Dälek Negro Necro Nekros (Gernd Blandsten, 1998)

Non sembro uomo da hip hop, non sono uomo da hip hop. Mai portato cappellini imbarazzanti o pantaloni di tre taglie più grandi. Mai battuto un ‘cinque’, manco ai tempi di Jovanotti. E degli italici epigoni mi sono genuflesso sugli Onda Rossa (e l’Isola) Posse e poco altro. Ergo, stop al panico e tirem innanz che mi preme sottolineare l’assioma. Non sono precipuamente uomo da hip hop, lo ribadisco, tanto più che – per carattere, censo, antropologia spiccia e fede calcistica – non ho mai agognato al Club degli Sboroni, quel Rotary di Neanderthaliani che credono d’aver visto la luce e di conoscere una pagina in più del libro; egotici, pieni di sé (e di te, loro fine ultimo), mai domi eppure dominanti. Zecche tacchenti che non ammettono repliche o critiche. Quelli che ti spoilerano la vita prima ancora che accada, quelli che ‘io so’ io e voi non siete un cazzo’. Gente di cui l’hip hop da copertina è stato pieno, almeno per un buon paio di lustri, mentre ero intento a girar pagina – semplicemente – in cerca dei necrologi. Quindi non sono (mai) stato uomo da hip hop (e tre!) essendo nato in mezzo al fangoso guado dove sguazzavano con fatica 400 Blows e 1000 Violins, che a far numeri sono buoni tutti. A meno che non mi vogliate iscrivere nelle liste di collocamento di quell’eterogeneo miscuglio (non necessariamente black) che mette in fila un po’ di tutto, dai De La Soul ai Consolidated, da MC 900 ft. Jesus agli Outkast, dai Disposable Heroes Of Hiphoprisy a – persino – PM Dawn. Mi fermo lì, dove gli spigoli si curvano ma non per questo non ti entrano nelle carni, se ci cozzi contro. La roba tosta (Public Enemy in testa) la conservo da un’altra parte, sotto il santino di Ulrike Meinhof.

Ho sempre pensato fosse un po’ troppo… come dire… anacronistico e tirato per i capelli (per chi ancora ne avesse, certo) vantare nel proprio dna qualche filamento di una filosofia di vita nettamente agli antipodi da una popolazione che si è dovuta ciucciare 2000 anni di Papato e che ha dato i natali a Dante e al Rinascimento. Certo, La Divina Commedia è hip hop ante litteram, parolacce incluse, ma noi siamo sempre stati quelli di “Francia o Spagna purchè se magna”, figuriamoci se saremmo mai scesi in piazza per qualche rivoluzione nel Bronx agitando un fucile a pompa o una molotov, ‘chè già al casello dell’autostrada cominciamo ad aver problemi e ‘teniamo famiglia’. Però è anche vero che ogni regola vuole la sua eccezione per vidimarla, e – per quanto mi riguarda – alcuni dischi di genere sono stati degli ordigni pronti a scoppiarmi in faccia senza che me ne accorgessi. Cosa bizzarra e curiosa piuttosto ed anzichenò visto che – nel 1998 – ero imbambolato sui Boo Radleys e Screwdriver (il cocktail, sia chiaro). Non ero uomo da hip hop. Punto.

Uno di questi dischi però mi entrò a gamba tesa in casa, nella testa e negli ascolti. Io che manco sapevo se ‘sto Dälek fosse un solista, un gruppo o un gelato. Io che ero fermo (vetusto babbione) ai Dalek I Love You, peperoncini wave dei primi ottanta, tanto per sottolineare come la sconfitta ce l’abbia nel sangue. Scoprivo invece che si trattava di un duo: Dälek (appunto: vero nome Will Brooks) e Oktopus (Alap Momin) sorta di Justin Broadrick dell’hip hop, due omaccioni in confronto ai quali il tenerone del Miglio Verde pareva Don Lurio. Bastò un solo secondo, appena introdotto sul lettore questo Negro Necro Nekros per capire che si faceva sul serio, che la voglia di portare quel plasma sonoro fuori da ogni confine dandogli una geografia frastagliata e apolide era spasmodica… e forse nemmeno loro riuscivano a capire dove sarebbero atterrati. Un solo secondo nel quale parecchi dei miei ascolti si dissolsero nella calce viva (un nome? I Cast). Un secondo nel quale compresi che a spararle grosse sono buoni tutti, a prendere il bersaglio molti meno.

Un disco (un mini, in verità) che era hip hop quanto i My Bloody Valentine erano shoegazer. Ergo un cicinin, forse. E proprio la banda di Kevin Shields faceva capolino in qualche frattura di questi 5 brani, assieme a mille altri strani incrociatori sonori: dai Faust agli Einsturzende Neubauten, dai Neurosis agli Young Gods, dai Pharcyde agli Scorn, da Ornette Coleman a William Burroughs. C’era un sacco di roba qui dentro, e ti ci voleva una vita per riuscire a decifrarla tutta. Ci vorrebbe pure una sorta di Harmonic Google Translator – aggiungerei – per decrittare adeguatamente qualcosa che verrebbe ascritto all’hip hop solo convenzionalmente e per una questione di latitudine, quando invece è apolide già di suo. Sitar, lunghe code strumentali in odor di rovente prog, percussioni industriali, stacchi di melmosa ambient, calor bianco e facce (non ‘faccette’) nere. Nerissime. Incazzate e furibonde senza mai aver bisogno di scandire slogan da discount. Altresì privi della retorica stantìa riguardo ‘la musica del ghetto’, o ‘dell’unica arma, oltre al basket, per risollevarsi da una sorte già segnata’. Fuffa, almeno in quel finir di millennio, nel quale gli adepti erano già sufficientemente adulti per abbandonare la scuola dell’obbligo, pronti ad iscriversi all’università (non della vita, vi prego) di questo favoloso consenso popolare che a noi – molliccioni bianchi – era scoppiato addosso lasciandoci un ghigno malevolo. Insomma: niente macchinoni, gnocche supreme e chincaglieria dorata. Niente sparatorie, denti d’oro o mattonazzi da 18 carati al dito. I Dälek avevano ben altre frecce in faretra: una ricerca spasmodica in primis, e poi delle geometrie aguzze; ma anche un senso hardcore nelle liriche, uno spettro sonoro che fondeva jazz a psichedelia metallica, che urta e geme su concreti frattali di progressive, che non ha paura di campionare qualsivoglia frammento di suono per innestarlo in questo blues del nuovo millennio, per una volta davvero black and proud. Negro Necro Nekros usciva nel 1998 e difficilmente qualcosa ci aveva scarnificato così a fondo la ghiandola pineale, incapaci di mettere a fuoco immediatamente cosa ci fosse sotto quella coltre di lapilli, pur avvertendo di pancia che, ‘lì sotto’, stava avvenendo un’eruzione. Con la U, sia chiaro.

Sono solo 5 brani, ornati da una copertina alla Eraserhead dove già da Swollen Tongue Burns (posta in apertura) pare di avvertire i Disposable Heroes Of Hiphoprisy, solo in combutta con gli Scorn. Accelerazioni, improvvisi mutamenti di rotta, fiati, paludi psych e battiti saturi. Minutaggi estesi quando non estesissimi (i dodici minuti di Praise Be The Man, dove il respiro di John Lennon viene immerso nell’assenzio industrial e affiorano i Faust), spettro sonoro eterogeneo (le tablas e l’atmosfera asiatica di Three Rocks Blessed) a dimostrazione di come vi fosse una volontà lancinante nell’elaborare tracce che erano qualcosa di più di uno slogan con la data di scadenza impressa sui campionamenti. Images Of .44 Chasing è la trascrizione dei Can nati nel Bronx o di Terry Riley a corte dei Consolidated. O, ancora, più semplicemente, una meraviglia. The Untravelled Road è jazz. Moderno, scomposto e davvero rivoluzionario. Ornette Coleman che rivede ‘L’Uomo dal Braccio d’Oro’ sotto una pioggia di fuoco e di Pasti Nudi. Cinque brani, cinque round che ti lasciano al tappeto, non serve molto altro per perimetrare questo disco. Che è un unico continuum assolutamente devastante, con alcune oasi di purezza classica a rinfrescarne il cammino. Certamente non la materia per gli azzimati modernisti che affollano il MiAmi squirtanti terzine da cantautorato nostrano, ma è innegabile come Negro Necro Nekros sia stato il suono del futuro, in quel sonnacchiante 1998. Mi sa che lo è ancora.

P.S.: mentre pirleggio da solo – da buon multitasking – imbambolato su questa orribile sciacquatura di luoghi comuni propinatavi, sto dando un’occhiata impulsiva al legno piegato delle librerie. Beh, sono sufficientemente stivato di Run DMC, N.W.A., Public Enemy (sotto il santino di eccetera eccetera), LL Cool J, Beastie Boys, Wu-Tang Clan, Eric B. & Rakim, Futura 2000, Afrika Bambaataa. Ma anche di 400 Blows. Quindi, cazzo dico? Yo!

Michele Benetello


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