Edi Rama era stato eletto solo sei mesi prima, ma il suo discorso a Strasburgo aveva lasciato tutti a bocca aperta. Pareva di vedere Nikita Kruscev alla famosa assemblea dell’Onu: si sia tolto o meno quella scarpa, il Segretario del Partito Comunista Sovietico, il 12 ottobre 1960, era entrato nella Storia e così il pugno sul tavolo di Rama, che aveva fatto sobbalzare la solitamente impassibile Von Der Leyen e aveva fatto buttare a terra, sdegnata, l’auricolare alla conterranea Angela Merkel.

E pensare che tutto era nato meno di due anni prima da un’uscita poco felice, alle orecchie teutoniche, del Presidente francese, banchiere e non certo socialista, Emmanuel Macron che in crisi con la sua Francia invasa dal virus, come quasi tutta l’Europa mediterranea, aveva sbottato contro gli atteggiamenti protezionisti della Banca Centrale Europea e dei Paesi del Nord, come sempre modello di bravura nel tenere i conti pubblici e nel far funzionare le loro economie.
E proprio il francese, non certo noto per il coraggio e la vocazione popolare, aveva spostato involontariamente il mattoncino nella fortezza. Altre frasi quasi di circostanza, forse addirittura involontarie, avevano saldato una silenziosa solidarietà nascente: il Presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, uomo politico arrivato al potere quasi per caso sulla spinta di un partito nato e morto nel giro di un decennio, e diventato un pezzo della Storia italiana a causa di una pandemia, si era rivolto alla donna più potente d’Europa, accusandola di guardare la realtà di oggi con gli occhiali di dieci anni fa. Poi, fu il Primo Ministro albanese Edi Rama, con un discorso in italiano il giorno in cui inviava medici proprio nella vicina Italia martoriata dal Covid19, a mettere nel muro dell’Unione Europea il famoso picchetto che di lì a poco avrebbe cambiato tutto. Un discorso così semplice ma così intenso e vero che il Presidente italiano Mattarella lo chiamò al telefono il giorno stesso per ringraziarlo. E così dalla Grecia, dal Portogallo. E, in serata, anche lo snob e ricco Macron.

La pandemia durò mesi, fu un periodo molto duro che tutti ricordiamo: famiglie divise, migliaia di morti, frontiere di nuovo innalzate. Ma, soprattutto, un’economia in ginocchio come nessuno poteva ricordare di aver visto.
Dell’Europa rimaneva solo l’unione economica. Ma, nella realtà, nemmeno quella: il Nord, meno colpito dal virus e dall’economia più stabile, guidato dalla Germania si oppose a politiche di apertura verso i Paesi più in difficoltà. Dopo un iniziale collaborazione con l’emissione degli EuroBond, quasi imposta da Italia, Francia e Spagna che avevano indirizzato una comune missiva al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel in cui si chiedeva l’emissione dei titoli per cinquecento miliardi di euro, ed erano, per la prima volta, passati a fare la voce grossa ricordando che i dieci Paesi della fascia mediterranea producevano il 60% del Pil dell’Unione, a cui di certo non si voleva rinunciare; dopo questa prima misura, la Germania, spinta soprattutto dal governo olandese, aveva iniziato a fare dichiarazioni sul dover chiudere i rubinetti e sul non voler pagare la crisi di Paesi deboli. Ma il 60% del Pil faceva gola, anzi: era necessario e non ci si poteva rinunciare.
E l’Europa non rinunciò, ma col solito malumore da maestrina costretta, emise quei titoli che furono salvagente di economie altrimenti destinate alla catastrofe. Ma non bastava: occorreva rivedere le regole, occorreva poter investire in sanità pubblica, qualcuno tornò a invocare la nazionalizzazione delle imprese strategiche per poter far fronte, come non si era potuto durante la pandemia, a una crisi mai prevista dal libero mercato, mai prima di allora messo così in discussione. Keynes tornò di moda, si parlava di nuovo di marxismo, di bene pubblico al di sopra di quello privato. Qualcuno, addirittura, iniziò ad alzare la voce contro l’inutile investimento militare: cosa ce ne facciamo di finanziare con miliardi di euro i nostri eserciti se ancora abbiamo le basi americane sul nostro suolo a controllarci? Voci che correvano, amplificate dai quotidiani nazionali, innalzando il malcontento generale.
Settori vitali per alcuni Paesi come il turismo per l’Italia, in ginocchio, spostamenti crollati dell’80%, ristoranti che non riuscivano a riaprire, piccole e medie imprese che dichiaravano bancarotta. Già, cosa ce ne facciamo di miliardi investiti in spese militari, quando comunque non possiamo che essere sudditi degli USA, o dover uscire dalla NATO? E come ne usciamo da questa crisi, se non possiamo accettare che per anni non potremo stare nei parametri imposti dalla Banca Centrale Europea? E chi se ne frega di salvare le banche d’affari se non abbiamo i soldi per costruire nuovi ospedali? E l’istruzione gratuita e garantita per tutti, che fine aveva fatto? I milioni agli ospedali privati in Lombardia mentre quelli pubblici chiudevano, le università sempre più abbandonate a favore di aziende straniere mascherate da college, i soldi per far le strade che non c’erano, ma quelli per comprare armi che mai avremmo usato dagli “amici” americani, sì.
L’Europa bolliva.

E chissà chi fu il primo ad alzare il telefono per dirlo senza mezzi termini: facciamo fuori il Nord. Lasciamo quei cazzo di Calvinisti al loro onanismo intellettuale su quanto sono bravi e ligi. Fanculo: noi, insieme, siamo più potenti di loro. Tutta l’arte del mondo è qui da noi, tutta la bellezza dell’Europa è qui da noi. Tutto il sole dell’Europa è qui da noi. Fanculo! E al mare ci vadano in Danimarca, i fenomeni!
Chissà se il tono fu questo e chissà da chi, fantastoria o, come si diceva negli anni novanta, dietrologia.
Non possiamo sapere chi fu a chiamare chi, ma sappiamo che ci fu un primo incontro “informale” a Parigi e poi altri a Roma, Tirana, Madrid, Barcellona, Lisbona, Atene. E poi in Estonia, Cipro, Malta, Romania. E, infine, a Dublino, che di stare fuori da quello che stava nascendo, con l’ex Impero Britannico in mutande dopo la folle brexit e i suoi effetti disastrosi e oramai totalmente schiava degli Stati Uniti, non ne voleva proprio sapere: a Londra gli speculatori cinesi andavano a comprare interi quartieri al prezzo di un condominio di Singapore, quello che si era visto a Sarajevo nel ’93 si vedeva ora nella fu capitale del Commonwealth in dismissione.
Poi, solo sei mesi fa, l’incontro ufficiale a Roma, che ad essere il centro del mediterraneo unito era abituata da millenni, e la dichiarazione della nascita di un nuovo soggetto politico unitario deciso a far valere l’unione delle forze, una visione antisovranista ma altrettanto anti troika, fosse questa formata da Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale o chiunque si fosse sostituito a uno di questi soggetti per mantenere la dittatura politico/sociale delle leggi dell’ultraliberismo capitalista.
I paesi mediterranei di “ultra” non avevano mai avuto niente, e di politiche di lacrime e sangue ne avevano abbastanza.
Insomma, come tante cose della Storia, l’Unione delle Repubbliche Mediterranee era nata per un insieme di casualità, spinta dalla più grande crisi economica del dopoguerra, a cui, come al solito, i Paesi del Nord, non volevano prestare orecchio e portafoglio.

Edi Rama e il suo pugno sul tavolo. Il silenzio attonito in sala. Gli applausi di Pedro Sanchez a cui erano seguiti quello di Conte e Macron, i primi fondatori di quel nuovo mondo, e poi Mitsotakis e Antonio Costa, che ancora non salutava il ministro delle finanze olandese dalle sue dichiarazioni al tempo del virus. La strada era chiara e segnata: un’Europa divisa in due, come prima del 1989, ma senza un muro né un nemico a Est.
Rama aveva formulato un discorso semplice e chiarissimo: questa Europa va a due velocità da tanto, troppo tempo: tutti gli accorgimenti presi in caso di crisi, il Mes in primis, non sono mai andati nella direzione della solidarietà ma del giogo: se un Paese è in crisi lo si aiuta sì, ma piegandolo poi per sempre alle politiche economiche e sociali decise e imposte dal Nord, dalla Germania in primis. «Facile decidere la politica economica dell’Europa, signora Merkel» aveva tuonato il nuovo Direttore della neonata UdRM, «quando la moneta stessa europea è stata fondata a suo tempo su quella tedesca, garantendo l’unico vero rapporto uno a uno in Germania e non nel resto dei Paesi dell’Unione!». Potenti applausi in aula, brusio e sguardi attoniti di Mark Rutte e Rasmussen. «Per decenni, avete costretto i paesi mediterranei ad adeguare ogni politica sociale e economica, ogni investimento nel proprio Paese alle vostre richieste, agitando lo spauracchio del MES, dei prestiti ponte per uscire dalle crisi interne. Ero il premier di un Paese non certo ricco, ma che non avrebbe mai fatto scelte scellerate sui tagli al sistema pubblico, alla sanità, se non obbligato dalla paura di non poter rispettare i vostri parametri. I Vostri, sì, perché noi li abbiamo dovuti accettare, non li abbiamo creati assieme a voi. Avete perso due Guerre Mondiali e ne avete innescata una terza a colpi di moneta e mercato. Ebbene, avete perso anche la terza, fortunatamente senza morti sul campo – almeno non dichiarati – ma oggi vi stiamo facendo firmare la resa. Ancora!» e giù il pugno che era risuonato nel momento preciso di silenzio fra la fine del suo intervento e l’inizio della bagarre attesa ma che non ci fu: tutti gelati da quel botto, amplificato da un microfono, forse, involontariamente staccato da una giacca e poggiato sul legno del banco.

E, così, la Storia era cambiata. A causa di un virus che oltre ai tanti morti, aveva portato enormi danni economici, che aveva costretto per mesi a chiudere interi Paesi: nessun viaggio, nessun evento pubblico, nemmeno bar e ristoranti rimasti al palo per quasi dieci settimane e che riaprirono in un bagno di sangue di fallimenti, licenziamenti, famiglie ridotte alla fame. Si era sfiorata la guerra civile, si erano innescati movimenti di protesta sociale che sarebbero potuti sfociare in quello che l’Albania aveva vissuto nel ’91, e forse proprio per questo fu la piccola Albania a guidare la rinascita inventata da Italia, Francia e Spagna. Forse fu quella telefonata di Mattarella, fatta più per cuore che per strategia politica, a dare il la al futuro assetto europeo. Chissà, i libri di storia ne parleranno, oggi noi possiamo solo ricordare quel pugno sul tavolo che nel 2022 ha cambiato di nuovo l’Europa.

Fabio Rodda


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