Pink Flag compie 40 anni quest’anno, a quanto pare. Pink Flag è il debutto degli Wire ed è il mio disco punk preferito di sempre.
A dire il vero nessuno lo reputa davvero un disco punk e spesso gli si appiccica davanti un post.
Punk che si trasforma in post-punk che non si sa bene cosa voglia dire ma intanto ci si mette in pace con la coscienza. Come se bisognasse riconoscere una diversità di fondo, non sapere bene di cosa si tratti e utilizzare una formula che tolga dai guai.
La verità è che gli Wire sono sempre stati un’entità a sé stante. Degli stilemi del punk inglese dell’epoca alla fin fine utilizzavano ben poco. Sì, i riff secchi di chitarra, sì, la brevità delle canzoni ma anche no, allo slogan facilone e no, al nichilismo del no future.
Penso che certi album diventino i propri dischi preferiti ad un certo punto perché nasce un processo di immedesimazione. Non riuscivo ad immaginarmi con una spilla da balia infilata nella guancia, per dire. Il mio era punk da cameretta modesta, famiglia operaia con tenore di vita piccolo borghese. Provincia vera, in più. La Londra di Brixton era una roba che facevo fatica anche ad immaginare. Il mio punk era qualche amico che mi girava un disco dei Ramones pensando che si trattasse di heavy metal. La prima volta che ho ascoltato Pink Flag avevo 20 anni e il disco era uscito dieci anni prima. In quel lasso di tempo i Minor Threat avevano suonato 12XU in un disco che divenne seminale (la prima compilation targata Dischord) e tutti pensavano che fosse roba loro. Gli Wire non erano un gruppo punk ma insomma ci sono andati dannatamente vicino e Ian MacKaye e compagni hanno contribuito a tenere vivo l’equivoco.
Con loro il processo di identificazione era completo, fin dal look. Jeans e camicia. Nessun vezzo da rockstar, nessuna divisa d’ordinanza. Quattro splendide facce rubate ad un qualsiasi pub di periferia.
I miei dischi, i miei gruppi, mi rendo conto che sono sempre stati roba di confine, contorni poco definiti, a cavallo dei generi. In questo senso Pink Flag è un vero album di identità sfumata, difficilmente catalogabile, understatement come parola d’ordine.
Non so, mi lascia davvero perplesso ascoltare Pink Flag e farmelo piacere ancora. Dopo 30 anni dalla prima volta. Ho il dubbio che non sia una questione di qualità della musica, o della bellezza delle canzoni. Mi chiedo se sia normale farsi piacere la stessa musica che si amava a vent’anni. Non sono più quello che ero, penso. O forse ho il terrore di confessare, prima di tutto a me stesso, che invece trent’anni sono trascorsi invano e le stesse canzoni di sempre continuano inesorabili a girare sul piatto, come se si trattasse di una metafora di quello che ho vissuto: l’illusione di muoversi in avanti e ritrovarsi invece a girare costantemente in tondo.
Nel frattempo loro continuano a sfornare dischi. Uno all’anno di media da quando sono ricomparsi. Confesso che all’inizio ho affrontato il loro ritorno con cautela. Il timore di una delusione era maggiore della gioia della notizia. Certi gruppi in fondo vorresti non tornassero mai. Hai paura che finisca come quando hai avuto la malaugurata idea di rimetterti con la tua ex e gli occhi in cui ti perdevi senza fiato, di colpo ti risultano insignificanti.
Una canzone alla volta acquisti speranza invece. Trenta minuti dopo hai riconquistato fiducia nell’intero genere umano. E cominci da capo, un’altra dannatissima volta.
WIRE – Short Elevated Period
Silver / Lead è un album che non si distacca da quanto proposto nell’ultimo periodo. Naturalmente tutto si è fatto più etereo, non esistono urgenze da affrontare, come è naturale che sia. Ma intanto in un pezzo come questo dimostrano come scrivere una solida canzone rock. Il disagio magari non scorre più in superficie, il tempo ha modificato lo scorrere del ritmo, che è meno frenetico. Ma l’incertezza rimane, senza nessuna risposta su quanto ci riserverà il futuro, come al solito. Una gran canzone degli Wire, in definitiva. Una di quelle piccole certezze che fanno tanto coperta di Linus da trascinarsi da una stagione all’altra.
TASHAKI MIYAKI – Girls on T.V. – There Was A Light
Si va avanti a tentativi. Si tasta il terreno e un’occasione di una trentina di secondi di durata non si nega a nessuno. Finché non arriva il momento in cui si capisce che conviene fermarsi un attimo. Ne potrebbe valere la pena.
Intanto il video. Diretto da James Franco è per stessa ammissione dell’autore un omaggio ad un paio di pellicole che portiamo nel cuore: da Midnight Cowboy a Electric Horseman (un uomo da marciapiede e il cavaliere elettrico, in italiano).
La canzone, poi. Potrebbe stare nell’ultimo Jesus and Mary Chain e farci un figurone, tanto per avere un’idea.
Ok, lo devo ammettere: sono conquistato. Sono uomo di poche pretese, evidentemente. Non rimane che indagare ancora un po’. È questione di un paio di click, del resto. Oh, ferma tutto!! Una cover. Ecco la prova del nove. Ti aspetti i My Bloody Valentine e ti ritrovi tra le mani una canzone di Chris Bell Ci siamo, ci siamo, ti ripeti con quel cazzo di sorriso più simile ad una smorfia che ti riservi in certe occasioni. Sì, ci siamo. È tempo ancora una volta di lasciarsi conquistare. Non chiedevamo di meglio, dopotutto.
(SANDY) ALEX G – Bobby
Sono uno di quelli che reputa il nuovo album di Conor Oberst una piccola meraviglia, metto le mani avanti. Sì, ascolto anche Ryan Adams, ma non mi piace parlarne in pubblico, non saprei bene come giustificarmi. Tutto questo per dire che rientra nella normalità farmi piacere una canzone come questa, una ballata country ubriaca eppur fascinosa. Poi, un giorno, sarà il caso di parlarne nel dettaglio di Alex G. Inizia ad avere una storia interessante alle spalle, ricca di sfaccettature e sorprese. Per ora un nuovo album è alle porte e per quanto mi riguarda è uno dei dischi più attesi del momento.
BIG THIEF – Mythological Beauty
Questa è una canzone che al di là dell’apparenza lascia segni e cicatrici. Adrienne Lenker canta e suona una delle chitarre ma quello che più conta è che nelle sue canzoni non risparmia nulla e snocciola ogni dettaglio di una giovinezza vissuta ai limiti in compagnia di una famiglia poco probabile. Lo fa scendendo nei dettagli e non ci risparmia il racconto di episodi degni di una sceneggiatura drammatica. Immaginatevi i primi dischi di Cat Power, oppure i Bright Eyes. Gente che nelle canzoni riversa delle piccole sedute di autoterapia, nel tentativo di scacciare demoni e fantasmi. Occhio alle parole, insomma. Ma la canzone è un gioiello.
CESARE LORENZI