Era ormai da molto tempo che aveva fatto suo il titolo del secondo album dei Blur, ritenendo con una certa convinzione che la vita moderna fosse spazzatura, almeno per quel che riguardava i comparti della vita che più gli stavano a cuore.
Del resto ciò che la mattina era nuovo già sfioriva al pomeriggio diventando materiale da discarica entro l’ora di cena. E ciò valeva per tutto quello che a lui interessava sul serio, rapporti umani compresi.
Su questo argomento non accettava il contraddittorio ma al tempo stesso non se ne tirava fuori, per quanto avrebbe desiderato farlo. Quello era il contesto in cui si trovava a vivere e vivere continuava a piacergli. Quindi era disponibile ad accettarla quella vita moderna, anche quando per arrivare in fondo ad ogni giornata era costretto a dribblare una moltitudine di bidoni strabordanti immondizia.
In ogni caso era contento di aver attraversato epoche diverse rispetto all’attuale e di aver avuto modo di muoversi anche in altri contesti. Arrivava a convincersi che questo fosse uno dei tanti motivi per cui invecchiare tutto sommato non gli dispiaceva affatto: aveva comunque un altrimenti e un altrove da poter spacciare nel suo curriculum.
A questo pensava quella domenica pomeriggio, seduto su uno dei seggiolini di plastica imbullonati ai vecchi gradoni in cemento dello stadio, mentre gustava a piccoli sorsi un Borghetti in attesa delle due squadre. Dietro di se avevo lasciato i resti del solito sabato sera passato tra le mura di un club a veder suonare un paio di gruppi. Dopo i concerti, come spesso gli accadeva, aveva tirato le 3 del mattino selezionando canzoni da una console per lui sempre troppo complicata da gestire, con i suoi led che di continuo scalavano al rosso e quei cursori che se per disgrazia capitava accidentalmente di spostarli finivi per tagliare i bassi senza nemmeno accorgertene perché nel frattempo stavi preparando in cuffia il pezzo successivo.
Qualche ora dopo aveva sfidato le luci della mattina che per quanto incartate nella foschia del novembre padano erano in ogni caso troppo ostili per essere smaltite senza occhiali da sole e dopo di quello i centocinquanta chilometri di macchina che lo separavano dalla città dove quel giorno avrebbe giocato la sua squadra del cuore. Di per se nemmeno una grande distanza, eppure pesante da affrontare quando nello spazio stretto piazzato tra la tempia di sinistra e quella di destra la vodka della notte prima era ancora decisa a far festa con la sezione ritmica della band post punk australiana che con indiscutibile stile aveva messo sul binario giusto la serata.
La logica avrebbe giudicato insensato tutto ciò e misurato quanto viceversa sarebbe stato più comodo consumare il sabato sera con le gambe stese sotto al tavolo di un ristorante in compagnia di gente della sua età, escogitando argute previsioni sulle imminenti elezioni americane o architettando scenari buoni per il dopo referendum di inizio dicembre senza che nessuno dei presenti fosse dotato della benché minima cognizione di causa per sostenere la discussione. Per poi occupare quella domenica mattina inquadrando la campagna ai confini di Bologna attraverso la grande vetrata del soggiorno, tracciando con la matita considerazioni e idee lungo i bordi delle pagine del libro che da qualche giorno stava divorando. E tornare più tardi sul sofà davanti alla diretta tv della partita di calcio che si sarebbe giocata a centocinquanta chilometri da casa sua, accomodandosi con molta calma di fronte allo schermo giusto cinque minuti prima del calcio d’inizio.
A contrastare lo scarso senno di quella domenica pomeriggio lontano da casa sui gradoni dello stadio lo soccorsero le parole che un suo amico oste e scrittore gli aveva spedito giusto il giorno prima. Quelle con cui lui sosteneva la necessità di camminare con il naso all’insù per guardare il cielo e restare così, in qualche modo, mentalmente giovani.
Meditava sul fatto che ci sono tanti modi per rendere concreta quella metafora sulla gioventù, si badi bene intellettiva e non corporea, che il suo amico aveva così efficacemente tratteggiato e uno di questi era probabilmente quello che lui aveva scelto. Solo che per lui non era stata una opzione ma una necessità e per questo si riteneva fortunato: non aveva faticato. Non faticava ad alzare gli occhi semplicemente perché non avrebbe potuto fare altrimenti. Sin dalla nascita aveva ricevuto in sorte un buono sconto sul prezzo da pagare per salvare il suo mondo e salvando quello salvare anche se stesso.
Perché mettersi in strada per una partita uscendo di casa ore e ore prima del suo inizio, smazzandosi trecento chilometri tra andata e ritorno per poi gelarsi il culo su un seggiolino di plastica lercio anziché sprofondare a costo zero nel divano di casa la domenica, era per lui – semplificando – l’equivalente della scelta di ascoltare musica da un pezzo di vinile piuttosto che tramite un file scaricato da un computer. Così come chiudere un piovigginoso mercoledì sera di inizio novembre assistendo ad un concerto del caro vecchio Calvin Johnson al dopo lavoro ferroviario della sua città, anziché capitolare in casa di fronte a una puntata di Westworld, significava sentirsi ancora vivo.
Pur lamentandosi con una periodicità sempre più frequente del fatto che tra la tanta gente che vantava pubblicamente un’appartenenza militante ai suoi mondi in realtà fossero pochissimi quelli disposti a farsi veramente coinvolgere da quegli stessi mondi, in fondo doveva ammettere che gli faceva quasi piacere che fosse così esiguo il numero di coloro che mostravano di comprendere sul serio il significato delle sue strambe teorie da vecchio reduce di chissà quale guerra mai combattuta. La cosa gli offriva un senso di aristocratica solitudine che annullava quella necessità di condivisione che per tanti anni era andato cercando senza successo e che forse sino ad allora aveva sopravvalutato.
Mando giù l’ultimo sorso di Borghetti, strinse il nodo alla sciarpa coi colori della sua squadra attorno al bavero sollevato del cappotto e si alzò in piedi. Lo speaker stava annunciando le formazioni.
Faust’O “Benvenuti tra i rifiuti”
Questa non è nuova ma è la canzone che ha dato spunto al pezzo che avete appena letto e quindi mi pareva sensato inserirla tra le cinque scelte della settimana.
In ogni caso il primo disco di Fausto Rossi, all’epoca ancora Faust’O, a 40 anni dalla sua uscita resta di una attualità terrificante. Tanto nei temi quanto nei suoni.
Gold Class “Kids on Fire”
La band post punk australiana che ha brillantemente dato il via al sabato sera di cui sopra.
Immagino che tutti quelli che non erano lì avessero cose molto più importanti da fare in quel momento. Beati loro.
Selector Dub Narcotic “Hotter than Hott”
E questo è il caro vecchio Calvin Johnson, che ha suonato al dopo lavoro dei ferrovieri in un piovoso mercoledì di inizio novembre.
Anche quella sera immagino ci fossero cose più interessanti da fare in giro.
The Lasters “Ivory Tower of Beer”
Se proprio devo vivere tra i rifiuti allora con me voglio tutti i dischi della In the Red e 10-100-1.000 Lasters.
Allacciare le cinture di sicurezza e premere play.
Immersion “FireFlys”
Colin Newman (Wire) è tornato a far coppia con Malka Spigel (Minimal Compact). Ed è ancora bello lasciarsi affondare nel loro piccolo stagno di suoni.
Arturo Compagnoni