TempleroyDeaf And Dumb (Different Drummer, 1995)

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Mai avuto granchè il polso della situazione, io. Fosse stato per i vari trend pronti a susseguirsi, le squadre di calcio, gli arrampicanti Iago in ufficio, le donne o i dischi. È per questo che sono poderosamente fuori moda per vocazione e vanto un palmarès affettivo prossimo allo zero. Sui dischi va meglio, grazie. Soprattutto perché – a differenza delle donne – quei piccoli solchi in vinile possono piacere solo a voi senza alcun problema. State certi che ne sarete ricambiati. Credo di avere mezza parete di figlioli pronti a tornare prodighi con oro incenso e pecette sbiadite che mai scadono in recriminazioni. I Templeroy ad esempio, che ho in testa e nel cuore da quel lontano 1995 e che mai ho abbandonato. È la prima volta che faccio selvaggio outing con cotanto capolavoro di palpitazioni; finora – con il mio consueto egoismo – l’avevo sempre celato al mondo, sperando di trovare prima o poi un altro essere umano che me ne cantasse le gesta. Mai visto in giro nulla dei Templeroy, e vi assicuro che fiere, mercatini e bancarelle ammuffite sono il mio pane quasi quotidiano. Niente. Nessuna traccia di questo terzetto di Windsor. Non che all’epoca avesse fatto sfracelli, anzi. Sepolto da mille uscite simili ma non uguali e da una sbornia ambient dub già abbondantemente superata da Pulp, Blur e Oasis.

Ci sono i Massive Attack ad imporre le loro mani in Deaf And Dumb, tanto si avverte l’influenza morale di Protection, quantomeno nell’approcciarsi al formato sonoro, ma – soprattutto – vi sono echi di Emotional Hooligan, altro immenso capolavoro (che, va da sé, non ebbe alcun grosso riscontro fuori dai patri confini) siglato Gary Clail. Inutile negarlo e quindi sgombriamo subito il campo da sorrisi di sufficienza e snobismo di seconda mano. Stesso meticciato corroso da febbri elettroniche, stessa tensione da after alle 5 del mattino fuori da qualche club di Brixton, stessa immersione nel dub senza farne fumettistica versione o calcare la mano. Stessa anima e stesso sentimento. Ma qui si va più sotto, a rota con un canovaccio prettamente digitale sorretto da picchi di lovers rock imbevuti di ambient e oscura elettronica che percuote il costato. Non ricordo come arrivò nella mia umile magione quel doppio cd, forse tramite la (sempre benedetta) Wide, forse – più probabile – direttamente dalla Different Drummer che mi aveva già entusiasmato con Airgoose e Rockers Hi-Fi. Sì, probabile dacchè conservo ancora da qualche parte degli adesivi grandi come fazzoletti proprio di quel Rockers To Rockers dei Rockers Hi-Fi (bellissimo, che ve lo dico a fare?) che mi diede qualche sollievo durante la calda estate brit pop.

Ci sono dischi che è bene lasciar evaporare da soli, senza provare ad afferrarli. Dischi che per loro natura non sono forgiati per il passaparola o retrovie di classifiche, che hanno la peculiarità di uscire nel momento sbagliato al posto giusto e che scompaiono lasciando fioca luce. That Never Goes Out, però. I Templeroy, che banda stupefacente. Un solo disco all’attivo e poi ciao. E se pensate di aver sentito tutto nel campo di quell’eletronica rigorosa e meticcia avrete anche ragione (e ve la cedo tutta), ma un giretto da queste parti – magari proprio in questo periodo dell’anno – ve lo dovreste fare, tanto più che la rete conserva ancora qualche copia ad un prezzo semi onesto. E chi volete che se la annetta, ormai? Richard Tindall si è eclissato nel 1997, Richard Van Spall (già Airstream e Mexico 70) l’ho perso di vista ai tempi dei Cheapglue (su One Little Indian, circa 15 anni orsono) e Mick Bund – povero figliolo – ha lasciato questo doloroso suolo nel luglio dello scorso anno, senza uno straccio di necrologio. Farei ammenda ora, ma sarei patetico. Preferisco che sia la sua creatura Templeroy a trovare – spero – nuovi e appassionati adepti. Ogni tanto un pensiero al Bund me lo strappo da solo, penso al suo girovagare in guisa di musico per gran parte del pop inglese degli anni novanta. Uno che in palmarès poteva vantare una comparsata pure nei Felt. A proposito: da cosa credete derivi il nome del gruppo se non da quella vaporosa traccia della premiata coppia Lawrence/Deebank contenuta in Crumbling The Antiseptic Beauty? Non è altresì reato pensare che se i Felt fossero nati quei due lustri (famo tre, via) dopo non sarebbero caduti distanti da questi synth. Che sfiga il Bund, sempre al posto sbagliato: entra nei Felt in guisa di bassista su The Pictorial Jackson Review ma la magia e  – soprattutto – le attenzioni sono scemate. Ci resta due anni prima di transumare su One Little Indian con il nuovo progetto Airstream. Arriva Bjork e si mangia tutto. Ci prova allora con i Mexico 70, pronti ad accasarsi su Cherry Red per una sugosa discografia (i due Ep Valencia e Wonderful Life son da avere senza indugio) e il Madchester li spazza via. Collabora allora con Andrew Weatherall e gironzola nei Saint Etienne di Tiger Bay, ma ha il pepe al culo e vorrebbe qualcosa tutto per sè. Poi si ricorda del suo amichetto Van Spall con il quale aveva condiviso le prime due band. Ci fa comunella mettendo a frutto tutte le sue precedenti incarnazioni, e a me vien la lacrimuccia a pensare quanto ho divorato con le orecchie questo piccolo capolavoro chiamato Deaf And Dumb, in quel 1995 ancora leggiadro e senza particolari paturnie. Eravamo uguali, io e quel disco, ci declinavamo tenui ma sapevamo farci aguzzi alla bisogna, avevamo i synth ma sotto – appunto – ci sentivamo inFELTriti dalla vita. L’ho riascoltato qualche giorno fa e lo riascolto ora per provare a trattarne adeguatamente, chiedendomi stupefatto come sia possibile che non abbia mai incontrato in vita qualcuno che ne fosse devoto seguace o semplicemente me lo sventolasse addosso. Legge dei grandi numeri forse, ma mi verrebbe voglia di trangugiare un King Of Soho col chinino per aver di fronte a me qualcuno col quale condividere, ancora una volta, questi 14 brani (la Echo Beach ne darà alle stampe una versione Bignami nel 1997). Magari ascoltandolo in religioso silenzio sin dal lungo viaggio nel cosmo di Look Out They’ve Landed, sei minuti e cinquantasette secondi che non si possono spiegare (o quantomeno io non riesco a farlo) così immersi e rarefatti tra una Trance Europe Express per le rotaie di Kyoto e un Hal che si fa (Neutron) 9000 prima di sbarcare su una piroga a Kingston. È meraviglia ed è grande come un joint a mezzanotte sugli scalini della chiesa invasa da stelle comete. Elettronica che sa chinarsi kraut e chiamarsi dub nelle sue rarefatte assenze, tra piccoli arpeggi classici e una bassline da Tricky. Avarice pure, intermezzo meraviglia di black ambient dal cuore di pece e le mani candide, se qualcuno si fosse perso verso Alpha Centauri segua questa lampeggianza di suono, grazie. Magari aggrappandosi all’immaginaria 2001 Od , undici minuti scarsi che non è difficile pensare accompagnati a pellicola o a quel Gary Clail di cui sopra. Gluttony lega e incolla la suddetta a Core Of The Earth, una Slave To The Rhythm alla quale han tolto il midollo innestandolo su Peter Gabriel III. L’accoppiata Lust/Heroin On Dub non può non strapparvi il cuore, a meno che non abbiate Buffon al suo posto. Un margarita senza cannuccia, leccata in riva al torrido mare d’agosto in piena notte, mentre tutti gli innamorati del mondo non vi degnano di uno sguardo. Ma che importa dinanzi a ‘sto schioccar di lacrimante felicità? Assimilatevi la coda di vaporosi archi, dove gli Orb applaudono dall’alto dei cieli e i Primal Scream idem. Higher Than The Sun. Ripenso ancora allo stupore di quel 1995, al mio lesto entusiasmarmi davanti a SelectaDisc per la battaglia delle due corazzate britanniche ma l’altrettanto lesto ritorno a casa per accendermi in silenzio una sigaretta (fumavo Multifilter allora, andrei garrotato) con Deaf And Dumb sullo stereo. Tacca sul due. Notte dopo notte, per settimane. Forse mesi. Perché torni sempre da chi ti aspetta davvero e non per dovere, e i tredici minuti di Heroin On Dub con la sua coda di chitarra acida e il suo dipanarsi disperatamente sexy sono quanto di meglio possiate trovare sul letto, in una notte d’estate. Quasi.

Non bastasse, Dawn Patrol avrebbe ancora qualcosa da insegnare a quei corpicini esanimi dei Prodigy, senza bisogno di urlare e anzi rallentandoli in una colla satura ottenuta mescolando Zion Train e Sly&Robbie. Un pezzo che sembra girovagare a vuoto e invece avanza sornione la sua candidatura a muscoloso riempianima. Sloth e Dub Down mantengono tutto ciò che promettono e ne farei quasi una questione personale l’esortarvi a succhiare tutto il bastoncino di liquerizia dove bolle d’aria salgono nelle narici provocando eccitazione e stupore. Manco dovreste stare qui a perdere tempo su questi pixel invece di aprire una nuova scheda del vostro browser e digitare furiosamente le coordinate atte all’acquisto. Ma ho pazienza a prima della fine conto di incuriosirne almeno quattro di voi. Magari tramite i tre minuti di Envy o i ventuno (ventuno!) di Peace To The I, ovvero Babylon che brucia dentro la matrice. In The Beginning There Was Rhythm. Poi sono arrivati i Templeroy a far gocciolare la foresta amazzonica con l’umidità delle pelli (di tamburo) che trasudano liquidi intimi. Un viaggio di ventun minuti lungo ventitrè anni, pronto a riportarmi allo stupore iniziale e alla genuflessione magna che ebbero le mie sinapsi la prima volta che approcciai questa magniloquenza sonora. Che dite? Vola basso? Correrei il rischio di incastrarmi nei cavi dell’alta tensione. Sii ragionevole, pretendi l’impossibile. E dunque la finirei anche qui, se non ci fosse ancora l’onomatopeica Rhapsody a sgomitare e un paio di voi da convincere. E non vi è maniera più liquorosa e toccante di chiudere questo monolite con i 240 secondi di partiture classiche adagiate su una stella pulsante. Deaf And Dumb si chiude qui, tra synth lacrimanti e Bach lasciato libero di fluttuare nell’iperspazio. Quale miglior occasione per accendersi l’ennesima sigaretta notturna? Magari osservando orgoglioso come non sia una Multifilter. C’ho messo 20 lunghi anni, ma sono diventato un ometto.

Michele Benetello


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