Fra Lippo Lippi – Small Mercies (Uniton, 1983)

Fra Lippo Lippi – Small Mercies Uniton 1983 Google Search

Credo sia stato il 1983; anzi ne sono certo. Non un 1983 qualsiasi, ‘che se ritorno indietro con le sinapsi mi ritrovo continuamente impiantato dentro quel biennio (Eighty One e Eighty Four li lascio a Jim Kerr, ma più il secondo che il primo) cruciale; l’equivalente del ‘Uhmmm uhmmm per me numeeeero unoo’ di Dan Peterson virato angst. Novembre 1983, per essere precisi. Un sabato pomeriggio scuro e oscuro come le armate di Sauron, stritolato da una nebbia che dalle nostre parti si diverte da sempre con un marcamento a uomo alla ‘Cile 1966’ – Battaglia di Santiago compresa – con tacchetti freddi e metallici che mordono le caviglie e il cuore. Perchè capisco benissimo la solitudine dei numeri 10, costretti a dimostrare continuamente un’algebra che non lascia scampo e spesso ti entra in tackle scivolato lasciandoti a terra, avulso dal gioco e con l’anima già in spogliatoio.

Avevo tutto perfettamente incastrato quel pomeriggio, cubo di Rubik emotivo che non poteva far prigionieri visto che nelle mie tasche conservavo – dopo settimane di risparmio coatto – ben 13.500 lire. Potevo andare sulla luna nel 1983, con 13.500 lire. Persino a Mestre, potevo andare. Potevo far di tutto, e se controllassi il coefficiente di rivalutazione della lira prenderei paura nello scoprire il potere d’acquisto che stritolavo tra le mani in quel meriggio uggioso. Potevo far tutto, sì. Persino comprarmi un disco d’importazione, che non ti toglieva dal ‘caigo’ (come dicono a Venezia) ma ti poteva far volare più lontano di quel paturnioso satellite, che anche io c’avevo le mie belle maree alle quali far fronte, che credete?

Tornai a casa da scuola con le membra intirizzite (quasi tutte) per consumare un pranzo veloce; gli amici attendevano al solito posto, c’era l’ultima rifinitura pomeridiana defatigante prima di una attesissima festa studentesca nell’unica discoteca di quel paese di rupestri dove ero solito aver residenza. C’avevo messo almeno 40 minuti per riuscire a sembrare un’emaciato John Foxx (o, in alternativa, un pilota della RAF), finendo invece col sembrare un Garbo qualsiasi. Ne valeva però la pena visto l’improrogabile appuntamento. Non avevamo grossi svaghi in quella provincia melmosa e beghina, e se pensate che all’apertura della prima sala giochi paesana vi fu un’isterica interpellanza comunale, comprenderete che – al confronto – gentaglia come quella che ammorba gli odierni luoghi di potere rischia di diventare De Gaulle.

Se. Non. Che.

Se non che quelle 13.500 lirette pesavano assai e necessitavano solchi in vinile per poter vidimare il pomeriggio come fruttuoso invece di essere buttate a mare con qualche Batida, liquore che sarebbe da far processare al Tribunale dell’Aja per evidenti crimini contro l’umanità. Io sapevo cosa dovevo fare, sebbene la delusione negli occhi degli amici fosse palpabile; non si poteva disgregare un gruppo così ben assortito giusto un attimo prima dell’entrata in campo. Ma c’era un autobus che mi attendeva, vecchio torpedone scrostato che avrebbe dovuto portarmi dentro un buco maleodorante e periferico, 25 metri quadri stivati di ogni ben di Dio declinato post punk. Non avevo dubbi quel pomeriggio, non avrei perso ore a rimestare vasche stritolato da amletiche indecisioni. Sapevo.

I finestrini dell’autobus emettevano odori di bitume e sudore a buon mercato, erano i 40 minuti del prezzo che ogni volta dovevo pagare per raggiungere la città satellite del Petrolchimico. Mi sentivo perfettamente calato nella parte di un campagnolo Ian Curtis inserito a forza nel video di Atmosphere, un Mark Gouldthorpe (Artery, per i poco avvezzi) a corte di Charles Dickens. Un Pip furiosamente felice. Io, le mie bretelle in cirillico e il mio sgualcito impermeabile stile Futurama Festival.

Spalancai le porte non un solo minuto dopo le 15.30 salutando con garbo e innata gentilezza wave prima di chiedere al titolare se aveva ancora una copia di Small Mercies dei Fra Lippo Lippi. In cuor mio pregavo che l’incarognita nebbia smettesse di marcarmi stretta, riportandomi indietro una risposta positiva. Lo sventurato rispose. 11.500 lire, originale Uniton Records. Depositai adeguatamente il tenue manufatto nella borsetta, odorandone i fiordi della copertina dal vago sapore Preraffaellita. Ingenua in un mondo odierno che sa farsi ignavo alla bisogna; indispensabile in quella porzione di esistenza ancora capace di entusiasmarsi con l’irragionevole saggezza della giovane età, che gli ormoni saranno anche mezzofondisti pessimi, ma sulla velocità ti lasciano al palo.

Dovrei rimestarvelo con doviziose parole questo disco, illustrandolo alla perfezione, ma toglierei tutto il pathos di quel ragazzo che ancora conservava vaghe stelle dell’orsa e rari sprazzi d’entusiasmo (oltre ad una nebbia perfida e canaglia, certo). Potrei dirvi della meraviglia nordica di Some Things Never Change, o del Burt Bacharach prossimo al suicidio di French Painter Dead. Potrei cercare di spiegare la crasi tra i Joy Division e Nico di Slow Sway. Potrei spendere mille parole ma mi si seccherebbero in bocca, piene di vapore acqueo a buon mercato. Non lo farò, rimandandovi alle immagini che mi albeggiarono addosso all’ascolto.

C’è tutto il vento del Nord dentro Small Mercies, ma anche la cappa plumbea dell’est. C’è Nadia Comaneci che blocca il tabellone a Montreal 1976, c’è Olga Korbut, c’è il filo spinato di Berlino e Sense Of Doubt (titolo che compare anche all’interno di questo manufatto, pure senza il marchio della cover), c’è Manchester che si fa gemella di Varsavia (anzi: Warszawa), Solidarnosc, il porfido bagnato dalla fredda rugiada mattutina di Budapest, Ian Palach, Nemecsek che muore di tisi, TV Koper Capodistria e la residenza di Tito con i cigni reali. C’è lo stupore di leggere Gogol per la prima volta annusando la condensa delle finestre. C’è un mondo che fonde i punti cardinali facendone cerchio. Anello di Dio da indossare per la vita, ‘che regaleresti l’azzurro urlante del cielo di Tahiti pur di assaggiare un morso di sole.

Entrai in discoteca da una porta laterale, come un ladro sorpreso a servir messa. Sembravo il più felice di tutta quella masnada di adolescenti intenti a sculettare su Martinelli e i Cube, conscio che – con quel ghiacciaio a 33 giri sotto braccio – potevo andare ovunque. Anche a Mestre o sulla luna. Salutai alacremente i compari facendo vedere il bottino, rincasando subito dopo senza manco un Fior di Loto in corpo ma con un odor di nebbia appiccicata addosso che faceva perfetto pendant con quei norvegesi lesti a scegliere quale denominazione il nome di un pittore fiorentino del 1400.

“Fu fra Philippo gratioso et ornato et artificioso sopra modo: valse molto nelle composizioni et varietà, nel colorire, nel rilievo, ne gli ornamenti d’ogni sorte, maxime o imitati dal vero o finti”. (Cristoforo Landino)

Ci fu il tempo ancora per Songs (Virgin, 1985), dove – complice il mega hit – Shouldn’t Have To Be Like That (in heavy rotation anche su Deejay Television) decisero di diventare degli Steely Dan bio. Proprio Walter Becker andrà a produrre l’insulso Light And Shade (Virgin, 1985) prima di un anonimato triste e periglioso. Che importa? Del resto anche io ero cambiato, le bretelle in cirillico erano finite nella differenziata, la Batida era sparita dai banconi multicolori delle discoteche, eppure – da allora – di piccole misericordie ne ho fatto pane quotidiano. Sisters Of Mercies.

Michele Benetello


4 risposte a “I dischi che piacciono solo a me, credo # 17”

  1. Avatar Orgio

    Bellissimo. Complimenti.
    Per inciso, lo spacciatore vinilico mestrino

  2. Avatar Orgio

    (continua) esiste ancora?

  3. Avatar Michele

    Grazie. Lo spacciatore ha chiuso i battenti da 5 lustri circa. Ahimè.

    1. Avatar Orgio

      😦
      Ma questo ci tocca, purtroppo.

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