Lei aveva un locale. Lei, per la gente, era la capa di una bella squadra di soggetti strampalati. Una che doveva farne di quattrini, ma che ci si sbatteva anche un sacco dalla mattina alla sera. Alla notte, se dobbiamo dirla tutta.
Lei alzava ogni mattina la serranda di quel posto pieno di tavoli e sedie e fotografie alle pareti. Le occhiaie sempre scure, gli occhi gonfi di chi dorme sempre troppo poco ma insomma, dopo aver chiuso non puoi mica andare a casa. Vuoi non restare con Marco, Mari e Stefano a far chiacchiere?
Di solito era politica: gli anarchici, si sa, adorano stare al bar a far chiacchiere. Magari bevendo San Carlo e pulendosi i baffi folti col dorso della mano. Tatuata. Ovviamente.
Lei apriva ogni mattina la porta della sua osteria che era anche la porta della sua casa anche se lei lì non ci viveva ma ci amava forte, ogni minuto.
Lei, ogni volta che accendeva le luci di quel posto, illuminava vite che non erano la sua ma che lei, forse nemmeno del tutto consapevole, aveva cambiato: la cuoca che era scappata da un marito che amava troppo le carte, il vino e le mani pesanti; il lavapiatti bangladese che un anno prima vendeva le rose lì dentro. Il tuttofare che aveva dormito così tante notti sotto le stelle da far ancora fatica a ricordarsi le chiavi di casa.
Lei aveva creato un mondo a sé, che per gli altri era solo un locale, un posto in cui entri, saluti, ricevi un sorriso, ti siedi e mangi.
E poi chiudeva ma a casa non ci sia poteva andare mai perché Anna voleva piagnucolare un po’ che non trovava l’amore ma grazie che ci sei tu ad ascoltarmi. Ashraf doveva tornare in Bangladesh a salutare il padre morente e bisognava combinargli le ferie e dargli una mano col biglietto aereo. E magari anche Carlo, che non beveva più se no gli veniva la malinconia, una volta ogni tanto quei due bicchieri gli andava proprio di farseli.
Lei aveva salvato se stessa salvando altri. Ma non lo sapeva nemmeno. Lei era, semplicemente, così.
Lei resisteva.
Lui era un artista ormai. Noto, famoso potremmo dire. Lui era nato nelle strade, graffittando i treni, i muri. Scappando dai vigili, dagli sbirri che, faro acceso sopra la macchina, inseguivano le bombolette che riempivano i vuoti di quelle strade in cui mai niente di bello si raccontava. Ma lui era bravo. Tanto. Così tanto che qualche fotografo aveva iniziato ad immortalare quelle che erano diventate opere sui muri di palazzoni di Berlino o Bologna o chissà dove, non importa. E qualcun altro aveva iniziato a scrivere di lui. E lui era diventato il suo nome d’arte, uno che conta anche se non esiste, perché è soltanto un nome d’arte e un dipinto che compare, all’improvviso, su un muro di una strada qualunque.
Lui voleva solo dipingere il vuoto. Rendere bello il brutto. Raccontarsi sull’intonaco delle periferie che colorava con tratti polemici e rabbiosi, divertiti e feroci.
Lui era stato chiamato da una segretaria: una fondazione. Una di quelle cose che lui non aveva mai capito: soldi che senza un motivo si spostano di tasca in tasca e organizzano eventi, finanziano arti e mestieri.
La signorina, sicuramente camicia bianca su una bella scollatura con tacco almeno sette almeno, forse nove e con un bottone in meno, lo capiva dal tono della voce, gli chiedeva di poter usare dei suoi lavori, ovviamente previo accordo economico, per una mostra che ci sarebbe stata fra un po’ di mesi in un museo.
Un museo? Lui non poteva pensare che la sua voglia di libertà e movimento potesse essere imprigionata tra le mura di un museo e disse no, grazie.
La signorina che si era abbottonata e adesso aveva si piedi due ballerine aveva chiuso la telefonata secca, quasi stizzita. Senza tacco. Né rossetto.
La fondazione, sempre quella cosa senza un volto, quella cosa che lui non capiva, decise che lui doveva esserci comunque. Loro staccarono pezzi di muro coi suoi colori e le portarono in un palazzo ricco del centro.
Lui cancellò di sua mano tutte le opere che aveva sparpagliato per la città.
Lui se ne andò.
Lui resisteva.
Loro avevano pensato che quel palazzo vuoto da vent’anni in quella strada brutta del centro della città non aveva senso: perché uno spazio vuoto quando così tanti corpi chiedono spazio da occupare? E allora avevano fatto la cosa più normale, la più sensata.
Loro avevano occupato quel palazzo. Avevano rotto il lucchetto alla porta e avevano chiamato tutte le persone che conoscevano che avessero bisogno di un tetto e gliel’avevano dato. Avevano abbracciato padri che sorridevano per figli che avevano muri e termosifoni e acqua che usciva dal rubinetto.
Loro avevano detto che quel posto era un forse, un proviamo a tenerlo ma sapevano che ad altri non sarebbe andato bene. Che la città non voleva cedere spazi che i soldi non potevano comprare. Piuttosto li lasciava marcire, morire.
Loro avevano trattato col potere. Avevano stretto accordi e mani che non avrebbero voluto toccare, ma quello serviva. Il sorriso di Amina, che poteva andare in autobus a prendere i bambini a scuola e aiutarli a fare i compiti, era più importante di qualunque teoria politica, di qualsiasi prassi organizzativa, anche del senso di sporco dopo una stretta di mano.
Loro avevano tenuto quel posto per molto tempo. Ci avevano messo dentro dei servizi al piano terra: l’insegnante di italiano per stranieri, il centro d’ascolto per le donne vittime di violenze, il medico una volontario una volta la settimana.
Loro avevano messo mattoni, tolto mattoni, rotto mattoni.
Poi, erano passati anni, ma chi non voleva che il bisogno contasse più del denaro aveva spinto il bottone giusto e quella mattina erano arrivati un sacco di puffi tutti blu. Forse neanche del tutto consapevoli di essere puffi ma non per questo meno colpevoli di esserlo.
Loro non sapevano cosa fare. Vedevano Amina col viso fra le mani che piangeva mentre i puffi, manganelli in mano, portavano fuori i bambini dalla cameretta, ribaltavano il tavolino del soggiorno e tiravano i capelli di Adiba che voleva solo poter restare in camera sua. Camera. Sua.
Ma non era sua.
E loro si erano arrabbiati, avevano parlato, avevano gridato. Poi avevano colpito.
Loro adesso i mattoni li tiravano.
Loro resistevano.
Lui aveva visto quella stanza vuota con la vetrina proprio sulla strada, proprio vicino a quel bar che tutti conoscono. Lui aveva visto quel pavimento e le piastrelle bianche del muro dietro e aveva visto la bellezza abbandonata. La bellezza inconsapevole. La bellezza non voluta.
Lui aveva deciso che quella bellezza doveva diventare per tutti, che quella vetrina andava liberata dai fogli di giornale ingialliti che la coprivano.
Lui aveva grattato pavimenti, pulito quel grande vetro fino a renderlo di nuovo trasparente. Aveva trovato le poltroncine, le lampade calde, le piante che davano aria.
Poi li dentro ci aveva messo della gente che aveva voglia di fare una cosa e di raccontarla. A tutti. Solo perché era bello farlo.
Loro avevano suonato, lei aveva cantato. Lui aveva letto le sue poesie. E la strada si era riempita, ogni volta, di facce che da dietro il vetro guardavano, ascoltavano. Facce che poi sorridevano e parlavano e occhi s’incontravano in quella stanzetta e si conoscevano.
Un vicolo si era illuminato per un’idea: riutilizzare uno spazio vuoto, rendere bello il brutto, riempire il vuoto.
Lui, in pochi metri quadrati, aveva abbracciato cuori e fiato, polmoni e sorrisi.
Lui resisteva.
Lei suonava la chitarra, lei cantava, in inglese anche se tutti le dicevano che con quella voce doveva cantare in italiano, magari delle parole più semplici che poi vai a San Remo. A lei di San Remo fregava proprio niente, ma della voglia di cantare un sacco.
Lei ascoltava i Black Lips ma anche Billy Bragg e scriveva le sue canzoni pensando alle donne piene di rabbia che la fame e padri e mariti bastardi avevano fatto piangere.
Quand’era ubriaca a volte, chinata sulle ginocchia, cantava più forte e poi alzava il pugno in cielo.
Poi suonava qualcosa che girasse attorno a quelle parole che aveva tradotto in una lingua che non era sua ma suonava bene e, soprattutto, con una canzone in inglese a San Remo non ci vai se non a comprare tulipani.
Lei caricava l’ampli e la chitarra in macchina e partiva. Andava dove la chiamavano, dove Giorgio, che di giorno era commesso e di sera manager, booking e ufficio stampa in cambio di una pizza e un po’ meno solitudine le diceva di andare e suonava e si sgolava ogni volta come fosse l’ultima occasione nella vita di dire quello che sentiva.
Quello che bruciava dentro.
Lei cantava dove poteva, quando poteva. Lei macinava chilometri a rimborso spese. Lo faceva perché l’unica paga che la riempisse veramente erano i sorrisi sotto al palco, le persone che a fine concerto le dicevano solo grazie.
Lei resisteva.
La bellezza è sempre resistenza. Resistere è un obbligo. Dobbiamo resistere al nulla che, come ne La Storia Infinita di Michael Ende, porta via ogni giorno pezzi di vita.
Siate bellissimi. Siate resistenti.
Fabio Rodda