
My boys take what I say
Do it the studio way
New equipment all clean
New gear
Clothes mean
I answer and take the calls
No trouble with the law
Turn it up for interviewers
Oh yeah prime movers
I wonder what is next year’s thing?
Crash smash crash ring
(It’s The New Thing – The Fall – 1978)
Ho passato il 31 dicembre lavorando. Una consuetudine ormai. Non che mi dispiaccia, a dire il vero. Magari dico che non mi dispiace perché devo convincere me stesso che alla fin fine si tratta di una maniera accettabile di passare l’ultima giornata dell’anno e comunque non ho tante altre alternative. Quindi lavoro, rispondo educatamente a quelli che mi scrivono facendomi gli auguri e tiro avanti, con la speranza che almeno finisca in fretta.
La mattina del primo gennaio, mentre me ne stavo ancora a letto, con un’altra giornata di lavoro che si prospettava da lì a poco, ho pensato che dovevo acquistare un paio di dischi che avevo in testa.
Compro i dischi in vinile non perché li debba ascoltare, anche se mi piace farlo. La maggior parte decido di prenderli proprio perché li ho già sentiti e mi sono piaciuti. Parto con l’idea di comprare massimo 30 dischi, quelli della mia classifica degli album dell’anno che mano a mano si completa con lo scorrere dei mesi, malgrado non ne faccia una materialmente da anni. Naturalmente non riesco a controllarmi e mi ritrovo con un centinaio di dischi in casa in più ma con me stesso riesco ad essere particolarmente indulgente e finisce che non debba rimproverarmi proprio nulla. Compro i dischi in vinile perché sono oggetti di cui amo circondarmi, anche se poi già so che sul piatto ci finiscono una manciata di volte e tutto il flusso di ascolti rimane ancorato alle piattaforme digitali.
Ripensandoci ora, a qualche giorno di distanza, quel gesto mi pare proprio indicativo. Ho aperto la pagina di Amazon (sì, mi piace comprare i dischi nei negozi, ma dubito che Achille mi avrebbe aperto la porta alle nove del mattino del primo gennaio) e ho cliccato acquista sul nuovo album di Solange, poi su quello di Carla Dal Forno, due dischi che proprio non potevano mancare nella mia collezione. Ho passato ormai anche la mezza età, ho tre figli, un’attività imprenditoriale, alcuni hobby che nulla hanno a che fare con la musica e nel primo giorno dell’anno, apro gli occhi, e per prima cosa mi metto ad ordinare dischi senza nemmeno aver messo un piede fuori dal letto, come se non avessi altri pensieri per la testa. Come se fosse la cosa più normale da fare e come in effetti è sempre stato. La mia letterina di intenti per il nuovo anno ha sempre avuto la forma di una lista di dischi, del resto.
Faccio la stessa cosa da almeno trent’anni a questa parte, insomma. Sarà magari cambiato il metodo e il modo, ma si tratta di dettagli. Questi sono i giorni dell’anno dove si vanno a riempire le caselle ancora vuote e dove, contemporaneamente, si iniziano a mettere a fuoco quei nomi che rischiano di occupare uno spazio importante nei prossimi dodici mesi.
Ecco, a questo proposito: era tradizione per la stampa musicale d’oltremanica occupare i primi numeri di gennaio con una lista di nomi che, secondo loro, avrebbero fatto il botto definitivo da lì a poco. Erano pagine che mi ritagliavo per poi mettermi alla faticosa ricerca di un qualche riscontro fisico (un 45 giri, un mini LP, scontrandomi inevitabilmente con le difficoltà e i costi dell’importazione) che potesse darmi qualche certezza in merito. Una sorta di caccia al tesoro che finiva per entusiasmarmi inevitabilmente ogni anno, a discapito di qualche disco che ancora conservo con qualche imbarazzo e ben nascosto tra gli scaffali della mia collezione.
Questa piccola mania è stata spazzata via dalla modernità digitale. Di qualsiasi gruppo agli esordi è disponibile un file in streaming, pronto a soddisfare qualsiasi curiosità in tempo reale, neppure il tempo di farsi venire la voglia per davvero e ritrovarsi già soddisfatti, in una sorta di eiaculatio precox del digging digitale.
I nomi per il nuovo anno rimangono comunque (e qui sotto ne propongo cinque), su tutto il resto non tocca che farsene una ragione.
THE MOLOCHS – You And Me
Si rischia di incappare negli stereotipi più banali: la california, i Byrds, il garage rock degli anni sessanta che rimane al confine con la psichedelia. Aggiungiamoci pure il Paisley Underground che di tutte le cose sopracitate era già una variazione al tempo e abbiamo il quadro completo.
In questi giorni uscirà il nuovo album e questa canzone già ce lo fa mettere in cima
alla lista dei dischi più attesi. Brano irresistibile, da ascoltare in modalità repeat, a metà strada tra i primissimi REM e i Byrds, giusto perché mi piace esagerare.
POSSE – Voices
Due canzoni, una per lato. Un singolo che è possibile ordinare anche in versione sette pollici, alla vecchia maniera. Un trio di Seattle che pare proprio catapultato da un’altra epoca: basso, chitarra e batteria e un suono che loro stessi definiscono come il frutto di 27 years of disappointment and delays pedals. Roba per chi ha in casa i dischi di Galaxie 500 e Yo La Tengo e ne ha una gran cura.
HAND HABITS – Flower Glass
Esce sotto l’ala protettiva di Kevin Morby, il debutto di Hand Habits. In pratica il progetto solista di Meg Duffy, polistrumentista che ha passato gli ultimi due anni in tour con lo stesso Morby.
Questa è una canzone che ha il calore e l’imperfezione dei brani registrati in casa. Scorre fragile ma sa come catturare attenzione, merito di una voce che si ricorda fin dal primo istante e una melodia che risulta “classica” fin dal primo ascolto. Se siete tra quelli che hanno gridato al miracolo con Sharon Van Etten non potete esimervi.
MEILYR JONES – How To Recognise a Work of Art
Questo è il periodo dell’anno buono per recuperare dischi che non si erano considerati in principio, si diceva. Meilyr Jones è un ragazzo gallese che a quanto pare ha già una bella avventura musicale alle spalle con i Race Horses di cui non ho mai sentito una singola nota.
Questa è una canzone tratta dal suo debutto solista, intitolato 2013, che è l’anno dove tutte le sue certezze sono andate a rotoli: band, fidanzata e fiducia nel futuro.
Ha vissuto sei mesi a Roma, come gesto di elegante disperazione e ha trovato l’ispirazione per immaginarsi nuovamente su di un palcoscenico.
Ne è uscito un disco bizzarro, pop ma mai banale, fatto di arrangiamenti curati, pianoforte, archi e fiati.
Questo brano è un irresistibile crescendo a metá strada tra i primi Dexys Midnight Runners e Momus. Uno di quei brani che danno fiducia nella forza della musica, pop o meno che sia. Lontano dagli stereotipi e dalla banalitá, con personalità, che forse è l’unica cosa che ancora possiamo chiedere a chiunque decida di imbracciare uno strumento e di scrivere una canzone.
QTY – Rodeo
Non amo le scommesse. Ma in questo caso qualcosa su questa coppia di giovanissimi newyorkesi (un ragazzo e una ragazza) la punterei senza esitazioni. A dire il vero un singolo di debutto così era un bel po’ di tempo che non mi capitava tra le mani. Inutile dire che quando si tratta di chitarre, rock’n roll e New York certe connessioni vengono automaticamente ma davvero impossibile non pensare agli Strokes e, andando più lontano nel tempo, a tutta la scena degli anni settanta, manco fosse un brano del catalogo della Ork Records. Due minuti e trentatré secondi che sfiorano la perfezione, insomma.
CESARE LORENZI