Mick Ronson – Slaughter On 10th Avenue (RCA, 1974)
Ah, Ronno. Ronno! La più pregiata manovalanza rock di sempre; l’uomo schivo e umbratile capace di trasformarsi in Polvere di Stelle appena metteva piede e chitarra su un palco. Il musico in guisa di supernova che si fece praticamente da solo Transformer di Lou Reed – dacchè il titolare incapace d’avere una qualsiasi reazione emotiva o anche solo accordarsi la chitarra – senza raccogliere un’oncia di notorietà o di gratificazione economica. Quello fortissimamente voluto da Bob Dylan nella Rolling Thunder Revue mentre il nostro (incredulo) era pronto a rifiutare pensando trattarsi di uno scherzo. Il biondino più cool di sempre che incideva cover di Claudio Baglioni e Lucio Battisti e poi veniva in Italia (nel 1987) per collaborare con i Moda – senza accento! – di Andrea Chimenti; l’artista supremo che con il suo arrangiamento rese Life On Mars? quella che è, ovvero un capolavoro e Suffragette City (con l’illuminazione dell’ARP 2600 usato come un sax) la pietra d’angolo sulla quale si edificherà il brit pop tutto; il moschettiere che partecipò – come musicista e produttore – a Cardiff Rose di Roger McGuinn, inventando letteralmente i Clash (credetemi!) nella traccia Rock and Roll Time.
Quanti Mick Ronson abbiamo avuto, vero? Da perderci il conto. E quanti sono probabilmente ancora nascosti tra le pieghe del tempo e della letteratura pop. Sentite questa, ad esempio: nel 1964 Ronno si sta facendo le ossa con i Mariners, gruppo pronto a cambiare nome – per imposizione di Bill Wyman – in King Bees. Qualche chilometro a sud il suo futuro sodale (come: chi?) sta incidendo un 45 giri (Liza Jane) come Davie Jones And The King Bees. Ma mica è finita, eh: tempo tre anni e il biondo forma i Rats (è già punk e non lo sa) la cui unica parvenza di fama è un 45 giri chiamato The Rise And Fall Of Bernie Gripplestone che… Oh, insomma: state cominciando a far di conto, vero?
Un nome indissolubilmente legato a quello di David Bowie, prima che quest’ultimo (che riusciva ad essere stronzetto assai, alla bisogna; si dovrà attendere Hunky Dory per vedere il nostro accreditato nelle royalties) lo liquidasse con una pacca sulla spalla, lasciandolo al freddo e al verde. Come dar torto, ora, al buon David? Non avesse voluto pigiare l’acceleratore chissà quanti manicaretti ci saremmo perduti per strada. E se è vero che l’A Lad Insane molto prese dal suo stra-or-di-na-rio chitarrista è altresì sacrosanto il contrario. Quante potremmo recitarne di omelie su Mick Ronson, la chitarra più ispirata e originale dei Settanta richiamata a gran voce da Morrissey per la produzione di Your Arsenal, nel 1992. Pareva fatta, e tutti ammainavamo il Gran Pavese per riavere la sei corde più figa di sempre tra noi. Non proprio tutti, invero, visto che il suo nome è una delle mie due cartine tornasole per saggiare spocchiosi soloni (l’altra? Chiedo con quale gruppo suona la batteria Roger Taylor); sono sempre solerti nel rispondere che il platinato chitarrista è all’apice delle loro preferenze ed è intoccabile ma, ahimè (e lo dico per le sue royalties), ‘incidentalmente’ non hanno alcun manufatto in casa. A parte Ziggy Stardust. Che, hic et nunc, non fa testo.
Sembro anche io uno spocchioso solone ora, ma in guerra e in amore tutto è lecito ed io – Mick Ronson – l’ho amato e lo amo tuttora assai, pur senza esserne un completista (Heaven And Hull, del 1994, non ha preso residenza). Proprio amore, quello vero non surrogati da seguace part time, quello con palpitar di cuore e farfalle nello stomaco, quello con abbracci dorati e vaffanculo taglienti. Quello che ti rende entusiasta anche una minestra tiepida. Parte la sua chitarra (in proprio o prestata a terzi) e ho visioni di Top Of The Pops, stile con la esse maiuscola, sigarette in bocca, giubbino di lamè e quella Gibson Les Paul Custom ‘Black Beauty’ del 1968 alla quale fece grattar via la vernice per aumentarne le frequenze. Una chitarra che pareva provenire da un’altra galassia. Non troppo lontana.
Mick Ronson era il futuro, nel 1972. Tre anni più tardi – per gli stessi acquirenti – era un ingombrante residuato bellico nonostante Slaughter On 10th Avenue (il suo primo album solista) fosse riuscito a raggiungere la posizione numero nove delle classifiche inglesi. L’onda lunga del Duca, si disse, più che vera fama in proprio. Luce riflessa. Ma anche no, aggiungerei. Nel 1975 Creem lo elegge secondo miglior chitarrista dell’anno (dietro Jimmy Page) e la strada sembra spianata; nessuno ha fatto i conti con Ronno però, uomo che ha a cuore la musica e non si trova a suo agio nel ruolo di frontman. Non ne è abituato, lui è il muscolo possente non la faccia da copertina. Guida le truppe celandosi al loro interno più che cavalcarvi in testa. I concerti zoppicano e il pubblico – convinto di trovarsi davanti l’ennesima permutazione Ziggy – si confonde davanti ad un canzoniere che è sì glam ma sa declinarsi ‘altrove’ in termini sonori.
Mi si secca la gola e un groppo la ostruisce quando penso che Ronno non è più tra noi e tocca accontentarsi di quei (un paio, bastano) dischi dati alle stampe lungo un biennio nel quale persino Bowie stava cercando altre strade. Mick no, non aveva bisogno di esplorare, faceva quello che aveva sempre fatto: suonava la chitarra. E lo faceva benissimo, con uno stile particolare e pochissime permutazioni, com’è d’uopo per i musicisti sopraffini che non hanno necessità di urlare al mondo il proprio ego. Ne aveva pochissimo del resto, e non è un caso che sia stato sempre il nocchiero sottocoperta, il timoniere all’ombra dell’albero maestro. La guida ma non il faro. Arrangiamenti, accordature, rifiniture di composizioni, quartetti d’archi da bilanciare, strofe da unire senza traumi. Laddove c’era da lucidare, comporre, levigare o cucire arrivava Ronno. Tutta roba che gli riusciva benissimo e io non so mica – realmente – di quanti indefessi, talentuosi e disinteressati stakanovisti abbia potuto fregiarsi il rock and roll, oltre a lui. È altresì inutile ch’io stia qui a piangere lacrime di coccodrillo, il Ronno ormai è uno Starman dal 1993 e pure i suoi manufatti non sono così visibili su questa o quella bancarella. Mai stati, tra l’altro. Resta il nome, quello sì; ci si spende quello, un nome buono per qualche documentario (Beside Bowie – The Mick Ronson Story, da strappare il cuore) e poco più. Ma io vi perdono, figlioli e chi è senza peccato scagli il primo plettro.
Slaughter On 10th Avenue dunque, un titolo che pare preso di peso da un telefilm con Charles B-Ronson e invece è esordio sul quale la RCA – in quel 1975 – punta assai, facendone accompagnare le registrazioni da nomi quali Aynsley Dunbar alla batteria (Eric Burdon, John Mayall) e Mike Garson alle tastiere. Quest’ultimo prezzemolino rock che suonerà con tutto lo scibile musicale (dallo stesso Bowie a Annette Peacock, da Stan Getz ai Nine Inch Nails) prima di finire nei Poliphonic Spree. Bizzarro, vero? Comincia con una Love Me Tender (esatto: quella del Re) in cui un pulviscolo gospel si fa glam prima che una voce insospettabilmente pregnante accompagni un pianoforte che scivola nei bassifondi. Growing Up I’m Fine proviene dal canzoniere di Bowie ma sembra il più bel pezzo dei Queen. Poi arriva Only After Dark e si capisce come il seme del nostro abbia fecondato imberbi pischelli pronti ad azzannare le classifiche. Rock And Roll all’ennesima potenza, immediato, muscoloso e con un groove da paura. Dei Roxy Music fatti di estrogeni e sporchi di sudore ritmico; Ziggy che intravede le luci al neon di Sheffield; Bolan che prende le redini della DFA. Ci sono già tutti i Placebo dentro Only After Dark ma il nostro si permette di inserirla quale lato b di Love Me Tender, ignorandone l’enorme potenziale commerciale. La psicotica versione degli Human League contenuta in Travelogue (1980) renderà giustizia. Forse il più bel pezzo di carriera che ancor oggi non ha perso un grammo del suo smalto. All’arrivo di Music Is Lethal non ci capisci più nulla. La musica è firmata Lucio Battisti e il testo David Bowie. Che altro vuoi aggiungere dinanzi a cotanto senno? Magari che Io vorrei… Non vorrei… Ma se vuoi diventa un inno autunnale come pochi. Arrangiamento ovattato da riverberi, piccole pennate di chitarra, un retrogusto bowiano (Pin Ups, circa) e un climax incommensurabile. Bittersweet Symphony, e se non ci perdete il cuore siete “Uomini e Nonne” Amici di Maria. Ma mica sono finite le sorprese, ‘che la grandezza di un musicista si misura anche dagli omaggi, e non ho ricordi di qualcuno che riesca a far coesistere nei solchi Lucio Battisti e Annette Peacock. I’m The One proviene dal repertorio di quest’ultima e riesce ad immolarsi nello stesso arrangiamento usato per Love Me Tender (non a caso riletta anche dalla Peacock proprio nel suo I’m The One, del 1972); ne rappresenta lo spirito jazz blues e sa declinarsi doloroso nella sua negritudine. I fiati pregano Dio e l’Altissimo pone la mano sui capelli biondi del nostro, donandovi sapienza. Pleasure Man / Hey Ma Get Papa è un medley in transumanza dove il primo continua nella tradizione blues del precedente prima di mutar pelle in guisa di glam rock scuoti chiappe. La nomèa di più bell’apocrifo bowiano di sempre non è iperbole. Chiude Slaughter On The 10th Avenue e – in quel pasticcio alla Star Spangled Banner virata soul – c’è già in nuce tutto l’indeciso destino a venire.
Play Don’t Worry (RCA, 1975) scivolerà subito in un modesto numero 29 in classifica pur contando su un trittico di zampate feroci. White Light/White Heat suona punk e – a suo modo – The Fall; Empty Bed (Io me ne andrei di Claudio Baglioni) acquista uno charme sconosciuto; Woman dei Pure Prairie League profuma di larghi spazi americani e di hard rock. Giusto per buttarne tre che – spero – incuriosiscano il puro di cuore. Ora dovrei chiudere, mi sa, il tempo scarseggia e Slaughter On 10th Avenue mi esorta all’ordine dallo stereo con quel suo fruscio impercettibile, reclamando meritato riposo sugli scaffali. Pare schivo anche lui, come il suo autore.
Michele Benetello