My blood brother is an immigrant
A beautiful immigrant
My blood brother’s Freddie Mercury
A Nigerian mother of three
He’s made of bones, he’s made of blood
He’s made of flesh, he’s made of love
He’s made of you, he’s made of me
Unity
Fear leads to panic, panic leads to pain
Pain leads to anger, anger leads to hate
La tempesta del secolo. La tempesta perfetta. Qualcosa che non potevamo prevedere né immaginare o, meglio, che tanto avevamo immaginato in libri e film scadenti, da non pensare mai potesse divenire realtà. Di poterne avere veramente paura.
Settimane fa, anche io la presi sottogamba, non lo nego e non mi biasimo per questo: non sapevamo, non potevamo capire la portata di quello che stava succedendo. Una brutta influenza, niente di più e forse tanto rumore per nulla.
E invece. E invece vediamo camion mimetici dell’esercito portare via corpi da cimiteri troppo pieni per poter seppellire o cremare altra gente. E invece guardiamo telegiornali che fanno elenchi di morti a centinaia per giorno, di ammalati a migliaia per giorno. E invece quello che stiamo vivendo somiglia abbastanza da vicino a uno di quei castighi da Antico Testamento che forse il mondo del XXI secolo si è meritato.
E io sono chiuso in casa ormai da settimane, da settimane vedo la mia ragazza attraverso lo schermo di un portatile, unica mia finestra su lei e sul mondo. E benedetto sia Skype e la rete veloce che ci permette di fare colazione, pranzo e cena assieme, di guardare lo stesso film io a Bologna e lei in Francia. Ma non posso toccarla, carezzarla e baciarla perché ha fatto la scelta responsabile di rimanere lì, di non affrontare un viaggio a rischio contagio, che avrebbe messo in pericolo molto più gli altri di lei, giovane e praticamente immune a questo virus che non uccide i trentenni in buona salute. E io per questa scelta, che maledico ogni mattina e applaudo in silenzio ogni pomeriggio, la rispetto e amo ancora di più.
A volte occorre fare la cosa giusta, non la più comoda, né la più desiderata.
Us and them
And after all we’re only ordinary men
Me And you
Sono fortunato: non ho parenti o amici malati, nessuna perdita. Sono fortunato: ho una casa calda e asciutta. Io sto bene. Esco una volta la settimana per fare la spesa osservando gli sguardi furtivi degli altri, di chi ancora pensa agli “altri” come se esistesse la categoria degli “altri”. Altri da cosa? Altri da chi? Osservo in quella mezz’ora obbligata di non solitudine i comportamenti mai visti: le persone che si allontanano, si evitano fino a camminare radente i muri, si guardano il meno possibile. Qualcuno ha gli occhi compassionevoli di chi compatisce, di chi ha capito che gli altri non esistono perché siamo noi, perché siamo sulla stessa barca che si chiama pianeta terra, che un virus può mettere in ginocchio in poche settimane. Sono gli occhi stanchi di chi si è isolato, di chi ha rinunciato a tante cose, alla propria comfort zone sia essa l’aperitivo con gli amici, la corsetta, o tornare a casa in un treno affollato per contagiare zie e nonne dove ancora il virus non era arrivato. Poi vedo gli occhi spaventati e ansiosi di chi vorrebbe essere solo, forse l’unico avente diritto a entrare alla Coop per rifornirsi di viveri. Quello che odia tutti e tutto: il virus, il governo che lo obbliga a stare a casa, chi ci sta perché si sente moralmente superiore e chi trasgredisce perché non rispetta le regole. Odia indistintamente. Indossa le mascherine più fantasiose: da quelle da cantiere alle autoprodotte con fazzoletti arrotolati dentro una sciarpa. Poi vedo gli occhi vigili e ansiosi di punire dei tanti piccoli sbirri e ducetti che questa crisi sta risvegliando, di chi dal balcone non vorrebbe affacciarsi per cantare ma per proclamare l’entrata in guerra, l’Impero. Gli occhi che vorrebbero fotografare e denunciare ogni comportamento non allineato, sia esso pericoloso o no non importa: la voglia di esser delatore poco ha veramente a che fare con l’oggetto della delazione. Trattengo il colpetto di tosse nervosa che sento salire dallo stomaco temendo di venir immediatamente fotografato e postato su qualche social con la scritta “untore” sotto la mia faccia.
I’m in the waiting room,
I don’t want the news
I cannot use it
I don’t want the news
I won’t live by it
Sitting outside of town
Everybody’s always down
Tell me why?
Aspettiamo e abbiamo paura, non possiamo fare altro.
La tempesta del secolo, la tempesta perfetta. E nessun modo di ripararsi se non nascondersi nelle proprie tane come animali spaventati dal tuono. Come scriveva Emil Cioran nel suo Sommario di Decomposizione: “il troglodita che tremava di spavento nelle caverne continua a tremare nei grattacieli” e oggi tremiamo a ogni telefonata di un parente che tossisce, a ogni telegiornale che guardiamo aspettando soltanto che un’istituzione, qualcosa di più grande di noi, ci dica che tutto sta finendo, che stiamo volgendo verso l’alba.
Sembra una guerra.
Ma non lo è. La guerra è un’altra cosa. La guerra è quella da cui scappano persone come me, con i miei stessi desideri e sogni e oggi sono in un campo al confine tra Grecia e Turchia, tenuti lì per giochi geopolitici che niente hanno a che fare con buon senso e giustizia. La guerra non è dover rinunciare ad allenarsi al parco. La guerra non è uscire alle diciotto sul balcone a cantare l’inno o battere le mani al vento. La guerra è tutta un’altra cosa e forse mi spaventa ancora di più che le anime di questo tempo siano così annerite da non capirlo da sé, da aver la faccia tosta di pensare che siamo in guerra.
No, non siamo in guerra. La guerra è quella da cui scappano quelli che ci stanno sul cazzo perché “profughi ma tutti con lo smartphone”. Oggi forse qualcuno avrà capito quanto conta quel coso quando è l’unico modo per sentire e vedere che esiste ancora tutto ciò che ami e non puoi più toccare. Qualcuno ci penserà, ma temo troppo pochi.
La guerra non è stare soli in casa e avere le giornate in cui l’ansia per il futuro vuole soffocarti da annegare in una bottiglia di vino fresco, la guerra non è dire “buonanotte” al proprio amore attraverso un monitor. La guerra è veder addormentarsi tua figlia e la mattina dopo trovarne il corpo morto per il freddo. Questo non succedeva solo in Russia durante la Grande Guerra, da cui ci separa poi solo un secolo, accadeva un paio di settimane fa a Iblid, a Lesbo, nel campo profughi di Moria che per migliaia di persone è l’inferno e non è un nome da Signore degli Anelli.
Non siamo in guerra.
This is why events unnerve me
They find it all, a different story
Notice whom for wheels are turning
Turn again and turn towards this time
All she asks is the strength to hold me
Then again the same old story
World will travel, oh so quickly
Travel first and lean towards this time
Ma stiamo vivendo una crisi mai vista, un tempo mai vissuto. Stiamo provando cose che le democrazie occidentali non avevano ancora sperimentato: limitazioni delle libertà individuali inaccettabili per il normale vivere comune, misure economiche mai pensate da quando esiste l’Europa unita, il mondo globale a cui ci siamo abituati. Una crisi che sta mettendo a dura prova il tessuto nervoso della società civile e che modificherà drasticamente il nostro stile di vita una volta passata. Non sono un catastrofista, non credo sia la fine del mondo, ma sarebbe folle immaginarci il prossimo settembre nella ripetizione esatta del pianeta che abitavamo a gennaio scorso: ci aspetta la crisi economica probabilmente più violenta che possiamo ricordare, né il 2008, né il 2001, nemmeno il 1987 furono così. Si bruciarono tanti soldi in borsa, ma non si fermarono le attività che sì, riapriranno, ma quando e come non lo sappiamo. Con che forza non lo sappiamo. Salvando quanti dipendenti non lo sappiamo. Me lo chiedo ogni sera, quando mi assale quel po’ di ansia che mi concedo, non sono un samurai, nel pensare alle oltre settanta persone che vivono di quello di cui vivo io, il cui destino mi è oggi ignoto quanto il mio. Forse fra pochi mesi brinderemo a un mondo nuovo che somiglia molto al vecchio, forse ci vorrà più tempo e ci sarà meno a cui brindare. Non lo so, non lo posso sapere. Posso solo sperare e pensare che faremo tutto il possibile. Tutto ciò che spetta a noi. Tutto quello che rimane a margine di ciò che di noi è enormemente più grande.
And Now I Got An Engine,
A Big Perverted Engine,
It Runs On Strength of Will…
Who Could Deny Me the Right to Fly?
E mi manca il respiro, ogni sera, per un po’. Mi faccio domande a cui non posso rispondere, cerco di pianificare un futuro che rimane ignoto. Domande che oggi sembrano sceme: esisteranno ancora i voli low cost e potrò viaggiare tanto come negli ultimi dieci anni? Torneranno i turisti e gli studenti in città ad affollare le tavolate delle osterie? Ci saranno i concerti e i festival da migliaia di persone quest’estate? E la prossima? Potrò vivere come ho vissuto negli ultimi anni? Esisterà ancora l’Europa o torneranno le frontiere fra paesi che eravamo abituati ad attraversare come fossero quartieri della stessa città?
Tutte domande a cui non posso rispondere. Nessuno può. Lo scenario futuro è più che mai ignoto, di sicuro c’è solo che siamo in crisi, in crisi come non siamo mai stati. Tutto l’occidente lo è, tutto il mondo, probabilmente, lo sarà. E dalla crisi nascono sempre due cose: lo shock e l’occasione.
Lo shock rende obsoleto tutto ciò che era normale prima del punto di svolta, della rottura: è un meccanismo psicologico involontario e inevitabile, non possiamo farci niente. I politici che prima avevano spazio nel loro sbraitare come da decenni non troveranno più una platea attenta, saranno improvvisamente vecchi. Le abitudini consolidate saranno discutibili, il modus vivendi intero sarà all’improvviso rivedibile; sta già avvenendo: accettiamo di stare chiusi in casa, accettiamo di stare lontani dalle persone a cui vogliamo bene, accettiamo ciò che fino a un mese fa era inaccettabile. L’uomo è un animale che si adatta a tutto. È la sua salvezza ed è la sua condanna allo stesso tempo. Ci adattiamo e accettiamo il nuovo e rimodelliamo le nostre vite su questo: è il meccanismo che ci ha portato da branchi di cacciatori-raccoglitori, in alcune migliaia di anni, a costruire New York e lanciare satelliti nello spazio. Ci adattiamo, e qui entra in gioco la seconda conseguenza della crisi: l’occasione. Abbiamo l’occasione di cambiare il futuro presente: possiamo modellarlo. Potrà essere, la nostra, una vita più attenta, più aperta, più intelligente e comprensiva; questa crisi può essere un’occasione per chiudere relazioni infelici, per lasciare un lavoro soffocante, per chiederci quanto tempo abbiamo perso e quanto non ne vogliamo più perdere. Per cercare di somigliare a ciò che vorremmo vedere nello specchio, quando ci svegliamo la mattina. Per ripartire a domandarci “cosa ci fa veramente bene?”, a cosa vogliamo dedicare la manciata di anni che abbiamo a disposizione su questa pallina rotante che chiamiamo mondo. Oppure possiamo diventare bravi soldati, ancora più sordi e ciechi e irregimentati in un esercito che non esiste ma che è il tessuto delle nuove dittature timocratiche, occhi e orecchie di un potere che si autogenera, che esiste perché noi ne siamo inconsapevoli costruttori. Possiamo rimanere stupidi, anzi: possiamo peggiorare, odiare ancora di più, cercare l’untore, cercare il nemico, volerlo punire, volerlo bruciare in nome del pensiero unico che così è e così deve essere. Possiamo riprendere la nostra storia e scriverla verso quello che crediamo giusto e bello, oppure lasciarci andare al ventre molle e diventare il peggio che questa società può produrre.
Ma, possiamo. Possiamo cedere o credere. Possiamo volere. Who Could Deny Me the Right to Fly?
Fabio Rodda