Vado alla Coop della piazzetta a due passi da dove vivo un paio di volte alla settimana. Fuori c’é sempre un ragazzo africano, un rifugiato credo, cappello in mano a chiedere l’elemosina.
La sera invece c’è Luca, italiano, appoggiato col suo cane nero al gradone del palazzo di fianco.
Luca che una sera, più storta di altre, parlava da solo e si lamentava cantilenando un “perché ci sono sere che ce la fai e sere che ti ubriachi”. Io tornavo dal pub storto, una di quelle sere che non ce la fai, e andavo a prendermi una pizza e delle latte da portare a casa. Ho sentito quella frase. Qualcosa è caduto in fondo allo stomaco. Ho preso un paio di birre in più. Gliene ho lasciata una. Mi ha guardato, l’ha stappata e ha sbrodolato il “grazie” più sincero che abbia mai sentito.
A volte, capire qualcuno è soltanto sentire come lui anche se vivete a fianco ma in due mondi lontanissimi che raramente si sfiorano.
Si toccano in quello che rimane. Nel resto delle differenze.
Il ragazzo col berretto in mano sorride sempre quando gli mollo le monetine che la cassiera lascia sul banco mentre esco di fretta.
«Quanto ti devo?»
«Diciotto e ottanta.»
Un po’ di ferro in mano che subito fuori scivola nel cappellino consumato. Tasche libere. In realtà minuti di lavoro regalati. Quello che resta. Il rimanente. Il resto.
La sottrazione fra ciò che vorremmo e ciò che è.
Avrei potuto spendere il mio tempo con te e invece sono andato a ubriacarmi. Avrei potuto decidere di godere dei tuoi occhi che sorridono così dolci, e invece sono entrato al solito pub, quello dove puoi stare al banco da solo e nessuno ti guarda o ti rompe i coglioni. Qualcuno passa, saluta, batte una pinta sulla tua, scambia un sorriso, ma puoi respirare leggero, senza dover notare nessuno, senza che nessuno ti noti.
Dove chi ti spina le birre sorride e poi viene a parlarti solo se va a lui e va a te e quando serve ha sempre un pezzo di carta e una penna e te li da e non ti chiede per farci cosa.
Non ho smesso di ordinare da bere finché ho capito che le gambe avevano ancora solo un giro per riuscire a portarmi a casa.
Avrei potuto spendere meglio il mio tempo, il tempo che mi ossessiona, ma l’ho spesso sprecato, gettato.
Forse perché quando temi qualcosa il miglior modo per allontanarlo è non occuparsene.
Ho sempre fatto che non importasse come spendevo il mio tempo.
Tanto, alla fine, anche il tempo è sempre tempo rimasto. Il resto. Quello tra il lavoro e il film al cinema. Tra la lezione di pilates e l’aperitivo con le amiche. Tra la fine del turno e la pizza con lei che forse poi passerà qualche ora a scaldarti l’anima, poco prima che la sveglia ti ributti nella giornata di lavoro che ti porterà i soldi per pagare il conto, con tanto di resto, quando esci la sera.
Il resto della giornata quando ti svegli ed è già buio e non ti ricordi dove sei stato fino a poco prima che facesse giorno.
Il resto della notte davanti quando ancora non hai deciso se tornare a casa o sederti a un altro bancone.
Il resto di un pomeriggio di vacanza sul divano con quei pensieri che non ti mollano e forse per questo nei pomeriggi di vacanza ci hanno messo il calcio, la moto gp, la formula uno. Per tenere abbastanza giù in fondo allo stomaco quei pensieri che non mollano. Anche davanti alle luci sopra la testa nelle strade infestate da vetrine straripanti. Non mollano.
Un amico una volta mi ha detto: “la vita, se la guardi da fuori, fa proprio schifo. Ti salva lo starci in mezzo.” Empatizzare. Sapere che non sei solo perché gli altri sono sulla tua stessa barca, ovunque stia andando. Sì, il mio amico aveva ragione: ci si salva solo standoci in mezzo, annusando la vita e le strade pieni di “altri” che, a un certo punto, diventa “noi”.
Sto qui. Con il resto di noi. Con la somma dei resti che siamo tutti. Tutti convinti di essere unici e fondamentali. E che gli altri non lo siano. Non così tanto, almeno.
Gli altri sono il resto. Io sto qui. Nel resto. Tra i resti.
Perché non riesco a stare da un’altra parte. Perché, a dirvela tutta, un’altra parte non esiste: siamo sempre il resto di qualcos’altro, di un gruppo di cui non facciamo parte, di un club in cui non ci fanno entrare, di un concorso per assumere cento persone e tu arrivi centoeunesimo e preghi che quello prima di te in classifica vinca la lotteria o che un BredaMenarini gli passi sopra.
Qualcuno è sempre il resto di qualcosa. Di altro. Di altri.
Tu sei il resto di qualcuno che non conosci, che nemmeno sa che esisti ma decide se puoi vivere o no e come.
Ma oggi è Natale, siamo tutti più buoni. Oggi, forse, si pensa ai resti. La ragazza bionda e ricca andrà a servire pasti ai barboni perché è bello, perché è Natale. Perché così ci si sente meglio, poi, a tornare nelle case asciutte e riscaldate mentre quei resti umani barcollano verso un sacco a pelo umido sotto al portico.
Oggi è Natale e domani conteremo i resti: quanto cibo abbiamo buttato via, quanti imballi di regali riempiono i marciapiedi. Quanti oggetti abbiamo infilato sotto un albero che dovrebbe stare in un campo, ma non c’è più nemmeno spazio per quel campo. Ormai l’albero, il prato, la terra sono il resto. Il resto del cemento, dei mattoni, dei muri, di quello che costruiamo. Sempre di più, sempre più di corsa. Sempre più su, sempre più in là.
Crescere, crescere, crescere. Pil, tasso d’interesse, una nuova carta di credito per finanziare coi tuoi sogni meschini di un pullover di cachemire color merda una stronza guerra in centro Africa, pagata col resto dell’interesse della tua fiammante, tassatissima, Amex. Pagata a rate. Pagata col resto.
Resti umani, ritagli di tempo, rimasugli di vita vissuta.
Produci. Consuma. Crepa. Diceva qualcuno, qualche tempo fa.
Una volta era uno slogan da urlare contro la massificazione. Oggi, una scritta su una maglietta che metterà la prossima influencer di Instagram e avrà centoquarantamila like.
Com’è profonda lei, che è anche così figa.
Il resto. Il resto della spesa, il tempo che rimane. I resti della storia che abbiamo vissuto.
Siamo resti.
Lo scarto della mia arte è lo scarto di me, mi ha raccontato una volta un pittore alle cui parole devo la nascita del mio primo romanzo.
L’artista è colui che attraverso lo scarto della propria malattia, arriva finalmente a scoprirsi solamente un uomo. A poter camminare a piedi nudi in un bosco ascoltando il rumore del vento e il calore del sole sulla pelle.
Il resto di me è la mia malattia. Quella che vi regalo ogni volta che leggete un mio pezzo. Appunto, un pezzo. Un pezzo di me, uno scarto. Il mio resto.
Oggi sono passato da Franco, un vecchio amico che ama più la bottiglia di un sacco di persone ma che non per questo con le persone ha smesso di essere dolce. Stamattina qui, tra i monti, faceva freddo e bevevo quel bicchiere di vino scadente sorridendo a sconosciuti con la faccia scavata dalle rughe, uomini rimasti soli che a Natale si uniscono in una locanda. Siamo tutti resti. I resti di noi stessi, dei nostri sogni, dei nostri fallimenti, delle nostre bugie, di quello che non siamo stati capaci di dire e di fare. Siamo i resti di una vita che comunque sia, non possiamo smettere di credere che sarebbe potuta andare diversamente. Forse, addirittura meglio.
Ma, invece, la vita è solo questa qui e va come deve andare. Siamo noi, stupidi resti di chissà che altro, a non farci una ragione di quello che c’è. Chi c’è c’è e chi non c’è non c’è. Chi è stato è stato e chi è stato non è diceva sempre lo stesso qualcuno qualche tempo fa. Sempre in un mondo non lontano, ma che non esiste più.
Stupidi noi, ancora persi ognuno a inseguire il suo momento, il treno che passa una volta e mai più e tante altre scemate.
Un parroco di paese che ho conosciuto e amato molto ripeteva “femene e treni, ghen pasa sempre”. Non credo serva la traduzione anche per voi che avete la sfortuna di non essere veneti.
Forse un giorno anche gli altri capiranno di essere “gli altri”, niente più che resti, che un resto, una rimanenza o uno scarto. E allora decideranno che, da soli o insieme, i resti sono l’altra parte, quella che è necessaria. Che è indispensabile. Che basta girare il sotto in sopra e i resti diventano la torta da cui togliere la rimanenza. Che basta guardare da una direzione diversa per perdere tutte queste scemate di certezze. Di sicurezze. Di paure. Di ansie. Di inutili disperazioni.
E allora verranno lì, al bancone dove mi troverete stasera, a scambiare una stretta di mano sincera tra una pinta e l’altra per dirci che lo sappiamo: siamo i resti, la rimanenza, lo scarto. Ma, poiché lo sappiamo, noi possiamo starcene qui al bancone ad alzare la pinta ridendo, mentre lì fuori c’è qualcuno che guarda la televisione. Si sente solo anche se è circondato da persone care e infelice perché, incrociando il riflesso della sua faccia stanca in una palla di natale traslucida, avrà visto il suo maglione color merda e il suo viso paonazzo di cibo e solitudine, riflesso da quella palla che non vede l’ora di ributtare in cantina, e quel riflesso gli ha detto che c’è qualcosa che non va. Qualcosa che però non capisce. Come se si sentisse, non so come dire, qualcosa che non è al suo posto, qualcosa che in realtà è come se esistesse solo per far esistere qualcos’altro. Un, come si può dire? Un resto? Uno scarto? E il panettone farcito si mette a girare nello stomaco e vorrebbe uscire da dove è entrato.
Noi ti aspettiamo al pub. Ognuno per i cazzi suoi, che i resti si stanno vicini ma non troppo e non troppo a lungo, ma siam tutti qua. Pronti a brindare con chi passa. Con chi sta bene e chi no e chi se ne frega di come sta. Con chi trema pensando a cosa può perdere e chi sorride immaginando di cosa si libererà. Con ognuno di voi insomma, che siete noi. Che è una roba sola. Di resti, rimanenze, scarti e blablabla.
Cheers mate. E buon Natale.
Fabio Rodda