Reload A Collection Of Short Stories (Infonet, 1993)

L’estate del 1994 aveva già il profumo del nuovo millennio; lo vedevi nitidamente avanzare con un berrettino, dei braccialetti tintinnanti, capelli lunghi, le espadrillas ai piedi e un Roland di seconda mano sotto il braccio. Sembrava che il cosmo e gli spartiti avessero trovato la convergenza perfetta, nascosta tra le pieghe e le bisettrici di costellazioni ancora sconosciute. Screamadelica aveva piantato la bandierina sulla luna, ma noi eravamo già in cerca di altri pianeti, possibilmente senza forme di vita. Planet Dog, per essere precisi. E il suo braccio armato, quel buco in Berwick Street chiamato Ambient Soho. Una gioielleria più che un negozio di dischi, visto i prezzi dei manufatti, ma se volevi avere la panoramica di ciò che stava ESATTAMENTE accadendo in quel sottobosco psichedelico e sintetico allora dovevi recarti dentro quella porticina angusta. Macchè Sister Ray, lì ci potevi trovare qualcosa, certo… Ma per la vera realtà dei fatti era Ambient Soho il Nirvana. Weatherall-ate come se piovesse e poi tutta una serie di promo e white a cadenze giornaliere, comprese quelle superbe raccolte che costavano quanto un soggiorno in un 5 stelle ma ti davano vibrazioni migliori. Così passavamo i pomeriggi soleggiati dentro quel minuscolo ingresso, in attesa del Rave migliore, a ravanare 12” totalmente sconosciuti ma dai nomi bellissimi. Un Nirvana che non avvenne mai, ovvio. ‘Che quel Jesus Loves Bass sopra un autobus non ci ispirava gran fiducia e manco le serate in questo o quel buco avevano il mood giusto. Mica eravamo allo Shoom, per dire. Costretti ad armarci di francoboli e nottate insonni – una volta rientrati in patria – per scrivere a questo o quell’agglomerato anarcoide, foriero del DIY più caparbio, in attesa di rivelazioni. Tipo gli Spiral Tribe, i Crass della techno. Continuavamo ad avere il mito del Club Dog (senza la ‘o’ finale, quella è un’altra cosa) ma oltre una maglietta – che conservo ancora – non riuscimmo ad approcciarci. Feed Your Head dicevano, in una strana – erm… – mistura che curvava i Pink Floyd dentro i synth. Ok gli Orb e l’Ultraworld ma volevamo di più. Molto di più. Non ci bastava mai. Così, con le nostre belle felpe XXL da provinciali e i capelli lunghi ci aggiravamo per Berwick Street in cerca di flyers e 12″ pronti a ricrearci le festicciole casalinghe una volta rientrati alla magione. Quattro gatti, che credete. Quattro gatti spelacchiati e pure sottopeso (allora, oggi beh…) ma pieni di entusiasmo per quel ponte che riusciva ad unire gli Hawkwind alla Magic Mushroom Band passando per strani battiti polinesiani, i Material e i Porcupine Tree. Sembrava che la parte del mondo più consona a noi si stesse convertendo in massa. Gli Psychic Warriors Ov Gaia, Children Of The Bong, Eat Static, le discoteche a Colonia con le camere chill out di decompressione, i solstizi all’ombra del campanile, il dub sintetico, le cassette raga nelle quali mixavamo di tutto per darci un tono. Om Mani Padme Hum. Persino i Killing Joke, che sembravano darci ragione con quel monolite lungo 11 minuti in guisa di remix chiamato Requiem (A Floating Leaf Always Reaches The Sea Dub Mix). Hosianna Mantra, ma tanto mantra; ‘na bomba sotto il culo praticamente. L’elogio della lentezza.

Eppure era uno e uno solo il disco che ci stava mettendo d’accordo tutti, anzi due: Skylab #1 degli Skylab e – soprattutto – 76:14 dei Global Communication. Quello strano duo formato da Tom Middleton e Mark Pritchard, due teste d’uovo pronte a prestare le macchine a infinite permutazioni digitali, fossero esse chiamate Jedi Knights o – e qui viene il bello – Reload. Anzi due e quindi tre, ‘che A Collection Of Short Stories (a nome, appunto, Reload) uscito qualche mese prima su Infonet ci aveva davvero mandati tutti via di testa con quel suo passeggiare tra detriti e spiagge deserte di suoni, dando la stura al nostro attaccamento alla matrice ma anche a tutta una serie di vibrazioni e fonemi che avrebbero cambiato per sempre la percezione armonica del ‘nostro’ pop. Un disco catalogato sotto la voce ambient ma che ha molto di più al suo interno, stramaledettamente di più (e non solo per lo splendido libretto che lo accompagna) nei suoi 13 brani titolati come strane composizioni chimiche, prodotti farmaceutici da banco, antiche divinità ammurabiche o signori della guerra nello sperduto regno di Mu. Un disco che sembra partire nel peggiore dei modi con la trance satura da tulipani acidi di Teq. È però con Peschi che comincia la sag(r)a intergalattica: un battito sospeso nel cosmo che si dipana come una spirale di dna tra flutti di suono medievale. Progressive come degli Yes sedicenni fritti di GBH pronti ad abbracciarsi una 808, ebbri d’amore. Scale di Escher che frenano e si attorcigliano sul culo di Aphex Twin in Ahn, immaginaria colonna sonora sperduta nei boschi della Cornovaglia. E così spero di voi. E poi Rota Link, un podcast come solo HAL9000 avrebbe potuto stivare nel suo iPod. O ancora 1624 Try 621, notturno come una battuta di caccia nel bosco di Blair Witch Project. Suoni aguzzi di immaginari animali, cantici di stelle morenti, segnali digitali da qualche galassia lontana, forgiata di niente. E io, povero stronzo, sono qui a cercare di spiegarlo quando l’unica cosa da fare sarebbe approcciarlo senza pregiudizi, magari tramite quel canto gregoriano da club fumoso chiamato Ev-i-loy, quattro minuti e mezzo che da sempre immagino in mano a Mad Professor. Tralasciate le scudisciate alla gabber di Mosh e concentratevi sulla parte finale di questo monolite suddiviso in due 12”. Magari scivolando sopra quella plasticata Ehn che si mangia tutti i cofanetti di Buddha Bar dei quali ci vergogniamo ancor oggi. All’arrivo di Le Soleil Et la Mer non si puote che ringrazia Iddio o chi per lui per la vastità degli oceani. Un cantico delle creature e dell’Ecstasy. Si adagia supina su The Enlightenment e a questo proposito chiederei quei trecento e passa secondi di silenzio affinchè possa sciogliersi all’interno della vostra spina dorsale, irrorandovi il midollo di serenità. The Enlightenment è il suono del liquido amniotico che vi culla, la camera iperbarica atta a curarvi, il satellite che vi orbita attorno, lì dove il cielo al nulla s’accompagna, in un immenso mistero rivestito di rarefatta gravità. Chiude Event Horizon, desiderosa di rovinare tutto lo Stakker Humanoid che c’è in voi. Mi ci vollero mesi per staccarmi da questa Treccani evoluta, enciclopedica vastità di segnali e effetti acustici che ancor oggi porto appresso, in un Pavloviano riflesso condizionato. Datemi un soffice cuscino ambient e io fluttuo in un mare di tranquillità.

Che anni e che vibrazioni armoniche furono quei primi tentativi di 90es, troppo belli per durare, difatti non lo fecero, ma ebbero (e hanno ancora) il grande merito di averci lasciato addosso un’apertura a ‘quel mondo’ che difficilmente ci toglieremo di dosso. Furono 24 mesi universalmente buoni, il nostro 1967 declinato sul suono futuro di Londra e dell’Europa tutta, anche dopo la pioggia. Trance rock e medioevo, ritorno alla natura, smart drugs, amore cosmico, vitamine, vinili colorati e circuiti optical. Mancava Verdone, accidenti, ma avevamo un amico che poteva agevolmente sostituirlo. A Goa ci vanno i ricchi, a Ibiza i poseur che vogliono una botta di vita lunga mezzo week end, dicevamo. Prova a farlo tu, questo, in aperta campagna. Cyberdog però no eh, quelle cose le avevamo già viste un lustro prima al Movida. Un posto dove una sera non ci fecero entrare (lasciando però passare un tossico vestito da centurione romano prima di noi) perchè agghindati come ciclisti acidi. Il vero DIY te lo fai in casa, o dentro qualche buco maleodorante. Niente sesso, siamo ravers. Fanculo l’eurodisco e Tecnique, questo è punk con i piedi sporchi. I Am A Techno Anarchist, pusillanime. Ci aveva stancato subito anche Aphex Twin e il suo tetris aguzzo da Emerson, Lake & Palmer. Renzo Palmer. Parlavamo così, a scatti. Volevamo i Nitzer Ebb a 16 giri e i White Zombie remixati da Trash; i Banco de Gaia che parlavano di Tibet e gli Astralasia che almeno avevano un gran nome. O ancora Higher Intelligence Agency e Young American Primitive, per rilassarci dopo le grandi manovre. Sii ragionevole pretendi l’impossibile. Tipo mezzo accordo sospeso su un arpeggio per otto minuti. Volevamo tutto e finimmo per avere nulla. Poi ci stancammo perchè a furia di voler assomigliare ai Pink Floyd molti i quei beniamini finirono davvero col sembrarlo. E noi tornammo i soliti stronzi di sempre. Ma che disco rimane A Collection Of Short Stories, ostia. Talmente bello che vien voglia di andare a ritroso fino a quei Global Communication che – ora posso ammetterlo – diedero alle stampe il lavoro definitivo di quell’anno e di quel genere.

Michele Benetello


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