C’è stato un momento in cui Andrew Weatherall – da genio – è transustanziato in divinità assoluta. Un unico, preciso ed esatto momento e… no, non è Loaded ma Rock Section dei Dayglo Maradona. 12” verso il quale necessiterebbe un libro soltanto per tracciarne la genesi. Traccia minore del 1979 di certi Skin Patrol, funkettari bianchi alla Orange Juice. Hanno un pezzo in faretra che sa di classico, un blues dub-bioso che usano in guisa di bis nei – invero rari – concerti dilatandolo per 25 minuti. ‘Na roba grassa, meccanica, futurista nel suo groove motorik, ‘na roba che Damon Albarn e la sua Honest Jon’s potrebbero ma… no è troppo tardi. Julian Cope è tra il pubblico in uno di quei rari concerti, ne viene folgorato sulla via per Liverpool, tenta di copiarlo con una drum machine e un basso in carbonari esercizi casalinghi. Poi la sua carriera si invola e gli Skin Patrol rimangono al palo, sconosciuti tra gli sconosciuti.
“Con i Dayglo Maradona ero rinato. Ciò che li aveva preceduti era stato un semplice preludio alla Tempesta. In gioventù, aspirante Jim Morrison di oltre un metro e ottantacinque, avevo battuto le strade di Eastwood assieme al mio ‘compadre’ Gaz Marshmallow arrancando lungo i percorsi storici di D.H. Lawrence segnati in azzurro” (Julian Cope)
Stacco.
È l’afoso giugno del 2014, il catalogo Rough Trade strilla un 12” a nome Dayglo Maradona, comunella rave tra un Matrix che esplode, Il San Giuliano e Andrew Weatherall. Vi è un pre-ascolto ed è come la pillola rossa della conoscenza di Neo. Rock Section mi catapulta lontano dalla sedia, in prossimità di un punto in cui tutti i Chemical Brothers del mondo si immolano sulle piste da ballo. Sembrano i LA Dusseldorf rave. La mano tatuata e piena di fate di Weatherall chiama a raccolta groove di dervisci rotanti, Cope – sull’altro lato – indugia dentro gli anfratti della traccia primigenia. Io cado in ginocchio e capisco che Iddio mi ha irrorato di fede, tanti anni prima, lì in quel posto più in alto del sole.
Stacco.
Ce l’ho ancora la fede, non mi ha mai abbandonato. Mai avuto alcuna crisi di vocazione verso Andrew Weatherall, uomo che si fece (e mi fece) scisma e dogma. Per qualcuno (molti) la historia della musica rock si divide in pre Nirvana e post Nirvana, per me c’è un mondo che fluttuava scontroso e bizzarro ma anche tanto rigido come una scaramuccia tra Montecchi e Capuleti prima di Andrew Weatherall e uno che ha danzato ebbro d’amore dopo la venuta di Andrew Weatherall. Li ho vissuti entrambi, quei mondi, riuscendone per osmosi a crearne crasi perfetta grazie a lui. Che è scomparso, a soli 56 anni, il 17 febbraio scorso. Quasi coetaneo, vacca boia. Solo che Weatherall è diventato Iddio e io sono rimasto il solito stronzo. Ma il solito stronzo che sapeva scegliersele le divinità. E… sì, è lapalissiano che fui tra la giusta moltitudine che rimase inchiodata da Screamadelica e sono altresì convinto che senza codesto artigiano dal basso profilo oggi il Signor Gillespie starebbe ancora permutando accordi di Ivy, Ivy, Ivy. Però non è questo il punto. Il punto è che nessuno (NESSUNO) in questo porco mondo ha mai seminato così tanto su campi altrui lasciando che i frutti della terra servissero per sfamare gloria conto terzi. E non so nemmeno se ho voglia di farvi la solita storia precisa e circostanziata, storia che è un apostrofo rave tra le parole Boy’s Own, Terry Farley, Bocca Junior, Loaded, Soon, Smokebelch II, Sabres Of Paradise e Two Lone Swordsmen. O inseriteci voi ciò che più vi aggrada, visto che a mettere i tag nelle varie peripezie del nostro tra i cursori del mixer facciamo notte. L’abbiamo ballato tutti, abbiamo tutti fatto le ore piccole con i suo brani (o produzioni, o remix, o intuizioni, o…) e tutti abbiamo su quell’emoticon del cuore che recita: ‘mi sa che ‘sta bomba è di Weatherall’. Sulla fiducia, perché è come se avessimo impresse nel costato le sue stimmate, o solo le sue impronte digitali. Già, tra di noi (noi poveracci con Logic Pro 10) si era persino creato un neologismo da carbonari: weatherallare. Una weatherallata la riconoscevi subito: era kraut, anzi no. Era rave. Forse. Era house. Poco però. Era electro. A sprazzi. Era ipnotica. Questo sì. Era nettare che colava dalla barba di Gandalf il grigio, giù giù fino al canale 24 dove il ritmo si fa uno e trino e pochi hanno il coraggio di avventurarsi senza sporcarsi le mani e il palmarès. Che sia stato un remix, una produzione (One Dove – Morning Dove White, in queste colonne al numero 31, ottobre 2018… come fai a non piangere sopra un disco simile?), un white su cd-r scrauso o un dj set LUI ti stupiva. Poteva imprimere sui muri, sulle sinapsi e sulle tracklist i Killing Joke e Morgan Fisher per poi passare a Psychick Warriors Ov Gaia e Plastikman. O 400 Blows e Aswad. Uno che ti metteva dentro un cd gli Shock Headed Peters (è successo, in Sci-Fi-Lo-Fi Vol.1). Voglio dire: gli Shock Headed Peters. Provate a rileggerlo lentamente. Ma il più delle volte era sempre quell’unica espressione di entusiasmo e stupore, ripetuta in loop: ‘mi sa che ‘sta bomba è di Weatherall’. Una weatherallata, appunto. Qualcosa che sa di sciabole e spada. Sabres & Sword.
“La festa era dappertutto. Se ti facevi un trip allora te ne andavi in stanze diverse. Avevi la stanza My Bloody Valentine dove se ne stavano tutti seduti al buio. Era piena di fumo e l’odore di chiuso ti toglieva il respiro. Poi entravi in un’altra stanza e quella era tipo la stanza dei drink o roba del genere. E poi, uscendo sul retro, c’era la stanza dell’Ecstasy. Ti basti sapere c’era un membro dei Primal Scream in OGNI stanza” – Ed Ball
“Weatherall e Innes si sono piaciuti subito. Innes è un genio, un genio assoluto, è completamente e maledettamente geniale. E lui e Weatherall sono entrati in uno studio di registrazione a Walthtamstow e da Losing More Than I Ever Have hanno tirato fuori Loaded”– Jeff Barrett
I Primal Scream, insomma. Quelli che nel 1989 non sanno più da che parte andare, che giacciono in letargia chimica e che permettono ad Andrew Innes di consegnare una copia del loro disco a Weatherall perché ne estragga qualcosa di buono, che sono stanchi di girare in cerchio giù in garage. Hanno sentito il lavoro su Hallelujah dei fratelli chimici Happy Mondays e chi sono loro per rimanere al palo dinanzi ad una probabile rivoluzione elettronica? Fa di più il nostro: la innesca. Ne scrissi abbondantemente sul Mucchio Extra, 14 anni orsono. Dopo tutto questo tempo sono ancora d’accordo con me stesso.
“Si chiama I’m Losing More Than I’ll Ever Have ed è la scelta sulla quale ricade il dito di Andrew Weatherall allorchè Innes gli consegna una copia dell’album perché ci tiri fuori qualcosa di buono. E’ divenuto amico dei nostri i quali, a furia di vagare sfatti per i club (lo Shoom a Londra o lo Zap Club di Brighton) hanno cominciato ad appassionarvisi. Fa di più il Merlino elettronico, già titolare della fanzine Boy’s Own e fresco di remix per l’Hallelujah degli Happy Mondays (bell’incrocio di pillole, vero? Con i nostri che arrivano dal rock e intersecano la dance mentre la band di Ryder a fare il percorso inverso, contromano): prende la traccia, la iberna in un beat pigro, vi campiona parte di un bootleg di italian dance fatto su I Am What I Am di Edie Brickell, vi sparge sopra la voce di Peter Fonda dal film The Wild Angels di Roger Corman e ribattezza il tutto Loaded. 500 sterline, 100.000 copie. Mai matematica fu più gloriosa. La rivoluzione può dunque avere inizio”.
Come in ogni rivoluzione, una volta che è passata, tutto assume contorni sfumati, la storia prende pieghe inaspettate e persino tanti (troppi?) duri e puri abiureranno la loro selvaggia rigidità chitarristica per genuflettersi. Collisione di supernova, quel disco; diagramma cartesiano dove si incontreranno – perfettamente allineate – rock e disco, gospel e house, blues e ambient, antitetiche presenze che mai, fino ad allora, avevano voluto mescersi in un calice d’amorosi sensi. Weatherall attua uno scisma luterano, ne strappa i rigidi spartiti e – sempre in combutta con il fidato Hugo Nicolson (uomo da non sottovalutare) – cambia il corso del rock per sempre.
È un momento topico equiparabile per importanza e aggressione sociologica al Bowie che cinguetta Starman a Top Of The Pops il 6 luglio 1972 o all’Exploding Plastic Inevitable Show. Ma – a differenza di questi – è un momento senza immagine, una rivoluzione senza colpi di fucile e isterie visive. Uno scisma sotterraneo che non ha pecette da appiccicare sulle riviste. Vanno avanti Gillespie e compagnia per quello. Weatherall rimane al palo, volutamente. Non ha velleità egotiche, nessuna voglia di capitalizzare permutando per eoni la stessa matrice. Per lui la dance è come uno spazio da esplorare, mappandone i confini, lanciando un segnale satellitare. Lo coglieremo in tanti. Eppure è un altro il pezzo cesellato per i Primal Scream che davvero mi porterei su Alpha Centauri. Tolta l’immensa resa di Higher Than The Sun, ovvero i Silver Apples che rotolano nel blues post apocalittico e che mi farei tatuare per sempre, c’è una traccia nascosta dentro il sottovalutato Dixie-Narco Ep. Dieci minuti e quarantasei secondi di scompiglio chimico-fisico. Weatherall e Nicolson la chiamano Screamadelica ma in Screamadelica non c’era; uniscono i puntini che vanno da Kingston ai Muscle Shoals però suonati dentro ad una immaginaria Love Boat. Disco music che zoppica, Denise Johnson che sussurra alla stratosfera, un tango ipnotico che si avviluppa seducente sopra un intero lato, fiati che fanno l’ottovolante su grumi di loop, soul che diventa II Soul prima di derapare baggy su sciabolate di vento house. Pharmaceutica. Perfetto s’è già detto, epocale poco ci manca.
Poi cosa succede? Niente. Ovvero tutto. Succede che Andrew Weatherall diventa un nome così ingombrante che i vari remix o le stranite produzioni finiscono con l’essere assimilati più a lui che ai reali possessori delle note primeve. Troppo carismatica la sua mano, troppo ‘pesante’ la sua immensa e trasversale conoscenza della musica, quella che può far suonare i Doves come dei Can sotto una pioggia radioattiva o i James come un’ambulanza di Mad Max. Se il remix è di Weatherall il pezzo diventa improvvisamente, per dogma, dello stesso. E forse è questo il motivo primario che ha impedito – oltre ad una certa ritrosia da ‘bizzarro perdente’ del nostro, certo – a Lord Sabre di diventare un superstar dj, uno di quelli a sei zeri; uno di quelli da posti giusti e imbecilli che saltellano qualsiasi cosa gli possa passare ‘sotto il naso’. Ha navigato appena sopra il pelo dell’acqua, scegliendo nomi (o venendone scelto) che ne garantissero totale integrità ‘artistica’. Non era faccenda di vile pecunia, insomma. Purtuttavia, di rimando, nemmeno credo che gente come Madonna o gli U2 avessero voglia di farsi scippare un brano dal nostro per sentirlo appellare come ‘una weatherallata’. Troppo gelosi delle loro Società per Azioni. Eppure Bono ci proverà, con la solita boria terzomondista che lo contraddistingue, sentendosi opporre un netto rifiuto e due righe che non lasciano spazio a equivoci: ‘Non posso fare produzioni troppo grosse. Non posso partecipare a tutte quelle riunioni del music business. I professionisti mi spaventano a morte, sul serio’.
Con Screamadelica Weatherall prende la Bastiglia, decapita i paletti, le rigide monotonie del ‘di qua o di là’, gli steccati di tanti (troppi) anni di convinzioni manichee. Attua una rivoluzione irrorata di MDMA e sparge per l’aere l’amore universale assimilato pochi mesi prima allo Shoom. La seconda estate dell’amore, verrà chiamata. Ma vi aggiungerei una primavera dell’anima, un autunno di empatia e un’inverno di campi di fragole per sempre.
Andrew Weatherall è morto. Anzi: è scomparso. Si è celato ancora una volta, lì sotto a quel banco mixer dove deflagrano ordigni e sezioni ritmiche portate all’estremo. Lord Sabre, The Guv’nor, Audrey Whiterspoon, l’uomo di sigarette e baffi. Il sosia techno del rockabilly Billy Childish. L’uomo che del post punk fece origami electro, il tatuaggio balearico dilatato sui white label è stato uno dei miei fari, sempre presente – lì in mezzo ai cursori – spalancandomi gli occhi senza aver bisogno di alcuna Cura Ludovico. L’aprirmi alla sua musica mi ha costretto a venire a patti con i miei limiti sonori, ampliandoli. Da lì, da quel punto imprecisato, ho imparato ad essere migliore. Hallelujah. Adesso che non c’è più mi sento come se vagassi in una terra sconosciuta, un guado tra una traccia e il suo remix, in un ipotetica metà ancora da scoprire. Non so quale potrà essere il mio percorso sonico, non so dove andrò a svernare le mie convinzioni, non so – accidenti – chi potrà ancora metterle a dura prova, facendomi sentire un giovane vecchio deciso a rivoluzionarsi ancora e ancora e ancora. So solo che I’m losing more than I’ll ever have. Perché Fail we may, sail we must.
10 Weatherallate:
One Dove – Morning Dove White (London, 1993)
Primal Scream – Screamadelica (Creation, 1991)
My Bloody Valentine – Soon (Creation, 1990)
Andrew Weatherall – The Bullet Catcher’s Apprentice (Rotters Golf Club, 2006)
Saint Etienne – Only Love Can Break Your Heart (Heavenly, 1991)
Two Lone Swordsmen – From The Double Gone Chapel (Warp, 2004)
Dayglo Maradona – Rock Section (Faber & Faber, 2014)
The Orb – Perpetual Dawn (Ultrabass 2) (Big Life, 1991)
James – Come Home (Fontana, 1990)
The Sabres Of Paradise – Smokebelch II (Sabres Of Paradise, 1993)
Michele Benetello