Shirley Bassey – Never, Never, Never (UA, 1973)

Durante i tempi cupi del manicheismo coatto ho sovente dovuto nascondere – mio malgrado – l’insana passione bondiana che da sempre mi attanaglia. “Ma come?” era l’inevitabile stupore conto terzi: Maschilista! Decerebrato! Guerrafondaio! Alcolizzato, persino. O fascio, pure. E stronzo, già. Dimenticavo: stronzo. Da te non me lo sarei mai aspettato e bla bla bla. Che era un po’ come ‘cielo, mio marito!’ declinato misoginia. E invece, guarda un po’ cosa potevo estrarti dal cilindro mentre tutti si facevano rinsecchite pugnette sul Godard (non il Vic, quello piace anche a me) con l’Amuchina. Armi, donne, Martini, motori, scazzottate, improbabili ritrovati tecnologici. Un rupestre, praticamente… Ma che siamo – in definitiva – noi esseri pelosi incapaci di scovare dei calzini dello stesso colore in un contenitore di 50 centimetri? E ancora: cosa volevi dire, a 007? Uno che annetteva gnocca un tanto al chilo, sbarazzandosene per causa di forza maggiore (la morte della tapina, quasi sempre) o noncuranza spiccia. Se ti piaceva James Bond eri fascio. Punto. Vestito bene ma fascio. Il che dimostra quanto possiamo essere stupidi a volte. Quindi zitto e dalla Russia con amore, cioè mosca. Insomma, per alcuni lustri non ho potuto dichiarare stima imperitura verso lo stile (shaken, not stirred) dell’agente segreto più famoso al mondo. Roba da maschi allupati probabilmente, gente con un immaginario basico, uno smoking che non si sgualciva nemmeno sotto una muta da sub e due neuroni due di numero, concentrati su un’unico obiettivo. Che non era la Spectre.

Non ricordo infatti d’aver mai conosciuto foemine seguaci delle avventure del nostro, tolto forse un languorino verso questo o quel protagonista (l’immaginario dice Connery dal 1962, ma sono certo che le gentili donzelle siano all’oscuro del fatto che in OGNI film Sean Connery indossò un parrucchino per nascondere l’incipiente calvizie). Una trappola tipicamente maschile quindi quella di 007, una trappola nella quale sono caduto con gusto da subito e in ottima compagnia se è vero che Dalla Russia Con Amore fu l’ultimo film visto da John Fitzgerald Kennedy (se lo fece proiettare privatamente alla Casa Bianca) e La Spia Che Mi Amava quello al quale assistette Elvis Presley prima di defecarsi cuore e pastigliette sulla tazza del cesso. Una trappola edificata soprattutto su accessori, immaginario e trivia. Tipo la marca di orologio indossata dal nostro (solo Rolex o Omega Submarine); che la pistola è sempre una Walther PKK e che Cary Grant fu la primissima scelta per il ruolo di protagonista. Rifiutò perchè troppo vecchio per la parte (nel 1962 aveva 58 anni). E ancora: sapevate che Ian Fleming era cugino di Cristopher Lee? Quest’ultimo avrebbe dovuto interpretare il Dr. No nel primo capitolo della saga, non andò a buon fine ma si rifece ampiamente col sublime Scaramanga in L’uomo dalla pistola d’oro (1974).

Insomma, ci sarebbero mille indizi per togliere quella patina da Maschio Alfa rimasta appiccicata a 007. Non lo si è mai visto ubriaco, ad esempio (a parte una mezza inquadratura di Quantum Of Solace); in Si Vive Solo Due Volte (1967) evita di guidare l’automobile per tutto il film; in Vendetta Privata (1989) la scena in cui gli si revoca la licenza di uccidere venne girata a casa di Ernest Hemingway (addio alle armi, eh?). Il motto della famiglia Bond è Orbis Non Sufficit, ovvero Il Mondo Non Basta, film del 1999. Non bastasse questo, in sovrappiù vi aggiungo come Fleming si fosse appropriato dell’identità di un famoso ornitologo (autore del libro ‘Uccelli delle Indie Occidentali’), chiamato appunto James Bond.

Ora, siccome ‘senza Golia Davide è solo un moccioso che tira sassi’ mi sono altresì piaciuti in maniera spasmodica persino i vari ‘cattivi’ che si sono avvicendati. Quasi tutti: da Hernst Stavro Blofeld a Julius No; da Auric Goldfinger (con quella faccia alla Benny Hill. Ma i produttori avevano contattato Orson Welles in prima battuta) a Scaramanga; da Hugo Drax a Le Chiffre (enorme Mads Mikkelsen!) e – va da sè – pure tutti i loro scagnozzi: Squalo, il leggendario Odd Jobb, Baron Samedì, Nick Nack, la conturbante Octopussy. Avercene, di nemici così, cristosignore! Che qua, per trovare del sano sturm und drang devi rivolgerti a mezze calzette, sovente piagnucolose, isteriche e con le sopracciglia perfettamente rifinite. Mai che ci sia un cattivo come si deve, quando ne hai bisogno. Ma la leggenda era LUI, lui e le innumerevoli gnocche che si coricavano seco senza troppi ‘a casa mia o a casa tua?’, Tinder e/o gruppi di whatsapp. Qualche nome? Barbara Bach, Jane Seymour, Jill St. John, Diana Rigg, Shirley Eaton (ricoperta d’oro, yummmm), Claudine Auger, Honor Blackman, Ursula Andress, Barbara Carrera (la cattivissima Fatima Blush). Non vi suda la nuca? Un vodka martini e già si rotolavano OVUNQUE.
‘Ooooh, Jaaaaames’
“Tre misure di Gordon, una di vodka, mezza di China Lillet. Versate nello shaker, agitate sino a che è ben ghiacciato e poi aggiungete una bella di scorza di limone”
“Anch’io”
“Anch’io”
“Anch’io”

E poi, la scelta dell’attore. Tasto dolens e roba da dividere il pianeta o farsi picchiare vita natural durante dalle femministe. Per me era perfetto anche  l’odiatissimo Timothy Dalton, o addirittura lo sfortunato George Lazenby per dire, lui e la sua faccia da Oscar Wilde ai Giochi Olimpici. Ho un idiosincrasia solo per Roger Moore (damerino che avrei picchiato ad ogni episodio di The Persuaders) e quel Putin ipertiroideo di Daniel Craig, uno a cui persino lo smoking calza maluccio. Sul mio fotofinish vince Connery, certo, ma di mezza incollatura su Pierce Brosnan… Che come indossava lui i completini nemmeno quel tizio… come si chiama? David Gandy?… quello che esce dalla spuma del mare con la grazie di una nutria (sì, sono invidioso. Ovvio) mostrando muscoli e glutei a Bianca Balti. In ogni caso saremo stati anche maschilisti, porci, guerrafondai (e stronzi, certo) ma l’inguaribile romanticismo che permea le nostre graziose personcine ha sempre un momento di sconforto nel ricordare la povera Teresa ‘Tracy’ Di Vicenzo Draco (Diana Rigg, che donna!), unica nel riuscire a condurre all’altare (sebbene per poche ore) il nostro. Che poi… Agente Segreto? Scherziamo? Tocca davvero citare Moore quando si espresse sul personaggio da lui ininterrottamente interpretato dal 1973 al 1985 con siffatto cinismo: “in teoria sarebbe un agente segreto, eppure tutti conoscono la sua identità e sanno cosa fa per vivere. Appena arriva in un albergo, trova un barman che lo saluta: ‘Bentornato, mister Bond: il solito Martini?’ Andiamo, non ha senso…”. Come dargli torto?

Infine il topos magno: la colonna sonora più riconoscibile di sempre. Va di pari passo con la scelta del protagonista e del cattivo, e solo la suprema e panterosa Shirley Bassey ha potuto fregiarsi di ben tre incisioni ufficiali per altrettanti film. Le note portanti son sempre le stesse, declinate in mille maniere e con mille arrangiamenti ma sono sempre quelle, misteriose il giusto e pietre d’angolo per un tema sonoro riconoscibilissimo. Da Sheena Easton (For Your Eyes Only, carina) a Nancy Sinatra (You Only Live Twice, carina). Dai Garbage (The World Is Not Enough, bah) agli A-Ha (The Living Daylight, bah). Da Lulu (The Man With The Golden Gun, insomma) a Tina Turner (GoldenEye, insomma). Da Tom Jones (Thunderball, da brividi) a Louis Armstrong (We Have All The Time In The World. ENORME). Insomma, senti la canzone e sai a quale episodio del nostro ti stai riferendo, manco fosse un condizionamento Pavloviano. Trovamelo tu, un altro eroe così. Ma si diceva di Shirley Bassey, giusto? La Bond Girl per antonomasia, nel mio parterre sonoro. E quanto ho fantasticato nel vederla recitare la parte della cattivona, magari al posto di Grace Jones, sarebbe stata la quadratura del cerchio perfetta. Va da sè che dire Shirley Bassey significa dire Goldfinger, ovvero il più bel tema di sempre e qualcosa che ti entra in testa e nei pori della pelle da subito. Firmata dalla Sacra Triade John Barry, Lesley Bricusse e Anthony Newley e – si dice – ispirata alla celeberrima Moon River (ma anche Mack The Knife). Canzone dal fascino misterico e misterioso, ammantata di grazia e lascivia, poderosamente interpretata da una Bassey mai così focalizzata e titolare di un acuto finale da brivido nel quale l’intera letteratura bondiana si è sbizzarrita assai. Mille le leggende a riguardo, dalla relazione con il Barry durante la lavorazione del film allo svenimento proprio durante l’acuto, portato a termine con un leggiadro artifizio matematico (lo sfilare del reggiseno per poter incamerare più aria nei polmoni). Fa parte del terzo capitolo della saga ‘007 Missione Goldfinger’ e verrà brutalmente ripresa nell’incedere per il tema portante di Vendetta Privata (1989). C’è tutto un mondo dietro e dentro il tema di Goldfinger, nelle intercapedini delle luciferine aperture orchestrali, nell’animoso climax, nella lussureggiante aria melodica, nello scardinare degli archi, nella chitarra che si fa notturna. A proposito: c’è Jimmy Page che vi suona, lo sapevate? Lui assieme a Vick Flick e l’enorme (non solo nel nome) Big Jim Sullivan. C’è tutta Shirley Bassey in pratica, una che dovette attendere i Propellerheads e gli Yello per avere qualche scampolo di notorietà contemporanea dopo un temporaneo oblìo. E proprio di lei mi piacerebbe parlare, di lei e del fatto che la sua visione mi provochi sempre desiderio spasmodico di riguardarmi qualche capitolo della saga a caso, magari con un bicchiere tra le mani. Insomma (e l’avrete capito), tutto questo pippone è solamente una scusa per trattare il mio sciupafemmine preferito, tramite interposta persona (e disco).

Dame Shirley Veronica Bassey quindi, gallese di nascita ma ugola planetaria. Una che si è fatta Sanremo 1968 e Canzonissima 1969, che ha inciso canzoni di Memo Remigi (!!!), Elton John, Paolo Conte e Pet Shop Boys. Una che pubblicò Never Never Never, rifacimento di Grande Grande Grande di Mina e la condusse ai primi posti delle classifiche d’oltremanica. Un disco che palpeggio giusto ora, corroborato da una copertina lucida dal cartone spesso, di quelle che ancora si facevano per durare nel tempo, con quella sottile patina adesiva che salvaguardava l’immagine e le eventuali macchie. Le più improbabili, in quei disinvolti anni settanta. Guardo l’archivio e non trovo un solo ellepi della Shirley in mio possesso nel quale compaia Goldfinger, nemmeno in It’s Magic (Starline, 1968) o nello stupefacente The Fabulous Shirley Bassey (Music For Pleasure, 1970). Ripiego dunque su Never, Never, Never, che è sì bondiano sin dalla copertina ma – soprattutto – contiene una manciata di rifacimenti perfetti per un Natale distesi appresso al caminetto, con una Vecchia Romagna tra le mani e delle lenti bifocali a sgualcirti la vista. 12 pepite termiche provenienti dai più disparati repertori, e già il rifacimento della Mazzini aumenta la temperatura corporea di un paio di gradi. Soffice, senza quella malizia sotterranea che era prerogativa di Mina ma con il valore aggiunto di un cinematografico climax spalmato su una interpretazione vocale leggiadra e da brividi. Poi arrivano Baby I’m-A Want You (si, quella dei Bread) assieme a Someone Who Cares scritta da Alex Harvey (non il Sensational Alex Harvey) e portata al successo da Kenny Rogers e il firmamento si spegne per attendere che la cometa Bassey ci disintegri i cuori. O ciò che ne rimane. The Old Fashioned Way è Les plaisirs démodés di Charles Aznavour, soltanto declinata agli immaginari tempi del proibizionismo e persino quella Vecchia Romagna si agita nell’ascoltarla. I Won’t Last A Day Without You (Carpenters) risucchia lucciconi e si sarebbe adagiata da Dio su (e con) un qualsiasi James Bond. A ribadire l’uno due da fibrillazione atriale ci pensano l’immensa Somehow (scritta per lei dalla coppia Hackady/Grossman) dove inizia inventando Amy Winehouse e finisce disintegrando pietre con la forze delle sue ottave e There Is No Such Thing As Love di Anthony Newley che sa già immaginarsi Philly Sound. Quando arriva Killing Me Softly With His Song avete già Santo Stefano che vi garrota il miocardio. Ne dona una versione di jazz arterioso, con le prime luci dell’alba a farvi la respirazione bocca a bocca e un gusto di tabacco tra i capelli e nel risvolto del bavero. Ronnie Scott annuisce e il bar finisce le scorte di whisky, chiudendo le serrande per manifesta superiorità. Going Going Gone (di John Barry, dal musical Lolita, My Love) avanza sorniona con un coltello sotto la guêpière e un 45 giri che risuona su qualsiasi jukebox di Nassau. Scandali al sole ne abbiamo? No Regrets di Tom Rush perde la patina folk blues dell’originale ma acquista una carica ero(t)ica intimista edificata su un’orchestrazione luculliana, qualsiasi cattivone della serie si sarebbe redento seduta stante; Together (siglata Graham Gouldman dei 10cc) scivola sugli interstizi degli archi e delle anime in terracotta screpolate dal gelo con un afflato da french touch anni sessanta. Make A World A Little Younger è invece la sua My Way sul filo di lana, scritta appositamente da Terry Howell, Karen ‘O Hara e Denny McReynolds. Make the world a little younger, let the laughter in yesterday was filled with magic bring it back again.
Grande, grande, grande Shirley, i diamanti come te sono per sempre.

Asciugo le lacrime rimaste (mie, ma anche della Vecchia Romagna) e chiudo il feuilleton bondiano rivendicando a testa alta il mio devoto ardore verso quegli improbabili fumettoni pulp. Li guardo e li riguardo E li riguardo. E li riguardo. E li. E. Sperando di vivere abbastanza per vedere Miss Moneypenny – prototipo della cinquantenne scaltra e disillusa – coronare la sua ormai quasi sessantennale et pruriginosa storia d’amore con il nostro. Sarebbe una bella rivincita, per noi porci maschilisti. E stronzi, già. Perchè un battuta come “credevo che Natale venisse solo una volta l’anno” la si perdona solo a Bond. James Bond.

Buon Natale con i miei cinque 007 preferiti:

Missione Goldfinger
Moonraker: operazione spazio
Dalla Russia con amore
Al servizio segreto di Sua Maestà
Il domani non muore mai

Michele Benetello


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