Ho incrociato i Fugazi dal vivo tre volte e li ho sempre visti suonare in luoghi insoliti.
Una fabbrica abbandonata dietro la stazione della mia città, un campo da calcio di un paese alle porte di Bologna, una discoteca di Modena col pubblico seduto per terra, non ricordo se per scelta o se dietro richiesta della band. Direi senz’altro la seconda, perché di gente che volontariamente decide di starsene seduta durante un concerto dei Fugazi io non ne ho mai conosciuta. Anche gli Evens li ho visti suonare tre volte e anche per loro è valsa la regola della logistica inusuale.
Come qualcuno di voi si sarà certamente accorto con il giornale in edicola questo mese Rumore festeggia le sue trecento uscite. Io invece i miei trecento numeri li bollerò con qualche mese di ritardo, stante il fatto che le prime cose che scrissi vennero pubblicate nel numero 3, quello dell’aprile ’92 con in copertina l’Isola Posse. Erano giusto un paio di recensioni: Galore dei Primitives e Lazer Guided Melodies degli Spiritualized. Poteva certamente andarmi peggio come inizio. Assieme a me cominciò il suo percorso tra la musica di carta anche Cesare, con cui allora facevo radio dagli scantinati di Via Masi 2 sulle leggendarie frequenze di Radio Città 103. Sarebbe interessante ricordare come abbiamo iniziato, giusto per marcare ancora una volta quanto tanto i tempi siano cambiati, ma è una storia lunga e già il pezzo che segue è lunghissimo quindi facciamo un’altra volta. Scorrendo la lista dei nomi che collaborarono a quel numero del giornale mi accorgo di una cosa che già in realtà sapevo: sono rimasto l’unico reduce di quegli anni assieme a Giorgio Valletta e Claudio Sorge. Era una bella squadra e ancora oggi mi sorprende il fatto che io ci sia finito in mezzo.
In tutti questi anni ho raccontato molte storie e su quelle storie avrei altrettante storie da raccontare, alcune interessanti altre meno. Tra le cose che ho scritto ci sono scoperte ragguardevoli e cantonate altrettanto importanti, articoli scritti bene altri decisamente meno. Non mi sono mai spacciato per un giornalista nè tanto meno per un critico. Sono solo un appassionato di musica come tanti e di questa passione ho sempre scritto. Niente di più.
Ogni tanto capita che qualcuno mi chieda qual è, se c’è, un articolo cui sono più legato rispetto agli altri, qualcosa che ricordo con maggiore piacere. E certamente si, ce ne sono. In particolare ce n’è uno che mi è rimasto appiccicato addosso, per una serie di motivi: il soggetto trattato, le circostanze, le persone che in quel momento avevo attorno a me. Lo scrissi poco più di undici anni fa, quella volta che mi capitò di trascorrere qualche giorno con Ian MacKaye in giro tra la nostra east coast e il confine della padania.
Verso tre dita di Grey Gloose nel bicchiere e festeggio, rileggendomi l’articolo direttamente dal file word su cui lo scrissi allora.
Alzo il bicchiere congratulandomi con Rumore per aver resistito tanto a lungo e averlo fatto in tempi così difficili per la carta stampata e complimentandomi con me stesso per essere ancora vivo, anche se molto molto stanco.
The Evens
They’re all punk songs
(pubblicato su Rumore del dicembre 2005)
Avete presente la foto che sta sul retro copertina del primo omonimo disco degli Evens?
E’ una istantanea che ritrae i due componenti della band, Amy Farina e Ian MacKaye, a mezzo busto. Lei indossa una maglia nera a maniche lunghe, lui una t-shirt.
La foto è in bianco e nero dunque non potremmo esserne sicuri, ma giureremmo comunque che entrambi indossino quegli stessi vestiti la sera in cui li incontriamo per la prima volta.
IMMAGINE PUBBLICA LIMITATA
E’ il giorno in cui debutta il mese di novembre, giornata di festa, e al principio della sera il centro di Ravenna è immobile e vuoto. Il Teatro Rasi e il suo cortile paiono essere gli unici luoghi animati nel quartiere. Mentre all’esterno si consumano sigarette, dentro la coppia di musicisti sistema la scheletrica attrezzatura destinata a supportare lo spettacolo che di lì a poco andrà in scena.
Frequentandoli anche nei giorni successivi avremo modo di verificare che la coincidenza tra quella foto di copertina e il loro abbigliamento odierno non è per nulla casuale: lei difatti veste di nero, sempre, mentre per lui la t-shirt oversize è una divisa, quanto il berrettino di lana calcato in testa, la felpa nera col cappuccio a sostituire la giacca e il pantalone tagliato sopra al ginocchio. Immagine pubblica inesistente, come era lecito attendersi, per l’uomo dai pantaloni corti. Ma poi ci accorgiamo che sono proprio quelle braghe, nere anch’esse, e le calze bianche corte che li accompagnano in basso ad azzerare l’aria che il volto di Ian MacKaye ispira. Un piglio da signore che si avvicina all’età di mezzo senza nascondersi, continuando al tempo stesso a ignorare quelle convenzioni che, se non il passare degli anni, quantomeno la propria professione tenderebbero a imporgli: lo scorso aprile ho compiuto 43 anni – ci racconta pochi giorni dopo a Bologna – frequento questo mondo da oltre un quarto di secolo, sia come musicista che come discografico, e non mi sono ancora assolutamente stancato. Certo ci sono giornate che vorrei completamente cancellare, momenti in cui non mi diverto, fatiche che una volta compiute si rivelano poi inutili, ma fondamentalmente quello che faccio è esattamente quello che vorrei fare. La musica per me è una necessità prima di tutto. Vedi, pensavo proprio a questo durante la settimana. A Ravenna abbiamo suonato in un teatro meraviglioso, siamo in giro da mesi, ci troviamo in un paese dall’altra parte del mondo rispetto a casa nostra e mi sono detto: questa è la magia della musica! Oggi siamo partiti da Napoli e abbiamo cominciato ad attraversare l’Italia sul nostro piccolo van. All’inizio del viaggio c’era il sole, un tempo bellissimo, poi inaspettatamente, all’uscita di una galleria abbiamo incontrato un muro di nebbia e pioggia. Improvvisamente abbiamo trovato l’inverno. Guidare in quelle condizioni è stato terribile e il viaggio faticosissimo, ma poi siamo saliti sul palco di fronte a una sala piena di gente che ha apprezzato la nostra musica e tutto è scomparso. Questo è il potere della musica, la sua magia.
Strano tour questo che vede gli Evens introdursi in luoghi non abituati a ospitare esibizioni di artisti rock. La scelta non è stata per nulla casuale: abbiamo richiesto esplicitamente agli organizzatori dei concerti di questo tour di allestire gli spettacoli all’interno di sale che non fossero i classici club, stanzoni lunghi e neri, con poche luci, un palco e la platea in basso davanti. Volevamo qualcosa di diverso in modo da poter rendere gli spettacoli particolari ogni sera. Essendo solo in due sul palco abbiamo bisogno di movimentare le serate utilizzando lo spazio attorno a noi e il rapporto con il pubblico.
TEATRO RASI, RAVENNA
La location di Ravenna, già caratteristica in quanto teatro, è resa ancor più singolare dal fatto che lo spazio del locale è ricavato dallo sfruttamento dell’ala della chiesa di un ex convento duecentesco, poi trasformata in luogo di spettacolo dopo essere stata acquistata dal comune della città romagnola circa un secolo fa.
Il velluto blu delle pareti è lo stesso che fodera le poltrone, mentre il palco incorniciato da drappi rossi è incuneato in un abside del vecchio convento, fondale assai suggestivo all’intera scena: il posto è molto bello e l’acustica è ottima – racconta Ian a concerto concluso – rispetto ad altre situazioni c’è stato un po’ di distacco dal pubblico, troppo lontano da noi. Soprattutto all’inizio la situazione mi pareva strana e abbiamo fatto un po’ di fatica a comunicare, poi le cose si sono aggiustate. I ragazzi dell’organizzazione sono stati perfetti. Sono dei veri appassionati di musica e ci hanno messo completamente a nostro agio.
Certo l’approccio alla serata non è stato agevolato dall’introduzione al concerto fornita da un esibizione del fratello di Amy, Geoff Farina, lo spilungone già apparso sui palcoscenici di ogni città italiana negli ultimi anni con i suoi Karate, deciso a proseguire la sua escursione nel mondo della musica virando verso un folk punkeggiante con i nuovi Arde Core. In queste serate a fianco degli Evens si è vestito da cantautore, intrattenendo il pubblico con un’oretta di storielle abbigliate da canzoni che, complici la comodità delle poltrone e le luci di sala accese, hanno avuto un effetto discretamente soporifero sulla platea, la quale nel frattempo si è riempita interamente nei suoi 500 posti di capienza. L’esperienza di ascoltatori e osservatori del panorama musicale in questi ultimi mesi ci inducono a una considerazione che giriamo a MacKaye, circa la riscoperta della musica folk, intesa nel senso più lato possibile, compiuta da una serie di personaggi anche lontani tra loro per formazione ma ugualmente vicini all’underground rock. Pensiamo in principio alla trasformazione acustica di sperimentatori dark quali Current 93, poi alla angolazione indie della nuova scuola cantautoriale americana che ha in Will Oldham il suo principale profeta, per arrivare all’ultimo avant folk newyorkese proposto da gente del calibro di Devandra Banhart e dai tipi della Akron Family: su questo argomento non saprei che dirti, se stai pensando ad assimilare queste cose al percorso di Evens quella non è la strada giusta. Per quanto ci riguarda le cose che facciamo ora non sono diverse da quelle che abbiamo fatto in passato, Amy con i Warmers e le tante collaborazioni cui ha sempre partecipato, io con le band in cui ho suonato nel corso di tutti questi anni. Le nostre, ora come allora, sono tutte canzoni punk. Solo che oggi le suoniamo in due e non con una band numerosa e rumorosa, dividendoci alla pari i ruoli di cantanti e songwriter. Proprio per questo abbiamo scelto il nome, Evens: uguali. E’ chiaro che stante la peculiarità della formazione il risultato può apparire a volte più vicino a certa musica acustica che non a cose maggiormente elettriche.
E il concerto non tradisce le parole spese da Ian: un ora di musica tesa e rabbiosa, resa ancora più vibrante dai continui scambi vocali tra i due protagonisti, spesso destinati a presentare diversi punti di vista su uno stesso argomento all’interno delle singole canzoni. Una resa decisamente più elettrica di quella che avevamo registrato all’ascolto del disco.
Amy Farina è una batterista d’eccezione, a vederla fuori scena pare impossibile possa trovare la forza di percuotere i tamburi con quel fisico, che definire esile parrebbe puro eufemismo. Ma poi incroci i suoi occhi di un azzurro trasparente, e dentro ci leggi tutta la determinazione di una persona che ha trovato nella musica qualcosa di più di una passione, molto altro che non una semplice professione. Ian MacKaye invece imbraccia una chitarra baritono come ci ha pazientemente spiegato, la sua particolare accordatura gli permette di cavarne fuori suoni che a volte la rendono simile a un basso. Suona seduto su uno sgabello e si agita arrotando le parole e mulinando le gambe, poi discute amabilmente con il pubblico parlando ovviamente di politica, di Bush e Berlusconi, per trasformarsi in entertainer nel trascinare l’audience a ripetere il coro di Mt. Pleasant Isn’t, spiegando il ruolo della polizia nella rivolta di piazza di qualche anno fa a Washington, episodio cui la canzone è dedicata. La strumentazione è quanto di più minimale sia dato incontrare su un palcoscenico da concerto: oltre la chitarra e la batteria un paio di piccole casse amplificate issate su due aste trasmettono al pubblico un suono che Amy controlla direttamente dal palco attraverso un mini mixer. Niente roadie, niente tecnici, niente autisti. Solo loro due.
CIRCOLO PAVESE, BOLOGNA
A Bologna qualche giorno appresso la banda arriva con un paio d’ore di ritardo, alle sette della sera di un sabato pomeriggio da nubifragio. Più o meno l’orario a cui di solito il locale apre le sue porte. La leggendaria Via del Pratello, celebrata letterariamente da Emidio Clementi e immortalata in un paio di film ingenuamente underground, è lo scenario su cui si affaccia il Circolo Pavese, locale che per un certo periodo, tanti anni fa, ospitò la nascente scuola cabarettistica bolognese. Nonostante il maltempo le vie porticate sono ingombre di varia umanità indaffarata nel trascorrere il tempo dentro e fuori i mille locali della centralissima strada.
Diverso lo sfondo, differente l’umore gravato dalla tensione del viaggio. Al Pavese i due Evens si affannano nel montare l’attrezzatura il più rapidamente possibile, mentre sul divano di pelle sistemato a bordo palco Geoff Farina, arpeggia con la sua chitarra in surplace, completando un quadretto familiare inconsuetamente rock, in un immagine d’insieme che farebbe la gioia di un qualunque serial televisivo a stelle e strisce.
La scelta di location alternative comporta inevitabilmente anche la necessità di confrontarsi con locali la cui acustica non è stata esattamente studiata allo scopo di assecondare i suoni di una chitarra elettrica e le rullate di una batteria: l’acustica di questa sala è ingannevole (tricky è l’aggettivo che utilizzerà Ian tutta la sera) c’è del legno dappertutto, il che non sarebbe male, però il soffitto termina con una volta di cemento e il suono rimbomba parecchio – ci spiega con aria pensierosa. E allora il sound check prosegue con i tre musicisti che si alternano a esaminare ogni angolo della sala, mentre gli altri provano a suonare qualcosa a turno dal piccolo palco. Dopo svariati aggiustamenti, quando il trio ritiene aver sfruttato al massimo le potenzialità disponibili, arriva il tempo della cena. Insalata per tutti, rigorosamente verde come si erano raccomandati sia Amy che Ian al momento dell’ordine, nel bicchiere esclusivamente acqua. Inevitabile il riferimento allo stile di vita evocato tanti anni fa da una canzone di Ian, poi divenuta bandiera di una certa area politico musicale: vedi Straight Edge era solo il titolo di una canzone di Minor Threat. I motivi per cui la scrissi sono noti (la morte di un amico a seguito di una overdose) ma non era certo mia intenzione dettare un decalogo di regole sul come ognuno dovrebbe vivere la propria vita, né tanto meno avevo idea che da lì si sarebbe sviluppato un vero e proprio movimento di pensiero che sarebbe poi divenuto scuola. Dal canto mio, certo, ho fatto una scelta di stile di vita ma è una scelta che non è limitata esclusivamente al tipo di alimentazione che seguo, o al fatto che non mi drogo e non fumo sigarette, sarebbe davvero limitante pensare questo. La strada che ho da sempre intrapreso è quella di rendere la musica mia e di chi mi sta attorno accessibile se non a tutti al più ampio numero di persone possibili, mantenendo il costo dei dischi che produco entro certi limiti di prezzo, e quando possibile esercitando un controllo sui prezzi dei biglietti per i concerti. Questo è quello che più mi interessa si sappia, non certo quale è il mio menù quando mi siedo a tavola.
Evidentemente la scelta di locali esterni al circuito rock ha reso impraticabile, almeno per questa sera, la politica di un prezzo minimo per il biglietto di ingresso, dal momento che alla cassa l’obolo richiesto sale a 15 euro, prezzo sicuramente in linea con un qualunque altro concerto ma certo superiore agli standard pensati da MacKaye.
Il prezzo non scoraggia comunque i ragazzi che riempiranno il locale di lì a poco. Interessante constatare ancora una volta la trasversalità anagrafica del pubblico che spazia dalle giovanissime generazioni di ragazzi che mai possono aver visto all’opera dal vivo i Fugazi, all’età vicina quando non superiore alle quaranta primavere di Ian, quella della vecchia guardia indie punk rock, presente compatta a rendere omaggio a una delle leggende viventi del genere. Alla fine nessuno rimane deluso riconoscendo l’anello di congiunzione tra il passato e il presente, constatando come un gruppo quale Evens possa essere in grado di affrancarsi dal confronto con le precedenti esperienze di MacKaye per vivere di vita propria, ancora più nella sua versione da concerto, sempre vivace e spigliata. Grazie anche all’apporto del pubblico che si rivela sempre fondamentale per la riuscita dell’evento, tanto da trasformare il finale dello show in una bizzarra sinfonia di suonerie di telefoni cellulari, assecondando la richiesta che arriva proprio dal palcoscenico.
Il tempo di svuotare un paio di scatoloni pieni dei cd poi la realtà del sabato sera viene ristabilita dagli altoparlanti del bar del locale da dove inopinatamente partono a tutto volume le note di vecchi hit da discoteca italiana.
Evidentemente è arrivato il momento di affrontare la pioggia e prepararsi alla trasferta del giorno successivo.
BARCHESSONE VECCHIO, SAN MARTINO SPINO
Settanta chilometri scarsi separano Bologna da San Martino Spino. Il modo più breve di percorrerli però, è quello che prevede lo sfilare una serie di piccoli paesi collegati da strade provinciali strette e bordate da canali costantemente sull’orlo di tracimare, incoraggiati dalla pioggia che da un paio di giorni non accenna a ridurre la propria intensità. San Martino è un paese in provincia di Modena ma ha attorno parecchie città, ed è da tutte egualmente distante: Parma, Modena, Mantova, Ferrara, Verona, Bologna. Si trova nella zona più settentrionale della bassa modenese, “territorio poco conosciuto perché lontano dai centri abitati più importanti e dalle principali vie di comunicazione” recitano le informazioni del comune di Mirandola.
Come lo definirà più efficacemente MacKaye: a beautiful place in the middle of fucking nowhere.
San Martino in Spino è il paese di Tiziano Sgarbi, alias Bob Corn, alias Fooltribe Records.
Oggi pare un generale in pensione con il suo gabardine fuori tempo, la barba fradicia di pioggia e gli scarponi immersi nel fango. Tra i tanti che conosciamo da queste parti è il personaggio che meglio di ogni altro è in grado di assurgere a ruolo di faro, sia pur sghembo e intermittente, per la folta comunità indie locale. Comunità che, come abbiamo più volte avuto occasione di verificare, è la cosa più simile si possa immaginare a certe realtà americane che ruotano attorno a città come Olympia o quella stessa Washington DC che gli Evens così ben conoscono: per noi il concetto di comunità è importantissimo – afferma Ian Mackaye. Con la Dischord la scelta è stata sempre quella di pubblicare esclusivamente band della nostra città, Washington DC, per lavorare con gente che conosciamo e mantenere un rapporto diretto con le persone. La musica è anche un ottimo veicolo per consentire alla gente di comunicare. Ritengo sia anche uno strumento “politicamente” importante, nel senso che consente l’aggregazione di gente diversa che condivide una stessa passione e trovandosi a parlare di musica ha anche modo di scambiare idee e confrontarsi su argomenti diversi. Gli facciamo notare che ultimamente la scena di Washington ha subito qualche defezione di troppo tra i suoi nomi di punta: allo scioglimento di Black Eyes qualche tempo fa si sono aggiunti i rompete le righe di El Guapo e Q and not U: in città c’è stato sempre grande fermento con gruppi che vanno e vengono, ma quello che importa è che la gente dal punto di vista musicale, si mantenga sempre molto attiva. Voglio dire, Amy suonava nei Warmers, i Warmers non esistono più da tempo ma lei è ancora qui a suonare. Gli El Guapo non ci sono più ma abbiamo i Supersystem, e ancora dallo scioglimento di Q and not U sono già nate tre diverse nuove realtà.
Per arrivare al luogo del concerto si percorre un lungo sterrato, che in una giornata come questa si è trasformato in una poltiglia di fango, schivando i fagiani che attraversano la strada. Il concerto è pomeridiano e l’impressione è quella di essere finiti nel mezzo di una sfortunata scampagnata domenicale al centro di una specie di oasi naturale, una riserva protetta. Tutto fuorché lo scenario di un concerto punk. Il Barchessone Vecchio è una struttura a pianta poligonale che ricorda l’idea di una chiesa incrociata con la tradizione rurale del luogo. Non a caso la gente di qui la chiama la Basilica delle Valli. Mentre gli Evens allestiscono il set, un tendone all’esterno offre riparo ai primi arrivati, al riscaldamento provvedono una dozzina di bottiglie di lambrusco. Poco dopo all’interno del locale scopriamo che il riscaldamento oggi resterà un optional tristemente inutilizzabile: Tiziano ha pagato centinaia di euro per affittare il locale – racconta Ian – e non abbiamo il riscaldamento. Io mi sarei rifiutato di pagare, non importa che cosa sarebbe successo. Siamo tutti esseri umani, i ragazzi qui presenti e noi, esseri umani prima di tutto. Dobbiamo essere trattati e rispettati come tali. Evitiamo di replicare che un gesto simile avrebbe messo in discussione lo svolgimento del concerto e la cosa avrebbe comportato per gli astanti, reduci da viaggi più o meno fortunosi, una delusione certo superiore alla dose di freddo incamerata. Nel frattempo di fronte al pubblico si è seduta Majirelle, giovane cantautrice di casa destinata a sostituire Geoff Farina nel ruolo di spalla al concerto principale. Timidissima e garbata Majirelle presenta una manciata di canzoni acustiche e molto belle. Ian MacKaye, che potrebbe tranquillamente essere suo padre, si avvicina per chiederci notizie: mi meraviglio sempre quando sento uno straniero che si esprime in inglese. Capisco che sia una necessità derivante dal desiderio di uscire dai vostri confini e dal bisogno di esprimersi nello stesso modo in cui si esprime la musica che di solito ascoltate. Lei è molto brava, mi ricorda una nostra amica di Olympia con cui Amy ogni tanto suona, si chiama Lois Maffeo. La conosci?
Certo che la conosco Ian, il mondo è piccolo sai, e noi siamo sempre i soliti quattro gatti che si rincorrono ai quattro angoli dell’universo. Quelli che si sobbarcano migliaia di chilometri per suonare nei posti più strani, percorrono centinaia di strade per assistere a concerti a volte improponibili e spendono ancora soldi per comperare dei dischi.
Noi siamo quelli che ancora provano un brivido. E gli occhi ci brillano quando un pomeriggio di una domenica qualunque, sotto il diluvio universale, in un luogo piazzato in mezzo al fottuto nulla, ascoltano un ultraquarantenne mito del loro piccolo mondo seduto su uno sgabello introdurre così una delle sue canzoni più belle, quella intitolata All These Governors: questa è una canzone punk… beh, in effetti le nostre sono tutte canzoni punk.
Arturo Compagnoni