe qualcuno. La musica pop della nostra anima, sostanzialmente.
Wire – Forward Position
Ascolto musica in molti modi. I dischi che mi piacciono solitamente li compro in vinile. Ma mi piace anche raccogliere in una playlist su Spotify le nuove uscite che fin dal principio penso possano interessarmi e poi attivare la funzione shuffle. Una sorta di gran nastrone digitale da 500-600 canzoni che mi porto in macchina, in cuffia, in strada camminando. Ogni singola canzone del nuovo Wire mi ha fatto fermare, qualsiasi fosse l’attività in cui fossi impegnato in quel momento. Mi dicevo: grande pezzo, questo. Ogni volta che partiva una delle otto canzoni del nuovo album la stessa scena, come se dovessi rassicurarmi da solo. Ah, gli Wire!
Mi piacciono in tutte le forme, quando spingono sull’acceleratore ma anche quando si fanno improvvisamente eterei. Qui sono nella seconda variante: la particolare voce di Colin Newman si staglia su di un tappeto di synth e una chitarra appena accennata. Promesse non mantenute, momenti di pensierosa riflessione, atmosfera che fa a pugni con questa nuova estate che avanza. Come se ce ne importasse davvero qualcosa.
Pity Sex – Plum
C’è qualcosa di tremendamente classico in questa canzone. Le chitarre che deragliano rumorose e al limite del controllo nel finale, come se si trattasse di fare il verso ai My Bloody Valentine, ma anche il lungo intro voce e chitarra che ricorda una qualsiasi band del catalogo della 4AD, versione primi anni novanta. Aldilà della cifra stilistica però, ci si ritrova tra le mani una canzone (e tutto un album) decisamente riuscita. Poi trovatemi un solo gruppo che alterna una ragazza e un ragazzo alla voce, spesso nella stessa canzone, che non sia finito nella lista dei miei preferiti ma questi sono dettagli, alla fin fine.
Courtney Barnett – New Speedway Boogie
Mai fregato nulla dei Grateful Dead, lo confesso. L’unico album che possiedo è quello che hanno fatto in compagnia di Dylan. Lo odiano i fan di entrambe le fazioni, ed io non faccio eccezione.
Va detto però che la recente mega compilation di tributo, curata dai National, contiene tanto materiale interessante, che mette in luce i Dead decisamente in un altro modo. Quello che tocca Courtney Barnett si trasforma in oro comunque, fosse pure la peggiore canzone dei Dead in circolazione e non è questo il caso. Ne esce una versione decisamente doorsiana, in particolare in questa versione dal vivo ( http://www.nbc.com/the-tonight-show/video/courtney-barnett-new-speedway-boogie/3043258) con l’organo suonato per l’occasione da Mauro Remiddi (Porcelain Raft) che diventa assoluto protagonista. A me sono tornati in mente gli Opal di David Roback: non potrei spendere miglior complimento, ecco.
Dinosaur Jr. – Tiny
Il 2016 sarà un buon anno. Un anno con un nuovo disco dei Dinosaur Jr.!
Come tutti i nati vecchi, mai stati giovani per davvero, i Dinosaur Jr. sono a proprio agio in qualsiasi era geologica e questa non fa eccezione. Pity è nella sua semplice riproposizione dei soliti standard una gran canzone, inoltre.
Cesare Lorenzi