Gretschen Hofner – Maria Callous (Poppy, 1996)
C’era mica granchè in quel di Londinium, nel 1996. La sbornia brit pop era già in hangover eppure tutti i negozi continuavano imperterriti a stivare le vaschette dei 45 giri con miriadi di uscite, ormai sempre più strampalate, in un accanimento terapeutico imbarazzante. Anche il sottoscritto continuava imperterrito e imbarazzante, noncurante del fatto che la fine fosse vicina e ampiamente annunciata. Il 26 agosto i Menswear (a proposito: unitevi al Piccolo Coro di quelli che reputano Nuisance un disco orrendamente bello. Citofonare casa mia) facevano uscire il tanto atteso (da me) We Love You, decretando virtualmente la loro morte e noi – la settimana appresso – eravamo già scalpitanti da HMV a prendere tutte le versioni possibili. Lì, in quelle ordinatissime pile di sette pollici, manco fossero stati ‘i cipressi che a Bolgheri, alti e schietti bla bla bla’, svettavano delle copertine d’altri tempi, seppiate, con un immaginario a metà tra gli Smiths e Russ Meyer. 0,99 cadauno. Tanto valeva metterli nel computo degli acquisti sicuro che – un domani – il tempo di ascoltarli si sarebbe trovato.
A questo pensavo mentre mi avvicinavo alla cassa con fare baldanzoso e congruo bottino. Chissà chi cazzo sono questi Gretschen Hofner, mormoravo. Rockabilly, mi sa, guarda che immaginario e – soprattutto – guarda che denominazione omaggiante il basso Hofner e la chitarra Gretschen, quasi ad unire il maschile al femminile. Rigiravo tra le mani quelle copertine e ci annusavo i Fall. Magari dei Fall in versione rockabilly, ecco. Sicuramente qualcosa fuori dal tempo e – soprattutto – dalle mode imperanti, visto che non c’era traccia di tutine Adidas o capelli Baggy. E anzi. Non mi piaceranno pensai, ma almeno non mi piaceranno con mucho gusto visti i titoli dei singoli che stavo accuratamente consegnando al solerte commesso: Betty Page Is Back, A Judy Garland Life, Time For A Black Jesus?.
“Sarà vero, dopo Miss Italia aver un Papa nero. No me par vero”.
Li lasciai fermentare in qualche angolo di casa per un tempo sufficientemente lungo prima di approcciarli svogliatamente e – con una spocchia che spero essermi tolta di dosso – riporli altrettanto svogliatamente. Niente a che vedere con i miei intrippamenti dell’epoca. C’erano troppe chitarre slide, troppa brillantina, troppo Nick Cave in seconda, troppi anni ’50, troppo Duane Eddy, troppo bourbon. Beasts Of Bourbon, anche e soprattutto. Insomma: troppo tutto, ma ero io quello sbagliato. Ci vollero un paio abbondante d’anni prima che mi rivolgessi nuovamente a quel terzetto di singoli con orecchie nuove e attente, scoprendovi improvvisamente uno dei gruppi più inclassificabili ai quali mi fossi mai accostato; non tanto per la mescolanza sonora quanto per l’iconografia e i riferimenti (i più disparati, sottolineo) ai quali attingevano. Mi adoperai per portare a casa l’utile (Maria Callous, unico album in discografia) e il dilettevole (Crow In Heels Ep) prima di scoprire che erano già scoppiati sul finire del 1997. Poco male, un intero pomeriggio di immersione sul calar del millennio mi fece vedere la luce. Maria Callous soprattutto (visto che titolo?), 12 brani dai titoli assurdi e dal contenuto bombarolo. Usciva nel 1996 per la Poppy Records, etichetta ascrivibile a quel Tot Taylor già titolare della Compact Organization (Mari Wilson e Virna Lindt nel carnet) pronto a piazzare qualche stupida fiche su questo quintetto. A proposito: strani anche loro piuttosto e anzichenò, avendo in formazione quel bizzarro esemplare di femmina chiamata Justine Armatage, una con passato nei gotici In Excelsis e un futuro nei Baader Meinhof di Luke Haines.
Ma si stava parlando dei Gretschen Hofner, giusto? Magari solo per fare quelle due chiacchiere da bar, tra un Americano e l’altro (a proposito: mettete l’angostura? Ci sarebbero due correnti di pensiero a riguardo) smadonnando sulla nulla visibilità che li colse e l’immediato oblìo che li circondò. Pochi prenderanno da qui, avendo i nostri già abbondantemente saccheggiato gran parte dello scibile rock and roll, ma tra quei pochi di prim’acchito mi sovvengono i Penthouse di Gutter Erotica che ne furono figli devoti e ai quali non a caso Paul Hofner si rivolgerà nel 2001 disegnando la copertina per Unt. Come che sia non finivo di riguardarmi quelle deliziose ed essenziali copertine, mentre l’ascolto in loop di Maria Callous si spandeva per l’aere. E deve essere stato un remare contrario e ostinato mica da ridere uscire sul mercato in quel biennio sculettante, furioso e perfettamente agghindato, scansando nugoli di Shed Seven, Marion e – appunto – Menswear (anzi: Menswe@r), con un sussidiario di rock and roll primitivo, blues copernicano, rockabilly (o pervabilly, come qualcuno si adoperò a marchiarli da subito). Quel che è certo è che qui si srotola un bel campionario d’antan che unisce la Chess Records a Howlin’ Wolf, i Cramps a Gene Vincent, i cartoni animati dei Banana Splits e i Toe Rag Studios, compressori valvolari, serie Tv, occhiali a raggi X comprati per corrispondenza e equipaggiamento vintage. Bo Diddley, anche e soprattutto, che a dimenticarlo si fa sempre peccato.
Io invece li ho sempre pensati come dei Cousteau senza le fisime orchestrali e sotto anfetamina, magari guidati da Poison Ivy e Lux Interior. Con la frusta, chiaro. Se non sono riuscito ad incuriosirvi passate pure oltre. Se invece state cominciando a far di conto sarebbe il caso di parlare anche delle canzoni. Che svicolano perfettamente in quell’immaginario tarantiniano che un po’ avrebbe anche rotto i coglioni, n’est pas? A Judy Garland Life si sarebbe adagiata perfettamente in qualche pellicola dell’uomo di Knoxville, con quell’aria da Pantera Rosa sotto Lexotan. Un valzer in guisa di blues (o viceversa) sagomato da pietruzze d’archi che mostra la via al prossimo whisky bar sotto una luna d’Alabama. O ancora l’altro damascato manufatto, quella Betty Page Is Back che svisa tra scale arabeggianti e una coda Birthday Party. Ognimmodo tanto a posto il buon Paul Hofner non dev’essere stato per disseminare il manufatto di titoli sotto fuzz quali Acupuncture Amphitheatre, Leopardskin Pink e Moodswing Staircase e di testi lungo i quali discerneva riguardo l’importanza degli idrocarburi nell’industria dell’abbigliamento britannico. Dei Gallon Drunk attorcigliati sugli Half Man Half Biscuit; dei Beasts Of Bourbon (prosit!) sorpresi sulle gradinate a guardare il secondo tempo, dei Pogues agghindati a Savile Row. Dei Fall con la brillantina e Shakin’ Stevens a picchiettare xilofoni. Un disco di goduriosissimo rock and roll ottocentesco, dove Crow In Heels è un tango haitiano sgraziato da Efedrina; Mystery? Pare provenire da un punto imprecisato di From Her To Eternity, da un inedito di Robbie Williams o da qualcosa che sta lì in mezzo. Zero To Nowhere è un luna park impazzito di Stray Cats e vaudeville. Man With A Smoking Gun anticipa e migliora gli Urge Overkill inserendoli nel cast degli Aristogatti; divertentissima e contagiosa fa il paio con Klassy With a Kapital K, altro bell’immaginario tarantiniano dove si lecca brillantina e le chitarre sono grandi, grandi così. Calendari Pirelli e deserto del Nevada, Busty Mature e violini tzigani per 12 brani assolutamente fuori dal tempo, tanto che quando arriva Tiger Bay Rhapsody sei quasi arrivato alla fine e già fremi per ricominciare. Nessuna rivoluzione, nessun miracolo sonoro, Maria Callous mantiene esattamente ciò che promette, senza alcun scartamento o tentativo d’ampliare gli orizzonti. Un miracolo non da poco nel mondo del ‘famolo strano’ a tutti i costi.
A confermare l’assioma la prematura dipartita visto che di attenzione (band e disco) ne raccolsero poca, finito il nanosecondo di curiosità. Stritolati tra The Bends e Ok Computer i Gretschen Hofner vennero prontamente risputati negli inferi. Le cose in Albione stavano mutando pelle ancora una volta – l’ultima, forse – e non vi era spazio per del sanguigno e carnale rock and roll. A tutt’oggi anche la rete è parsimoniosa di notizie a riguardo, tanto che una discografia seria e ragionata ve la potete accattare al prezzo di tre Negroni (a proposito: ce la mettete l’angostura?). Soprattutto Maria Callous, gemma dimenticata che non sarebbe male estrarre da un oblio coatto. Passai qualche mese in fissa con questi pazzoidi (e con l’altro folgorato di David Devant, del quale abbiamo già ampiamente trattato) prima di aspettare inutilmente un seguito che mai sarebbe arrivato.
Scopro solo ora che Paul Hofner ha lasciato questo mondo nel 2010. Ne ha dato il triste annuncio la povera Gretschen.
Michele Benetello