Il 1992 è stato tanto tempo fa.
A quell’epoca Jack Frusciante non era uscito dal gruppo, Enrico Brizzi si aggirava per i corridoi del Galvani e a Stefano Accorsi la sorte non aveva ancora commissionato quella battuta destinata a spedirlo nell’iperspazio tra un maxibon e l’altro. Il 1992 fu un anno che un quarto di secolo dopo qualcuno deciderà di celebrare niente meno che con una serie televisiva nel cui cast finirà proprio Stefano Accorsi, nei panni di un pubblicitario rampante che nuota alla buona tra le onde di tangentopoli.
Nel marzo del 1992 a_ aveva da poco compiuto 25 anni e il giorno in cui fece la scelta destinata a indirizzare la sua vita su un binario piuttosto che su un altro stava ripensando ad una cosa letta anni addietro su Rockerilla, il suo mensile preferito. Ricordava le pagine in cui Robert Smith intervistato da Alberto Campo affermava imprudentemente che una volta compiuti i 25 anni si sarebbe suicidato. Lo avrebbe fatto perché era convinto che a 25 anni ormai si fosse dato il meglio e quindi andare oltre non avrebbe avuto molto senso. Better burn out than fade away, come cantava Neil Young. Che poi qualcuno quell’idea la portò in fondo sul serio giusto un paio di anni dopo, nel tinello di una villa sulle colline di Seattle.
a_ era abbastanza d’accordo sulla faccenda dei 25 anni: nel 1992 a 25 anni magari non è che si fosse proprio vecchi, ma se si voleva combinare qualcosa conveniva essersi messi in moto da un pezzo e a quell’età si doveva essere già a buon punto.
Un paio di settimane prima aveva deciso che sarebbe andato a fare un giro al nord.
Qualche giorno assieme al suo amico di sempre per festeggiare la fine dell’università e quella laurea da lui ritenuta così inutile che prima di fruttargli un passe-partout per un qualsiasi tipo di professione seria sarebbero passati anni durante i quali avrebbe avuto tempo per cercarsi un lavoro, continuando nel mentre a coltivare la sua grande passione: la musica rock. Lui e l’amico avevano in tasca i biglietti per assistere a tre concerti che spiccavano nel sempre affollato calendario della night life londinese. Il primo era in programma alla University of London Underground. Suonava Polly Jean Harvey, una cantautrice inglese di cui il Melody Maker diceva un gran bene. Al negozio import della sua città a_ aveva comperato il suo primo disco, un dodici pollici con la copertina bianca e in mezzo una foto nera che forse era più un disegno che una foto. Le tre canzoni stampate su quell’ep non gli erano dispiaciute ed era curioso di vederla dal vivo, anche se in realtà a lui le cantautrici non erano mai andate particolarmente a genio. Gli altri due concerti erano di certo più roba sua: i Primal Scream che stavano iniziando a portare in giro Screamadelica e i Fall alle prese con le canzoni di Code: Selfish, magari non proprio il loro album migliore ma pur sempre i Fall, uno dei suoi gruppi della vita.
Le cose erano però destinate ad andare diversamente.
In quel preludio di primavera accaddero infatti due eventi imprevisti.
Dapprima il nuovo giornale su cui aveva da poco iniziato a scrivere di musica gli propose di entrare in redazione poi, cosa inverosimile e ancor più inattesa, quella cazzo di laurea generica e inutile come poche gli fruttò in maniera inopinatamente istantanea l’attenzione di qualcuno.
Una grande cooperativa della sua zona, incuriosita da chissà cosa nelle sue striminzite referenze, lo chiamò utilizzando il numero di telefono lasciato in calce a uno dei tanti curriculum che in quei giorni aveva cominciato a spedire abbastanza casualmente in giro. Incredibilmente quella cooperativa, impegnata a sfornare a nastro succhi di frutta e marmellate, pareva stesse cercando proprio uno come lui.
Doveva cominciare subito, la stessa settimana in cui era previsto il viaggio a Londra.
Forse avrebbe potuto chiedere di posticipare l’inizio del lavoro di qualche giorno ma non gli pareva bello cominciare così e in ogni caso quella coincidenza gli sembrò una faccenda talmente chiara e profetica da non potere essere messa in discussione. E lui alle coincidenze aveva sempre dato ascolto.
Si trattava di fare una scelta netta, non era più il momento per le vie di mezzo: prendere o lasciare. Una rinuncia forse lo avrebbe indirizzato verso un’altra vita ma la solidità offerta dalla cooperativa non poteva essere ignorata. Il posto fisso era ancora una roba seria e alla sua età a_ si sentiva già troppo vecchio. Doveva cominciare a crescere sul serio.
Nel 1992, da un’altra parte del mondo, un tizio scozzese stava scrivendo il suo primo romanzo. Un libro che di lì a poco avrebbe riscosso grande successo e qualche anno dopo sarebbe diventato un film.
Se quel giorno di marzo del ’92 a_ avesse avuto modo di ascoltare l’incipit scolpito sopra la batteria che pompa e la voce di Iggy che incalza nella sequenza di apertura di quel film, forse avrebbe fatto un’altra scelta:
Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera; scegliete la famiglia; scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete un mutuo a interessi fissi; scegliete una prima casa; scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valigie in tinta; scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo; scegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi; scegliete un futuro; scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?
Certo lui avrebbe cambiato l’ultima frase perché l’eroina non aveva alcun ruolo nella sua esistenza e non avrebbe avuto molto senso citarla come ragione di vita.
Magari l’avrebbe sostituita con il rock and roll.
Con quello sì che il discorso sarebbe davvero filato.
Avrebbe scelto il rock and roll e chissà dove, chi e cosa sarebbe oggi, in questo pomeriggio di inizio autunno 2016 in cui poggiando la ortofon sul primo solco di Pornography attendeva l’ora per uscire di casa e tornare a veder suonare i Cure nella sua città, trentadue anni e mezzo dopo quella prima volta sotto al telone bianco e rosso del teatro tenda al Parco Nord.
The Hunches “The Ballad“
Era da un pezzo che non ascoltavo gli Hunches e se non fosse uscito il disco degli Sleeping Beauties, dove ho ritrovato la voce di Hart Gledhill già cantante degli Hunches appunto, chissà quanto altro tempo sarebbe passato. Il bello della musica per come l’ho sempre vissuta io è anche questo, lasciarsi andare ai collegamenti e scoprire cose e poi scoprirne ancora e ancora e non averne mai abbastanza. Ad esempio non sapevo che tab_ularasa fosse un fan degli Hunches, ne’ tanto meno che avesse costruito un video su una delle loro canzoni più belle. Chi è tab_ularasa? Cercatelo. E’ bello scoprire cose, ogni tanto provateci.
The Lavender Flu “My Time“
E se non fosse uscito il disco degli Sleeping Beauties non avrei scoperto il nuovo gruppo di Chris Gunn, già chitarrista degli Hunches. Con loro ha pubblicato un album doppio qualche mese fa. Dentro c’è tantissima roba, a me sono venuti in mente i Royal Trux, i Beat Happening, Daniel Johnston. Cose belle insomma. C’è anche questa canzone, che è una cover di un pezzo di Bo & The Weevils “garage band legend from Vidalia, Georgia”. Necessario documentarsi su di loro a questo punto.
Marching Church “Heart of Life“
Tutto quello che c’è da sapere circa Elias Bender Rønnenfelt è che è uno degli Iceage, qualche tempo fa ha pubblicato un disco su Sacred Bones a nome Vår e ora per la stessa etichetta mette fuori il secondo sotto l’insegna Marching Church. Ha una evidente passione per Nick Cave, non c’è dubbio. Non imbrocca sempre la canzone giusta, ma quando capita conviene starlo ad ascoltare.
Josefin Öhrn and the Liberation “Anything So Bright“
Per la categoria psichedelia pop crauta il miglior disco ascoltato da un pezzo a questa parte arriva a sorpresa dalla Svezia. E’ il secondo di Josefin Öhrn and the Liberation si chiama Mirage e uscirà a breve. In rete non ho trovato niente da piazzare qui e così ho ripiegato sul singolo dell’album precedente, che non è male comunque. Josefin Öhrn ci mette una voce a la Françoise Hardy e un viso di quelli che non ti dimentichi, i Liberation costruiscono attorno un mantra circolare che in alcuni momenti acquista ritmo e in altri si avviluppa denso appoggiando strati uno sopra l’altro. Caldamente consigliato ad amanti di Stereolab, Suicide e Spacemen 3.
Arturo Compagnoni