C’è stato un momento nella vita in cui ho pensato che forse me la sarei anche potuta cavare con poco. Che poteva esistere, nascosto da qualche parte, un tipo di mestiere che mi avrebbe consentito di mettere assieme uno stipendio sufficiente a campare realizzando cose che mi piacevano veramente e poteva anche esserci un tipo di vita che avrei potuto portare avanti per conto mio arrivando in fondo senza attirare attenzione, facendomi gli affari miei. Sarei rimasto rannicchiato in qualche angolo dove la luce non sarebbe mai arrivata a far vedere la polvere, mettere in evidenza i graffi e le ammaccature, rimarcare le cicatrici. Immagino che avrei potuto farlo sul serio con un po’ di convinzione e di coraggio in più. Se non ne sono stato capace la colpa è solamente mia che non ci ho creduto abbastanza e alla fine ho fatto altre scelte, quindi non me la prendo con nessuno.
Nel tempo il rimpianto per non aver tentato di andare fino in fondo si è attenuato e ormai capita raramente che ci pensi, me la son fatta andar bene così e non è nemmeno andata tanto male. Però quando mi capita di incontrare un tipo come Andrew Fern questa faccenda mi torna in mente e mi strappa un sorriso più dolce che amaro al pensiero che lui è quello che volevo essere io. Lui ce l’ha fatta.
Non ho effettivamente idea se a Andrew Fern per vivere sia sufficiente il lavoro che gli vedo fare, ma se lo è lui è il mio modello ideale. Andrew Fern è l’uomo che negli Sleaford Mods fa quello che non canta. Se non li avete mai visti dal vivo date un occhiata a un video qualunque. Se ne sta in un angolo con una mano impegnata a tenere stretta una birra e l’altra in tasca, probabilmente indaffarata a grattare le palle. Si muove con dinamismo decisamente moderato e annuisce. Quando crede sia il momento di agire pigia, presumibilmente a caso, il tasto di un qualche aggeggio elettronico appoggiato nei suoi paraggi. La sua presenza è di quelle a bassissimo valore aggiunto dal punto di vista tecnico ma di enorme potenzialità ideologica, oltreché estetica. Andrew Fern non è mosso dalla rabbiosa acidità alcolica che carica la molla al suo amico Jason Williamson. A lui pare non importare un accidenti di niente di nulla e di nessuno. Lui si astrae, se ne tira fuori e utilizza l’unico sistema per restare sereno in un’epoca come quella che stiamo vivendo, un’epoca in cui la gente secondo logica dovrebbe stare in strada giorno e notte con un fucile carico in mano spianato contro qualcosa e contro qualcuno. Ognuno scelga a proprio gusto chi è il qualcuno e qual è il qualcosa. Lui guarda le cose, ci passa vicino e riesce a ignorarle consapevole del fatto che quando non ti frega un cazzo di nulla, nulla ti può scalfire. Essendosi come chiunque altro ormai arreso a tutto, nelle ideologie così come in qualunque passaggio della vita quotidiana, Andrew Fern attua l’unica mossa possibile: non potendo cambiare il mondo agisce in modo che il mondo non cambi lui. E così vince. Tanto a macinare incazzatura ci pensa il socio, che è anche quello che si espone alla luce mostrando graffi, ammaccature e cicatrici. Assieme loro due, Andrew Fern e Jason Williamson, mi ricordano incidentalmente che la musica con cui sono nato, quella che un tempo qualcuno definiva alternativa perché effettivamente era un’alternativa a tutto il resto non solo per come suonava ma anche perché era un’attitudine che indicava uno stile di vita altro, non è una musica con cui teorizzare con gli amici al bar di un social network pesando ogni parola per stare attenti a non urtare la sensibilità di qualcuno. Ancor più questi due mi rammentano che la musica che mi piace sul serio non è solo musica ma è una chiave per accedere a altri immaginari e (sotto) culture diverse. Che la musica che mi piace per davvero può anche non essere formalmente bella e socialmente corretta ma può avere il sapore guasto di una vodka da due soldi comperata al discount, l’odore acre del piscio schizzato contro il muro di un vicolo e il ritmo ostile del ringhio hooligano in curva a Millwall.
Per questo, al di là di qualunque gusto musicale, al di là della bontà dei dischi e delle canzoni, al di là del bene e del male, oggi gli Sleaford Mods sono l’unico gruppo che mi è indispensabile tra quelli che conosco.
L’unico che mi fa sentire vivo per davvero.
L’unico.
Sleaford Mods “B.H.S.”
Il nuovo disco degli Sleaford Mods si intitolerà English Tapas e uscirà per Rough Trade il 3 marzo.
Gli Sleaford Mods saranno in Italia a fine maggio per quattro date: il 27 al Santeria Social Club di Milano, il 28 allo Spazio 211 di Torino, il 30 al Locomotiv di Bologna e il 31 al Monk di Roma.
Priests “JJ”
La voce di Katie Alice Greer, tipo piuttosto interessante a giudicare da quel che dice, mi ricorda quella di Beth Ditto delle Gossip, e non è un complimento da poco. La musica dei Priests è tirata e saltellante e il fatto che arrivino da Washington D.C. con la benedizione di casa madre Dischord è già di per se una garanzia. Sono in giro da un quinquennio ma il primo album, quello che contiene questo pezzo e che si chiama Nothing Feels Natural, esce solo ora per un’etichetta che gestiscono direttamente loro, la Sister Polygon Records. Mi mancava da un pezzo ascoltare un disco del genere.
Spartiti “Elena e i Nirvana”
Con la musica italiana cantata in italiano ho sempre avuto un rapporto complicato, rapporto che negli ultimi mesi è diventato decisamente difficile, ai limiti della vera e propria rissa. Eppure gli Offlaga Disco Pax mi sono sempre andati a genio. Ai tempi di SG 1.0 scrissi anche una cosa su di loro. Se mi piacevano gli Offlaga ovvio che mi siano graditi anche gli Spartiti che in qualche modo possono considerarsi il logico proseguo. Max Collini ha un approccio al racconto capace al tempo stesso farmi ridere, pensare e in certi momenti pure commuovere e sulle qualità di Jukka Reverberi come musicista inutile stare a parlare. Questa canzone, per come la vedo io, racconta più cose sul rapporto tra un ragazzo e una ragazza di un qualunque trattato sociologico da mille pagine e la suspense riguardo a quale sia il disco che Elena porta in regalo a lui da Londra, sciolta attorno al minuto sei per quanto già svelata nel titolo della canzone, è la stessa che accompagna il tiro di un calcio di rigore al novantesimo.
Rat Columns “Someone Else’s Dream”
I Rat Columns sono il classico gruppo che quando mi ritrovo tra le mani mi chiedo come mai non mi sia mai capitato di sentirne parlare prima. Hanno già due album e diversi ep fuori, un paio pubblicati peraltro da etichette che sono solito seguire (R.I.P. Society e Blackest Ever Black). Il disco nuovo, Candle Power in uscita a inizio marzo, sarà pubblicato da un’altra label che mi è cara, la Upset the Rhythm. Copio e incollo una frase che ho appena letto e che definisce questa canzone meglio di qualunque altra parola mi possa venire in mente al momento: is a sparkling piece of jangle pop bliss that sounds like it was ripped out of the catalogs of Razorcuts, Sea Urchins or early Go-Betweens. Punto e basta.
Fazerdaze “Lucky Girl”
Fazerdaze è Amelia Murray, ragazza di Auckland con due ep autoprodotti a referto e un album in arrivo tra qualche mese. Morningside sarà il suo titolo e uscirà il 5 di maggio per la Flying Nun. Questo è il singolo che lo anticipa promettendo benissimo.
La prossima volta che nasco devo assolutamente ricordarmi di farlo in una di quelle isole sparpagliate in mezzo al Pacifico all’estremo est, laggiù sotto l’Australia.
Arturo Compagnoni