L’altra sera al Covo c’era Adam Green.
Non è una novità, prima dell’altra sera al Covo Adam Green c’è stato, vado a memoria, almeno altre tre volte. Ma sempre per suonare. Venerdì scorso invece era lì perché di passaggio a Bologna aveva voglia di far serata e così ha chiesto al suo amico Francesco Mandelli di accompagnarlo, parole sue, in uno dei suoi club preferiti. Quando Stefano lo ha fermato per salutarlo lui gli ha stretto la mano, ha mormorato qualche parola che non ho colto, poi ha fatto per andarsene ma dopo due passi ci ha ripensato, si è voltato e lo ha abbracciato. Niente di che, ma il gesto mi ha colpito.
Coincidenza vuole che da qualche giorno avessi in mente di riascoltare l’unico disco pubblicato dai Moldy Peaches con l’idea di scriverci sopra qualcosa. Poi mi sono ricordato che riguardo ai Moldy Peaches avevo già scritto qualcosa. Anzi, a dire il vero avevo già scritto tutto quello che avrei potuto scrivere.
Allora niente, ecco qui tutto quello che avrei potuto scrivere e che in effetti avevo già scritto sui Moldy Peaches, opportunamente riveduto e corretto. Una sorta di personalissimo Moldy Peaches Director’s Cut.
Non ricordo esattamente come arrivai ai Moldy Peaches e la cosa non penso sia rilevante. Di certo c’è che quei due ragazzi mi piacquero da subito parecchio. Mi pare che il loro nome lo lessi per la prima volta in un intervista agli Strokes. Erano i tempi immediatamente precedenti l’uscita di Is This it? e in quel momento, inizio duemilaeuno, ero piuttosto preso dagli Strokes.
Mi appuntai il nome dei Moldy Peaches su uno dei mille post it che ingialliscono la mia scrivania, anche se quell’aggettivo con cui vennero da subito etichettati mi inquietava un pochino. Anti folk.
Con il folk non è che io abbia mai avuto granché da spartire.
Fatto sta che quando il loro disco apparve in maniera abbastanza anonima nelle liste delle nuove uscite di Rough Trade lo ordinai al volo e tempo una settimana girava nel mio stereo.
Sono passati sedici anni, che sono molti ma che con tutto quello che è successo in mezzo – al mondo e a me – sembrano molti di più. Il downloading allora a casa mia non esisteva e le informazioni viaggiavano più lentamente di ora. Ma questa storia l’avete già sentita, credo.
Quando proposi la recensione a Rumore nessuno in redazione aveva ancora pensato a quel disco. Anzi, nessuno era al corrente neppure dell’esistenza dei Moldy Peaches.
Ecco quello che scrissi, e che tutto sommato oggi scriverei di nuovo, virgola più, virgola meno:
The Moldy Peaches: “The Moldy Peaches” (Rough Trade)
Non so se avete presente Gummo, piccolo capolavoro di cinema indipendente americano di qualche anno addietro, storie di ragazzini completamente estranei al mondo reale eppure completamente dentro al mondo in miniatura che li circonda.
Se si volesse pensare ad una raffigurazione discografica di quel disadattato microcosmo, l’immagine perfetta che ne uscirebbe sarebbe quella che Moldy Peaches ci trasmettono.
Clown in costume da coniglio che raccontano in rima baciata le uniche storie che due adolescenti di strada newyorkesi sono probabilmente in grado di immaginarsi oggi: pornografia (Downloading Porn With Davo) e droga (Who’s got the Crack), come ascoltare un quindicenne Johnatan Richman cantare sulle musiche dei Flaming Lips ad un angolo della Bowery dei nostri giorni.
Una sequenza di filastrocche fatte di nulla, citando i Velvet (Anyone Else but You) ed i Pussy Galore (What Went Wrong); un paio di accordi e via senza pensarci sopra.
Nessuna tecnica, niente calcoli, un flauto che sembra quello che la maestra delle scuole medie ci obbligava a suonare ed una irresistibile capacità di indovinare la melodia sin dal primo giro di danze (Lucky Number Nine).
L’elettrizzante e rara sensazione che ti coglie quando trovi qualcuno sintonizzato esattamente sulla tua stessa frequenza.
Difficile immaginare un seguito ad un disco del genere.
Da questa recensione si evincono facilmente alcune cose:
1) Il sottoscritto di cinema non ci capisce una sega (Gummo piccolo capolavoro?!);
2) La citazione dei Velvet a posteriori è diventata roba fina (vedi I’m Sticking with You infilata nella colonna sonora di Juno);
3) Quando sento puzza di rumore fare il nome dei Pussy Galore mi risulta inevitabile;
4) Essere sintonizzato sulla medesima frequenza d’onda di due suonati ragazzini newyorkesi la dice lunga sul mio grado di maturità, che peraltro da allora non ha fatto chiari progressi;
5) La facile preveggenza mi si addice. Quel disco in effetti non ha avuto un seguito, fatta eccezione per questo:
The Moldy Peaches: “Unreleased Cutz and Live Jamz 1994-2002” (Rough Trade)
I Moldy Peaches sono una di quelle band che non è possibile recensire con spirito prettamente critico.
Le loro canzoni sono l’equivalente sonoro di una scatola di cartone fradicia tenuta assieme da un rotolo di nastro da pacchi, un paio di elastici ed una manciata di punti metallici.
Canzoni tanto più ingiudicabili se infilate in due dischetti che riassumo quell’allegro disordine che sono stati i loro otto anni di attività: 55 tracce, la maggior parte delle quali suonate in una serie di concerti tenutisi tra il 99 ed il 2001 e registrati con un walkman in mezzo alla folla, o quasi.
Poi il singolo County Fair, una sessione radiofonica olandese ed altro materiale d’archivio, in mezzo cover di Grateful Dead e Spin Doctors.
Kimya Dawson ed Adam Green, che nel frattempo hanno pure messo assieme i rispettivi album solisti, dimostrano una volta ancora di essere oggi i più accreditati rappresentanti della bassa fedeltà come stile di vita, capaci di inventarsi veri e propri anti inni generazionali come Lucky # 9 e Who’s Got the Crack, unici nell’affermare in tempi non sospetti che NYC is Like a Graveyard.
Dai papà Beat Happening hanno imparato a suonare, dai nonni Shaggs e Frogs hanno ereditato ingenuo spirito dissacratorio ed una massiccia dose di ironia che li autorizza a mettere sul mercato un disco del genere, strettamente riservato ai fans.
Che probabilmente si contano sulle dita di due mani.
Ieri sera per completare la full immersion nei Moldy Peaches mi sono riguardato Juno. I film costruiti su misura per i giovani alternativi americani di solito mi urtano i nervi. Quei film con sulla locandina la referenza del Sundance e che sembrano fatti apposta per piacere ad un certo tipo di pubblico. Con tutte le citazioni giuste al momento giusto. Juno rientra a pieno titolo nella categoria ma alla fine il film mi piace sempre. Che poi come scritto sopra tanto io di cinema non ci capisco una sega.
Comunque c’è questa scena alla fine di Juno che da sola vale la visione del film. Il momento in cui lei, Juno MacGuff, prende la sua bicicletta e con la chitarra a tracolla arriva davanti a casa di lui, Paulie Bleeker, il vero inconsapevole protagonista del film.
Anche lui imbraccia una chitarra acustica, i due si siedono uno accanto all’altro e attaccano a cantare una canzone dei Moldy Peaches.
…You’re a part time lover and a full time friend
The monkey on your back is the latest trend
I don’t see what anyone can see in anyone else
but youI’ll kiss you on the brain in the shadow of the train
I’ll kiss you all starry eyed my body swingin’ from side to side
I don’t see what anyone can see in anyone else…
E alle fine si baciano.
Che dopo tutto quello che è successo prima e nel contesto di quel preciso momento è una canzone assolutamente perfetta.
Roba che il film avrebbe senso anche solo per quella scena.
E per quella canzone.
Arturo Compagnoni