C’è stato un momento, più o meno a cavallo di metà anni ’80, in cui i Jesus and Mary Chain sono stati il mio gruppo preferito. Non che riconoscessi loro chissà quali meriti: erano solamente le persone giuste che suonavano la musica giusta nel (mio) momento giusto. Avevo appena varcato la soglia dei 20 anni e loro, più vecchi di quel tanto che a quell’età basta a farti sentire inadeguato, erano il mio modello. Con quei giubbotti di pelle nera stirati sui fisici asciutti, le lenti scure per nascondere gli occhi fin oltre il tramonto, un batterista in piedi dietro uno scheletro di tamburo e una cascata di rumore capace di non smarrirsi e tenere il ritmo ricordandosi che per essere pop occorre anche infilare da qualche parte un minimo di melodia e i ganci giusti. Non ultima, anzi forse prima di tutto il resto, quella loro inclinazione alla vita così totalmente menefreghista da farmi andare nei matti: non gliene fregava un cazzo di niente e di nessuno e ci tenevano a fartelo sapere. Poi c’era quel verso, quella sola unica frase di una loro canzone, che mi sembrava raccontasse alla perfezione tutto il me stesso di allora ma che in realtà racconta molto più compiutamente il me stesso di oggi, a distanza di un abbondante trentennio: you never understand me.
Ad ogni modo dopo i primi due album il gioco di Gesù e Maria Catena cominciò un po’ a stancarmi.
Continuai a comperare i loro dischi, a ballare le loro canzoni migliori e a leggere le cronache delle liti tra i fratelli Reid, tutto a una certa distanza però. Anche se non li ho mai messi da parte, sono sempre rimasti lì nei paraggi a ricordarmi tutti i calci, i pugni, le incazzature e le porte sbattute con nelle orecchie il feedback di Upside Down e a rievocare le volte che mi sono innamorato di un paio d’occhi con la filastrocca dolceamara di Just Like Honey a farmi da colonna sonora.
Così quando un paio di anni fa i fratelli hanno deciso di rimettersi assieme per suonare Psychocandy dal principio alla fine non ci ho pensato un momento, ho buttato due magliette in valigia e sono partito per Londra est direzione Troxy, pur essendo insofferente alle reunion e nella piena consapevolezza che un live dei Jesus and Mary Chain non vale quasi mai il prezzo del biglietto. A meno che non decidano di spaccare tutto e mettere in piedi una rivoluzione lunga quanto il tempo di un paio di giri al banco del pub sotto casa.
Al contrario in questi giorni sentivo necessità di ascoltare delle loro nuove canzoni più o meno allo stesso modo in cui avverto il bisogno di una birra sgasata e calda a colazione. Vale a dire meno di zero, per dirla con Bret Easton e Costello. Dopo qualche giorno di esitazione l’altra mattina mi sono comunque deciso e ho premuto stancamente la freccia del mio pc sopra la casella “esegui tutti” avviando windows media player senza aspettarmi assolutamente nulla.
E in un attimo è stato come riappropriarmi di tante cose, un tempo care, tutte assieme. Robe diversissime tra loro che nemmeno ricordavo più di avere parcheggiate in memoria: il tema delle elementari dove descrivevo i miei migliori amici (e sì Massi, ci sei anche tu), i gol della Serie A disegnati da Carlo Silva in calce agli almanacchi illustrati del calcio Panini, le puntate di Happy Days sulla Rai prima di cena alle sette e venti della sera, le note di God Save the Queen (o era forse Anarchy in the UK?) dei Pistols sparate dalla console del Vidia come intro al concerto dei ragazzi di Glasgow a Cesena, fine maggio dell’86.
L’ascolto del nuovo disco dei Jesus and Mary Chain è stato un dejà vu che più ovvio di così non poteva essere. Una successione talmente logica e scontata da rendere imbarazzante il fatto che mi sia piaciuta così tanto. Dietro ogni singola nota ho indovinato puntualmente la nota che seguiva, scoperto le rime di ogni verso prima che a pronunciarle fosse la voce di Jim Reid e previsto la sequenza di battute della drum machine in anticipo sul mio piede che poi partiva a seguirne il ritmo.
Trovarmi oggi davanti a un disco nuovo dei Jesus and Mary Chain è stato come sedermi al tavolo con un vecchio amico che non vedevo da tempo e scoprirmi a studiare le rughe dipinte sul volto di lui e le mie, riflesse nello specchio dei suoi occhi. Tentando di rammentare il momento esatto in cui ho smesso di sentire il bisogno della sua compagnia che pure mi accorgo essere ancora oggi così necessaria e illudendomi che la porta alle sue spalle incornici all’improvviso la sagoma di una persona cui poter tornare a dedicare una canzone.
Una canzone come questa:
The Jesus and Mary Chain “Always Sad”
You ain’t like those other girls / There’s nothing like you in this world / You got something more than curls / You ain’t like those other girls / I think I’m always gonna be sad / ‘Cause you’re the best I’ve ever had.
Trementina “Please, Let’s Go Away”
Negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere il Cile attraverso il rock and roll, il garage e la psichedelia di Föllakzoid, Holydrug Couple, La Hell Gang e Chicos de Nazca e messo nella cartella degli ascolti prossimi futuri una lista con i nomi di Mi Andromeda, Vuelveteloca, Lumpen & the Happy Pills e qualche altro.
Ora tocca allo shoegaze con deviazioni 60’s dei Trementina, disco in uscita per quei mattacchioni di Burger Records.
The Orwells “Buddy”
Ok, questa è roba per quindicenni e sì, lo so che tra poco Giulio mi sorpasserà a sinistra e ascoletrà roba più seria ed evoluta di certe cose che ancora mi ostino a farmi piacere, ma questi ottantasei secondi proprio non riesco a levarmeli di torno.
Movin’ on, did my time / Feelin’ fine, feelin’ fine.
Oh yeah.
Coco Hames “I don’t Wanna Go”
https://soundcloud.com/mergerecords/03-i-dont-wanna-go
Dei The Ettes conservo uno sbiadito ricordo che risale a una decina di anni fa. Un trio con qualche disco licenziato dalla gloriosa Sympathy for the Record di Long Gone John, alle prese con un garage pop abbastanza ordinato e non troppo fantasioso. Lindsay “Coco” Hames era la loro cantante e le canzoni che stanno dentro il suo primo album solista in uscita per Merge sono quelle che in questi anni ha accumulato nel cassetto, con in mezzo pure una cover dei Replacements. Powerpop, janglepop, punkpop e una generosa spruzzata di country vecchia maniera.
E la sua voce naturalmente, una di quelle voci per cui è lecito perdere la testa.
Girlpool “Cut Your Bangs”
Il primo disco delle Girlpool mi era piaciuto parecchio ma da quel che ricordo mi sembra fosse piaciuto solo a me. E’ un po’ di tempo che non lo riascolto, comunque mi pare che nella mia catalogazione mentale lo avessi sommariamente associato alle robe degli Young Marble Giants e a certe cose delle Marine Girls.
Ora sta per uscire il secondo disco.
Ho l’impressione che anche questo mi piacerà parecchio.
Arturo Compagnoni