David Devant & His Spirit Wife – Work, Lovelife, Miscellaneous (Kindness, 1997)
Per un motivo ben preciso – che non è interessante e non starò qui a rivelare (se proprio volete allora scrivetemi in privato) – sto setacciando i cassettoni dei 45 giri dopo settimane di rimuginamenti infiniti. Ho una missione da compiere, la stessa che puntualmente va ad infrangersi dopo soli cinque minuti, quando riscopro manufatti dimenticati, perdendo così di vista il mio fine ultimo: l’ordine. Un tuffo in anni glabri, negozi polverosi, sorrisi tirati e bande neglette. Anche serate da arresto coatto in sovrappiù certo, che l’inseguimento dei bobbies dalle parti di Finchley Road alle 4 del mattino di ritorno da un concerto dei Servants (i Servants pre-nanosecondo di successo) sono tra le cose più indelebili di sempre. Ero innocente Vostro Onore, e la storia mi darà ragione. Buoni propositi che appunto si infrangono alla prima sorpresa. Manco io so più cosa ci sia esattamente dentro quei cassetti, ma oggi l’entusiasmo ha toccato vette altissime scovando incidentalmente alcuni 45 giri del gruppo più grande del mondo. E dunque per sua natura dimenticato e destinato all’insuccesso. Benvenuti nel magico e chiazzato mondo di David Devant & His Spirit Wife. Un Circo Barnum di stranezze, eccentricità vittoriane e magie. Soprattutto magie. Del resto prendevano il nome da un illusionista britannico del secolo scorso, aduso a chiamare sul palco lo spirito della moglie defunta. Avrete già capito dove si va a parare, vero? Dalle parti in cui sguazzo come un facocero in calore. Non mi dilungherò, perché credo necessitino molte più battute per illustrare al meglio la follia di questi quattro ‘idiot savant’, ma il tempo è tiranno, quei cassetti ancor di più e dalla nuvola di polvere sprigionatasi si intravedono delizie.
Banda di matti, i David Devant & His Spirit Wife. Banda formata da The Vessel (Mickey Georgeson) in combutta con Foz Foster (un ex Monochrome Set) ai quali vanno ad aggiungersi altri due loschi personaggi. Teatralità a go-go, eccentricità e humour britannico, i baffetti del Ferry ma anche quelli di Ron Mael, i lustrini di Ziggy e lo zigzagare dei Deaf School, le stravaganze, la teatralità, i mantelli magici, gli atteggiamenti alla Elvis sotto anfetamina, le movenze da Jobriath etero e corvino. TV, T-Rex e tricologia a mille. Georgeson ha l’aplomb di un Nick Cave nel corpo di David Essex, o di un Tom Waits ai tempi del glam rock, gli altri truci guasconi fan sembrare i Sigue Sigue Sputnik dei carnascialeschi mocciosi. Insomma: un delirio. Al quale in sovrappiù si unisce un ombroso personaggio addetto alle proiezioni (chiamato, ovviamente, The Lantern) e gli Spectral Roadies, due figli di buona donna – Iceman e Cocky Young’un – a far gli imbonitori sul palco con giochi di prestigio, sghignazzi e illusionismo spiccio. Puro ottocento e vaudeville, mancano solo le lozioni miracolose per capelli (ma il nostro ne è alquanto fornito, tanto da sembrare un emaciato poster di Eraserhead), Arthur Conan Doyle e la donna barbuta. “Venghino, Siore e Siori”. Sul palco ne combinano di ogni: The Vessel spesso entra adagiato sopra un tappeto volante, i video sono liquidi e pare di essere a metà tra l’UFO Club, lo Shoom e l’Exploding Plastic Inevitable Show, l’atmosfera è vittoriana piuttosto ed anzichenò. Moriarty e A Lad Insane, pozioni magiche e assenzio. Il pubblico va fuori di testa e i nostri osano sempre più: a Brighton durante uno spettacolo il capelluto si fa sparare in galleria da un cannone e a momenti ci lascia le penne. Mark Radcliffe di Radio One si dice entusiasta, al Phoenix Festival del 1996 rubano la scena agli osannatissimi Marion. Ci sono tutti gli anni settanta schiacciati a forza dentro il brit pop, i Cockney Rebels impastati sui primevi Manic Street Preachers, i Blur prodotti da Charles Dickens, i Pulp a scuola dagli Wizzard, Kim Fowley che impartisce lezioni di galateo ai Menswear. A tutto ciò aggiungete Pimlico, il più bel debutto su 45 giri di sempre (no, non è vero: non rientra nemmeno nei primi tre. Ma vi sono legato per 999 motivi) e un album d’esordio (Work, Lovelife, Miscellaneous, uscito dopo Don Spirit Specs Now!, autoproduzione su cassetta) che, nonostante i proclami della stampa, lo sberleffo situazionista fuori tempo e un discreto battage pubblicitario, diviene il flop commerciale dell’anno (solo n.70 nelle classifiche) affondandoli da allora e per sempre. Non vi ho nemmeno lontanamente incuriosito? Poco male, che la storia si compia.
Work, Lovelife, Miscellaneous esce nel 1997, l’onda lunga del brit pop si è già infranta verso Brighton o giù di lì, ovvero esattamente da dove provengono questi femminei Art Brut ante litteram; Keane e Muse hanno portato l’imbarbarimento; le strade sono vuote; le tutine Adidas andrebbero smacchiate ma nessuno ha più la voglia e la forza per farlo, presi da un hangover ventricolare. Il riflusso ha una felicità forzata impressa con inerzia. L’album esce in gloriosa edizione gatefold supportato da un poker di eterogenei singoli e – oggi – trovate il tutto al prezzo di un pacchetto di Camel morbide. Dentro vi è il più folle e contagioso coacervo di suoni pop britannici mai sentiti, odorerete le strade della capitale percorse da carrozze, vi sembrerà di scorgere Uriah Heep (non la band) che si tinge la chioma e si bistra gli occhi con un vezzo, o di sentire i balli di corte e Sir Francis Bacon. In Work, Lovelife, Miscellaneous vi è il miglior art rock sibillino di sempre e – soprattutto – non vi è un grammo di Oasis o assimilati. C’è però lo Spencer Davis Group che si fa Bowie nell’iniziale Ginger (estratta anche su singolo) stupefacente idioma glam retromaniaco, e con essa altre 11 stralunate canzoni dove Lie Detector (altro estratto a 45 giri) pare la più astrusa con la sua elettronichetta da video games senza capo né coda, buona per dei Denim vestiti bene. The Last Ever Love Song suona cinematografica e assolutamente in tinta per la festa studentesca di Hogwarts tanto che persino Jarvis Cocker avrebbe gradito. I Think About You pare provenire da un punto imprecisato di Modern Life Is Rubbish, se solo Modern Life Is Rubbish fosse uscito nel 1974; Parallel Universe riesce nella titanica impresa di unire Little Tony e Suede; Re-Invent The Wheel ha le stesse chitarre di Mick Ronson tanto che non si fatica ad immaginarlo roteare il braccio con la zazzera bionda e una sigaretta penzolante, e pare altresì strano che Bowie non se ne sia accorto all’epoca, saltando dalla poltrona. Ballroom è null’altro che un flamenco di Marc Almond a 78 giri; This Is For Real (ulteriore singolo) è il pezzo forte e l’unica vera pepita brit pop comunemente intesa di un album privo di vere coordinate, un sugoso anthem che avrebbe meritato ben altra fortuna con quella veemenza da Elastica con due coglioni così. O da Mansun che tratteggiano girini Franz Ferdinand/Boo Radleys. E ancora I’m Not Even Going To Try che ritorna ai fasti dei Denim e dei Chicory Tip, una Girls & Boys autistica. Riprendo fiato e colorito per dirvi che le cose si placano un po’ con Light On The Surface, ballata alla Donovan. Il tutto finisce ovviamente sulle note di Goodnight, un ologramma temporale nel quale non è difficile visualizzare Graham Coxon dentro il tour di Hunky Dory. Pare brit pop ma non lo è, così privo di quell’aurea hip e anzi indugiante in moti rivoluzionari d’inizio settanta. Work, Lovelife, Miscellaneous è il più bel disco di glam rock dimenticato e fuori tempo massimo, un disco che sembra copiare alcune corrazzate del tempo (Suede, Blur, Pulp) ma con il sospetto che la canzonatura sia sempre dietro l’angolo. A remare contro vieni risucchiato dalla corrente, succede così che Georgeson e compagnia vadano ad immolarsi per peccati mai commessi, sparendo subito dai radar della discografia britannica.
Ci sarà tempo per altri due dischi (bello Shiney On The Inside, del 2000) e una raccolta, ma nulla sarà come prima. Eddie Argos degli Art Brut lo prenderà a modello per il suo art rock sghembo e stratificato (anche quello destinato a FALL-ire), ma l’Houdini del post brit pop sparirà sotto una coltre di indifferenza. Infantili, ironici, menefreghisti, finanche troppo genialmente stupidi per competere con i salmi responsoriali dei coevi Coldplay, David Devant & His Spirit Wife sono stati la quintessenza dell’art rock britannico, quello perdente e senza alcuna speranza per sua stessa natura. Sorta di stralunati Roxy Music sorpresi a chiedere l’elemosina agli angoli delle strade. Oggi Georgeson è docente all’Università di East London, ha ripreso il suo nom de plume e riporta in giro lo Spirit Wife in sporadiche e sommesse apparizioni sui palchi. Parafrasando il solito Wilde ha messo nella sua vita il genio, nelle sue opere solo il talento. Ce lo siamo fatti bastare.
Michele Benetello