Young Parisians are so French, they love Patti Smith cantava tanto tempo fa un tizio inglese.
Scommetto che a nessun inglese sarebbe mai venuto in mente di associare l’amore per Patti Smith ai giovani italiani, né allora né mai.
Per quanto riguarda la musica i francesi sono stati sempre un paio di passi avanti a noi, niente da dire. Evitando i classici su cui potremmo scivolare come fossimo in curva a Le Mans con gomme slick sotto il diluvio, basta far menzioni a caso nella modernità più o meno recente: i Telephone e la New Rose Records, Les Inrockuptibles, il meticciato di Les Négresses Vertes e Mano Negra, il chill out post long drink di Stereo Total e Nouvelle Vague, i sofismi electro di Air, Daft Punk e M83.
La Francia ha sempre avuto un suo fascino intrinseco e i francesi il loro, con quella erre moscia e i baci rubati da Doisneau lungo la rive gauche.
French Letter sarà una rubrica a cadenza indefinita dove si racconterà di questo.
Di Parigi, della sua musica, dei suoi luoghi e dei suoi fatti.
Sniffin’ Glucose

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Se proprio dobbiamo parlare di Parigi in una recensione, mettiamoci che le case fanno 12 metri quadrati calcolati ad occhio; che non riesci ad ascoltare Dente per via degli amplessi della vicina, vieni a vivere come me un paio di parossistici medaglioni; che al ristorante, quando puoi permettertelo, devi giocare a tetris per sederti e ringrazi le sale giochi degli anni ‘80. Che gli artisti italiani qui non se li fila nessuno e li portano a suonare in sgabuzzini asfissianti con un etto di pasta al pomodoro come rimborso spese.

Sarà un anno che sono qui e il gruppo, la comitiva cioè, di persone che frequento parla in idioma latino moderno intercalato da formule di cortesia. Si tratta principalmente di illustratrici italiane che a Parigi hanno trovato un avvenire meno incerto e la possibilità concreta di lavorare per qualcosa di più tassabile della visibilità, di più sfamante dei ringraziamenti, di più riposante di uno Stilnox. Ci ritroviamo ogni tanto a bere nei posti più disparati, tipo i vernissage con alcool a sbafo, o il lungosenna coi pic-nic in stile gallico. Le birre prese al Franprix o da Casino bagnano le nostre cene in sacchetto, sgomitate in centimetri quadrati di selciato affollato, ascoltando musica che va dalla neomelodica rap francese alle orchestrine New Mondina Style versione smartphone, tipica dei giorni nostri, amplificata da casse wi-fi acquistate per due soldi su Ali Express.

Succede che una sera di queste ci ritroviamo, insieme ad altri personaggi dall’idioma latino moderno, da CiaoGnari, un’enoteca nel 20esimo che fa anche concerti, gestita da e per palati in fuga dove riparano Charlotte Gainsbourg (di ogni sesso) martoriate dai troppi roquefort.
È il 18 settembre, qui a Parigi fa un freddo becco, tutto intorno é giallo e blu, c’è una gran Luna piena, stelle e lumicini, foglie appiccicate all’asfalto umido. A un turista a caso basterebbe questo per innamorarsi in ‘sto carnaio di città, ma la serata ci offre altri elementi già masticati e a rapido assorbimento da aggiungere alle sequele dei nostri coinvolgimenti da cartolina.

Qualcosa di romantico in una città che di romantico ha solo gli spot pubblicitari dell’ente del turismo, e qualche migliaio di libri e film ambientati in posti da evitare come la peste del 1358.
Qualcosa di romantico come cinquanta, forse cento-cinquanta-persone che condividono respiri e germi, nel sotterraneo di questa enoteca in cui mi trovo, per il piacere di ascoltare le cogitazioni acutische di Colapesce mentre un Altro tizio, Baronciani, gli disegna sopra col proiettore. image1
Lorenzo è un po’ timido, o forse è un falso timido come ogni figlio di buona razza che si rispetti, comunque parla poco e più che altro canta il suo repertorio che le decine di ragazzette sanno stonare a memoria. C’è intimità. Un’intimità nella quale, queste astanti ben vestite in malo modo, si augurano di essere percepite al più presto. E non è una cosa gradevole. Sulle note di Oasi ed Egomostro sembra infatti di stare ad una sorta di intorto collettivo, in compagnia di ste valchirie accovacciate alla bene e meglio sui divanetti e sul pavimento del locale. Nessuna però muove un passo e resta estatica e trasognante con gli occhi colmi di parole disegnate. Si sentono forse comprese nel profondo dalle parole del piccolo lombardo venuto dalla Sicilia e, segretamente, vorrebbero essere la causa recondita di tanta prosa.

Tu che goccioli al mio fianco
Specialista in autoscatti
Aspetti come un cane fedele il padrone
Ammiro in silenzio la tua bocca
Hai per caso un oki?
Come sei dolce con la bocca aperta
Sbircio anch’io
Consumo con le rime il tuo pallore
e una città dell’estero ti accoglierà con un sorriso
Sono a un palmo di naso
Ma quanta luce i tuoi occhi
Non ci credi? Colgo il tuo rossore
sulla grazia del tuo viso
ma che denti enormi asino marino

Invece.
Invece la musica segue la sua poetica tra i fiori rosa/fiori di pesco mogoliani e Iron &Wine, e fa tornare alla memoria, soprattutto per la voce, i concerti acustici di un celebre gruppo romano di cui si son perse le tracce (che fine hanno fatto i Fumisterie?), a tratti così non sense da essere per ciascuno una risposta diversa ma comunque una risposta, forse persino giusta. Il lombardo venuto dalla Sicilia sparisce nella luce rosa della stanza e lascia spazio alle parole e ai disegni di Alessandro Baronciani e a me non viene, stranamente, da chiudere gli occhi. Testimone di un reato, che ci inventeremo. Qualcosa tipo suggestione di emozione e occultamento di cadavere.
I disegni come si compongono così scivolano via veloci, sottolineano i temi delle canzoni e regalano loro un valore tangibile: ci sono china, acqua, coriandoli e tempere, paillette e decoupage, linee delicate e violenti colpi di pennello da acquistare a 20 euro a pezzo a fine concerto. Tremano i fogli, si rovescia il colore, chissà chi gli fa le lavatrici a Baronciani. C’è un gatto arancione e c’è una lampada staccata per mettere in carica un cellulare, panni stesi sotto alla Luna e foglie secche.

Siamo accalcati fino alla porta della stanza, impossibile per Colapesce farsi desiderare: concede il bis senza tante scenette pur di aprirsi un varco verso l’ossigeno.
Sarà stato forse anche merito di questa perdurata clausura di un’ora e mezza in semi apnea, ma il concerto di stasera lascia ai presenti la sensazione nitida di aver vissuto una serata densa di perigrazioni nei ricordi, nei fantasmi grandiosi di amori passati, ed exploit di tristezza da trasmigratore pentito (Maledetti italiani). A guidare i pensieri è la traccia incofondibile di quelle immagini che accompagnano ogni canzone con genialità di sintesi, e che aggiungono al bicchiere pieno quella goccia che inevitabilmente lo fa traboccare.
Fuori dalla sala Parigi è ancora fredda, di turisti non se ne vedono più. Tutto quel romanticismo, mi accendo una paglia e mi tuffo controcorrente: torno a casa senza un satellite.

Antonella Garro e Roberto Pasini


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