Wonky Alice – Atomic Raindance (Pomona, 1992)
“Lunar Adam, where have you been?
I’ve been to a place that exists in a dream
But the dream is cracked and we are too
I want this world to smother you”
La sera, prima di addormentarmi, sono solito fare degli esercizi ‘spirituali’. Fermi, nulla a che vedere con birichinate new age, omelie macrobiotiche o esortazioni a rendere verso qualche divinità. Nulla di tutto questo, mi preme sottolinearlo subito e in maniera netta. Ho una visione abbastanza concreta di ‘sto porco (im)mondo che ci circonda per scialacquarla su preghierine, questue e salmi responsoriali. La divina provvidenza ha dimora altrove dalle mie mura, non essendosi mai rimboccata le maniche preferendo vivere di rendita conto terzi. Li chiamo esercizi spirituali perché ognuno c’ha i suoi pensieri e “I’ve got the spirit but lose the feeling”. Nulla più. Mi soffermo semplicemente a stilare un resoconto della giornata e approntare una veloce scaletta per la seguente. Poca roba come vedete, soprattutto un’ottima scorciatoia per cadere nel più breve tempo possibile tra le braccia di Morfeo. Che non è il capitano della Nabucodonosor nella Trilogia di Matrix, sebbene nel dubbio sia sempre meglio la pillola blu, visto il casino successo con quella rossa. Esercizi difficili, soprattutto di questi tempi, dove l’insicurezza e la paranoia non inducono certamente ad un rapido sonno, che quel sol dell’avvenire splenderà fuori ma dentro di noi le nuvole si raggrumano con ampie volute.
Soprattutto cerco di scegliermi un disco da riascoltare il giorno dopo, aiuta tantissimo l’esercizio mnemonico. Almeno così mi par di ricordare. In ogni caso le immagini random che si presentano (avrò comprato i taralli al peperoncino? Segnare subito) assolvono degnamente al loro compito: penso a cosa indossare, se la camicia necessita di essere cambiata, quando sono prenotate le vaccinazioni dei cani, a chi devo rispondere, la quantità di vino ancora in casa, i problemi urgenti in ufficio, se Kylie Minogue sta bene. Cose che probabilmente molti di voi fanno tra un lavoretto e l’altro, dacché multitasking. Virtù che non mi appartiene. Io ho i miei tempi, e in genere sono quelli dei gloriosi ellepì. 40 minuti circa, otto brani come da manuale. Poi senza accorgermene mi ritrovo con la sveglia che sibila e tutto da rifare. Ricordo solo il disco e non i taralli, in pratica. Fatica immensa ma gioia non da poco avendo davanti un’intera giornata d’attesa verso il padellone nero scelto al caldo del mio lettuccio. Lo posso capire il Leopardi.
L’altra sera, dopo una scorpacciata di Telegiornali, Cassandre e sapientoni ero particolarmente provato psicologicamente. Non tanto per la rarefazione sociale o il domicilio coatto imposto, su quelle cose – da buon orso bruno marsicano – me la cavo egregiamente, potrei vivere una vita senza chiacchiericcio petulante o qualcuno che debba assolutamente rendermi partecipe delle sue turbe. Piuttosto non avevo appigli concreti sui quali far forza e scrutare l’orizzonte. Le notizie erano (e sono) discordanti, tutti sapevano tutto e – cosa non da poco – una buona fetta di chi avrebbe dovuto star zitto seminava cinguettanti haiku di segale cornuta. Mi è salito il Tribunale del Popolo e – con un’ansia ben motivata – sono andato a letto promettendomi un necessario giro di vite: un unico notiziario serale e apparecchio televisivo rigorosamente solo dopo le ore 19. Possibilmente sintonizzato su quel canale a pagamento che ultimamente sono costretto ad appellare come Netflux. Avevo migliaia di dischi nascosti tra le pieghe della memoria, della rete e degli scaffali, non mi sarei fatto circuire così facilmente dagli strateghi della paura. Dovevo far diga, per quanto possibile. Sul comodino giaceva ‘Perché alle donne scappa sempre e agli uomini no?’ di Mark Leyner e Billy Goldberg, tomo sciocchino all’ennesima potenza e quindi antidetonatore potenzialmente invincibile. Mi ci sono messo con tutte le buone intenzioni del mondo, cercando di scacciare quelle immagini da corsia d’ospedale e quell’odore di disinfettante che da qualche luna non mi abbandona mai, in una sorta di memoria olfattiva. Tre pagine e già pensavo agli ellepi. Mi sentivo più sereno nel ripassare ad occhi chiusi sterminate discografie, accurate liste o piccoli manufatti rimasti pressoché sconosciuti. Del resto, come dicevo, ognuno ha i propri esercizi spirituali con i quali far fronte alle avversità dell’esistenza. Per qualche bizzarra concatenazione mnemonica – mentre riponevo il libro sul comodino – una copertina mi è riapparsa davanti agli occhi, improvvisamente e senza alcun motivo preciso. Non l’ho scacciata e anzi. Felice di veder confermata la mia teoria, nella quale il figliol prodigo non è mai scappato di casa ma si è solamente nascosto nel tinello. Ho rivisto nitidamente quell’immagine da space rock abbinandovi subito ricordi di un quartetto decisamente astruso, solito impastare lieviti sonori parecchio eterogenei. Atomic Raindance dei Wonky Alice mi ha circumnavigato la mente tutto il giorno appresso mettendomi una fregola senza precedenti verso l’agognato ritorno a casa. Una doccia, un bel bicchiere di corroborante Lagrein, cinque taralli (ho la scorta, tranquilli) e la febbrile ricerca tra gli scaffali – lì esattamente tra Wonder Stuff e Woodentops – per un bel viaggione tempestato di scorie lunari e ragnatele chitarristiche. Ne avevo bisogno.
Siamo nei primissimi anni novanta, guado sonoro in cui i britannici oscillano tra shoegazer e prodromi di pop che di lì a poco transumerà brit. Yves Altana è mediterraneo di cuore e di pelle essendo nato in Corsica, isola lontana dai palinsesti rock e lambita solo superficialmente dai vari tour che contano. Pochi, pochissimi gli artisti che la inseriscono nelle loro sortite dal vivo, tra questi pochi gli Opposition. Suonano in una chiesa sconsacrata di Ajaccio nel 1981 e il nostro vede la luce e anche qualcosa di più. Scappa a Londra, poi ritorna nell’isola. Poi ci ripensa. Anzi no. Forma i Chrysalids assieme all’ex One Thousand Violins John Wood e infine fissa la residenza in quel di Manchester proprio mentre la città sta diventando Mad. Ma al nostro non interessa; ha un solo amore nel cuore, cresciuto nel tempo: Mark Burgess e i suoi Chameleons. È da qui che prendono spunto e arazzi armonici i Wonky Alice. Servono Sirius e Insects And Astronauts in guisa di singoli apripista perché la particolare poltiglia di Altana prenda forma, ma è dentro al primo che si nasconde l’intera grandezza del quartetto. Lì, nascosta tra le pieghe del 12” vi è una traccia di trasfigurante bellezza dove – da materia informe – si crea la pietra d’angolo per tutto quell’agglomerato chitarristico inglese che lambirà gli anni novanta meno brit, da Whipping Boy a Puressence. Si chiama Stone Circle ed è il quartier generale dal quale scatenare la caccia al tesoro se queste cartelle vi instillassero una pur minima curiosità. Come che sia: all’arrivo di Atomic Raindance le scoppiettanti curiosità del pop coevo hanno poco in comune con una band che fa di Hawkwind meno bellici, post punk delicato e Mercury Rev un osmosi bizzarra. Difficile afferrarla l’Alice, sempre in bilico tra svanite suites sature immerse nel delay e nostalgica new wave, tra space rock anni settanta e post punk dal retrogusto progressive. Degli Ozric Tentacles post punk, volessimo giochicchiare con la forma piuttosto che con la sostanza.
Lunar Adam è inserita in bella mostra ad inizio long playing giusto per mettere in guardia gli sprovveduti. Filastrocca arabeggiante cantata con voluttà Charlatans e ricamata da chitarre Kitchens Of Distinction con un piglio à la Cope. Esplosioni improvvise di sei corde e gragnuole freak che si ergono anche in Radius (ciao Interpol, bello ritrovarvi in questa macchina del tempo) e nella cinematografica Sirius, buona per una Siouxsie assoldata come Bond Girl. Non hai il tempo di metabolizzarne la portata che Son Of The Sun è pura materia con la quale sono fatti i Chameleons, l’anima di Mark Burgess plana dall’alto benedicendo cotanta meraviglia. Origami cristallino su sei corde e dolce mandala rugoso che ancora non ci si crede. Vi basti cotanto dogma per annettervi al culto della traballante Alice, minuti di gioia profonda dove le chitarre si sdoppiano come filamenti di dna siderale, riattorcigliandosi nel freddo del cosmo preda di una psicosi. Bark Psychosis. In sovrappiù faticano sui cinque esatti minuti di Sundance, che brucia come l’astro chiamato in causa senza proferir parola alcuna prima di trasfigurarsi nell’estasi chitarristica. E siano benedetti i miei esercizi spirituali per aver estratto dalla polvere un disco che non ascoltavo da qualcosa come trent’anni, avendoci dato i due giri di prammatica al momento dell’uscita per poi rivolgere le attenzioni a tutt’altro fuoco modaiolo. L’ho lasciato bruciare nell’ignavia per (anche) mia colpa, mia maxima et grandissima colpa. Permetto il diffondersi del suo aroma per casa da giorni solo per espiare, scoprendovi sempre nuove angolazioni. Come il gancio sinistro di Captain Paranoia, brano in cui il cerchio si chiude laddove era iniziato, tanti anni prima, con gli Opposition a marchiare a fuoco un ragazzetto bruciato dalla salsedine, dal timbro vocale di Julian Cope e dalle reti dei pescatori. E, mentre Astronauts e Moon procedono assieme in duplice filar, indissolubilmente legati dai vari suffissi post (che siano punk o rock) il tutto troppo presto si chiude proprio con Atomic Raindance, apocalittica e bruciante nella sua veemenza.
Finisce qui, senza nemmeno un sussulto da NME e sugli ultimi solchi di questa canzone, l’avventura dei Wonky Alice e della loro ingenua psichedelia post punk fuori sincrono. Dimenticati ai quali non è stata data nemmeno l’occasione di una ristampa, indulgenza plenaria che tocca prima o poi a tutti. Tempo che non sempre è galantuomo e che sovente si fa fuorviare da lusinghe e sirene, proprio come me. Rimangono pulviscolo discografico nel grande oceano dai mille gradi di separazione. La diaspora sarà leggera e senza traumi, con Karen Leatham a migrare nei Fall (e a firmare la copertina per Planet Helpless dei Puressence, altro cerchio che si chiude) prima di ritornare dal suo nocchiero Altana, finalmente in pianta stabile con i Chameleons per una proficua collaborazione con il di loro leader (recuperare Paradyning su Dead Dead Good del 1995). Nocchiero che verrà chiamato a bordo anche da The Bardots e I Am Kloot prima di venire inghiottito dal grande oceano degli incompiuti.
Stasera, coricandomi, cercherò un altro disco, come sempre. Ma sono conscio che non potrà avere il potere taumaturgico di Atomic Raindance, perché le rivelazioni – anche se di seconda mano – non ti bussano al cuore ogni sera. Allora leggerò qualche pagina svogliata che mi strappi dai brutti pensieri, dalle preoccupazioni di un tempo mai vissuto prima nella sua brutale tragedia e che mi faccia finalmente scoprire ‘perché alle donne scappa sempre e agli uomini no’. Vi terrò informati.
Michele Benetello