Definire un genere musicale con una singola parola è una forzatura che solitamente non rende giustizia alle inevitabili sfaccettature della musica stessa. È un problema della definizione in quanto tale, evidentemente. Ma alcune sono comunque brillanti. Shoegaze, per esempio, mi ha sempre fatto ridere ed ha un suo perché.
Un’altra a cui sono affezionato è Bedroom Pop. In questo caso mi solletica la presunzione romantica che sia possibile produrre musica, magari grande musica, nella propria camera da letto. In fondo si tratta della definitiva messa in pratica di un’ideologia indie che presuppone che la musica sia davvero a portata di chiunque voglia provarci e che l’unica cosa davvero necessaria sia il talento. Quindi sono particolarmente affezionato all’immagine di qualcuno che, rinchiuso nella propria stanza, possa mettere in discussione tutti i precetti dell’industria ufficiale, tutto il carrozzone di produttori, etichette discografiche, studi di registrazione e quant’altro sia necessario alla riuscita di quello che non si vuole trasformare in un prodotto.
Una fantasia naif, ne sono consapevole. Ma al netto della visione nostalgica qualcuno da far rientrare nella categoria si trova sempre. (Sandy) Alex G, per esempio, della nuova generazione è il mio preferito. Diciamo subito che adesso come adesso è un’esagerazione ma si sa come funzionano certe cose: ti appiccicano un’etichetta e poi son cazzi se devi far cambiare idea, potresti pure far uscire dal carcere Phil Spector per farti produrre il disco che non cambierebbe nulla, rimarresti comunque lo sfigato che registra sul pc a casa tua. Comunque sia l’idea di fondo rimane quella e mi piace mantenerla intatta, certe etichettature non arrivano mai per caso, del resto.
(Sandy) Alex G, si diceva. Uno capace di suonare di tutto, alla fine. Chitarra acustica e voce filtrata, spleen da fine estate, Elliott Smith che fa da presenza ingombrante, ma anche i Pavement che suonano country ubriaco e, ancora, la Ferrari bianca di Frank Ocean parcheggiata in giardino. Quello che fa da trait d’union in questi giorni non è più un linguaggio strettamente musicale ma più una questione di sentimenti che ti consentono le combinazioni più improbabili in territori sulla carta davvero distanti tra loro.
(SANDY) ALEX G – Proud
Ci sono dischi che si trasformano in una piccola ossessione. Quello di Alex G è diventato una presenza costante, come non mi capitava da un po’ con un album di chitarre e canzoni. Questo brano è indicativo del mood generale: scazzo slacker come se non ci fosse un domani e pochissima voglia di fare domande e men che meno dare risposte.
LUNA – One Together
I dischi di cover a me sono sempre piaciuti. Nonostante non servano sostanzialmente a nulla e siano in effetti completamente inutili. Però un album dei Luna manca da troppo tempo e quindi tocca accontentarsi. Del resto sono sufficienti poche note per sentirsi a casa un’altra volta. Sarà pure dei Fleetwood Mac questa canzone ma la voce di Dean Wareham mi riporta direttamente tra le strade del Village, nel solito territorio in bilico tra Velvet Underground e la psichedelia più leggera.
THE CHARLATANS – Plastic Machinery
Non hanno mai fatto un grande disco i Charlatans. Qualche grande canzone, piuttosto. Ma questo ritorno ha fatto ben sperare fin da subito. In particolare considerando quanto e come era cambiata la carriera di Tim Burgess negli ultimi anni. Le sue prove soliste o in compagnia di artisti comunque distanti anni luce dall’era brit-pop (Kurt Wagner e Peter Gordon, tra gli altri), il fatto di prendere Arthur Russell come fonte primaria d’ispirazione, hanno contribuito a mettere sotto una luce completamente differente il lavoro dell’ex ragazzo di Manchester. E difatti tutto ciò si è riversato nel nuovo album della band, che è semplicemente il miglior disco del gruppo in assoluto e una bella sorpresa.
TALL JUAN – Olden Goldies
Questa volta metto il link del disco intero. Tanto le canzone viaggiano tutte sui due minuti e ho dei dubbi che si arrivi alla mezz’ora totale. Del resto lo si può prendere come un tributo in bassa fedeltà ai Ramones. Da Buenos Aires via New York quello che qualcuno ha già definito l’Elvis latino ci regala un dischetto irresistibile, uno di quelli che vi fanno battere il tempo e alzare l’indice al cielo. Nato sotto la stella del più genuino garage-rock. Prodotto, per modo di dire, da Mac Demarco.
HELIUM – Superball
Fosse per me me ne starei tutto il giorno ad ascoltare i dischi della Numero Group. O qualche ristampa ben fatta, tipo questa. La Matador ha pensato bene che fosse il caso di tirare fuori dagli archivi i due fantastici album degli Helium di Mary Timony, aggiungendo un nuovo disco che raccoglie tutto il materiale della band pubblicato fino ad ora solo su singolo, rimasterizzando inoltre il tutto come si conviene.
Gli Helium sono passati come una meteora negli anni del dopo grunge ma, ascoltati adesso, sono tra i pochi che suonino in qualche modo non datati e ancora attuali. Mary Timony è una chitarrista fantastica quanto particolare, capace di non conformarsi mai agli stereotipi del genere. Insomma gli Helium erano una creatura aliena ai tempi, differenti nei modi e nei tempi. Dark, diversi e particolari, capaci di galleggiare a metà strada tra sperimentazione e canzone rock.
CESARE LORENZI