David Van TieghemStrange Cargo (Private Music, 1989)

Quando uscì Screamadelica ebbi – come quasi tutti – un’accelerazione sovversiva mai provata in vita. Io, arroccato nel mio sciocco buen retiro costruito su rassicuranti pareti (e scaffali) di post-punk, glamorama e poppettino floscio. Boom. Un’esplosione interna, dalle parti del cuore e anche un po’ più giù, lì dove sedimenta il desiderio. Cento pezzi che si spaccavano per poi ricomporsi, attirati come gocce di mercurio liquido lucidato di conoscenza. Noi due nel mondo e nell’anima, sì. Io e Screamadelica, la Lancia di Longino pronta a percuotermi il costato, il Sacro Graal. Sang Real di cui mi feci umile vassallo e vampiro. Lei. Dalla sua riforma protestante cominciai a disboscare certezze come un vietcong con il machete. Era giunto il tempo di chiudere con inutili guerre che mi strappavano le viscere (la discomusic il male? Ma quando mai? I Was Made For Lovin’ You, Baby), cominciavo a comprendere le donne quando parlavano di orologio biologico. Il mio aveva iniziato a strappare lancette su lancette, secondi preziosi che avrebbero dovuto rivoluzionare i concetti di spazio, tempo e velocità. Quest’ultima misurabile in adeguati bpm. Mi tuffai dunque caparbio in ogni ‘altrove’, luoghi esotici che – per paura, viltà o ignoranza – avevo tenuto alla larga, forse proteggendomi da ciò che volevo. Fossero le playlist illuminanti del Loft di David Mancuso (Vale un Andrew Weatherall quell’uomo. E viceversa. Miniera ancor lungi dall’esaurirsi) o i Tangerine Dream, i Les Troubadours du Roi Baudoins (che fatica trovare il 45 giri) o gli Steely Dan passando attraverso Nino Ferrer e Peter Blegvad. Risultato? Un mal di testa epocale e la consapevolezza che non ero il fulmine di guerra che credevo e anzi. Ma servì, oh se servì. Servì a farmi comprendere come certe musiche si lambissero leccandosi l’un l’altra l’aria che le circondava e che la ricerca per sua natura non potesse finire mai. Una goduria. Con il mal di testa ma pur sempre una goduria. Eppure, in mezzo a quell’insensata ingordigia bulimica, tra le risate dei duri e puri, una cassettina scrausa del solito conoscente scafato e anzianotto, fece breccia. “Tieni, prova questo, non è molto lontano da Shine Like Stars, magari dalle parti di Sapporo ma non molto lontano”. Lui era sopravvissuto al progressive, ma io provai ugualmente. E grande è la gloria del giusto nel saggiare qualcosa atto a sorreggere quell’aura magica che si agita in prossimità dello sterno quando grappoli di note raggrumano dentro di esso. Shakerati, non mescolati. Quel disco – recuperato in vinile solo pochi mesi fa – era Strange Cargo di David Van Tieghem. Uomo che (allora) ignoravo completamente e del quale per forza di cose dovetti rimanerne agnostico per lungo tempo. Non sapevo nulla della Love Of Life Orchestra (progetto approntato assieme a Peter Gordon) né delle sue collaborazioni trasversali per Talking Heads (Speaking In Tongues), Eno & Byrne (esatto: quello), Laurie Anderson (una manciata di lavori tra i quali Mister Heartbreak) e addirittura in So Red The Rose degli Arcadia. Non sapevo un’emerita cippa, a parte che quei suoni su nastro – uno in particolare: Flying Hearts – mi avevano colpito. Un uppercut niente male, non da cadere al tappeto ma vacillare assai sì. Quando cominciai a venirne coscienziosamente a patti scoprii un musico intrigante, assolutamente non cerebrale e cervellotico a dispetto della nomèa. Uno che preferiva usare percussioni costruite in casa usando i più disparati materiali e la cui lista di collaborazioni era pressoché infinita. Uno con la faccia da Paul Draper di Mad Men. Uno che oggi Wikipedia illustra in guisa di compositore e sound designer. Sound. Designer. Vabbè. Eppure allora avevo una difficoltà enorme a reperire notizie e manufatti.

Destino dell’uomo che si cela stando davanti a tutti, quello di David Van Tieghem, austero e altezzoso sin dal nome, forse più adatto per una mezzala dell’Olanda dei tempi d’oro più che per un percussionista digitale ed eccentrico. Così annotai puntigliosamente tutto, mano a mano che quel ‘tutto’ mi passava sotto gli occhi o attraverso le orecchie: a partire dall’epopea (appunto) della Love Of Life Orchestra, gentaglia di quella New York implosa su gran parte dello scibile off e fonte primaria di scansioni e battute ritmiche per LCD Soundsystem e DFA tutta. Gentaglia a nome Blue Gene Tiranny, Rhys Chatham, Arthur Russell e Kathy Acker. Ballatene o voi che potete, io stavo sezionando i Flowered Up e non mi pareva questo enorme salto quantico dacchè se riandavo con la mente ad alcuni ascolti del mio passato riuscivo agevolmente a recuperare frammenti ritmici di quella New York splendida splendente. Voglio dire, nella mia discoteca simil cosmica la domenica pomeriggio passavano i Monsoon rallentandoli a 33 giri e sono altresì certo che i dj una volta e una soltanto si addentrarono fino a Fad Gadget, ovvero la versione del nostro da Terra dei Fuochi. Ma era ovunque la mela concitata e convulsa, febbrile di suoni nati per innesto e diffusa nel globo terracqueo: spuntava in controluce nelle marce involute dei Palais Schaumburg come nei beat umidi dei Float Up Cp, emergeva in quella Ave Maria (Om Ganesha) di West India Company dove per la prima volta avevo sentito eruttare il nome di Asha Bhosle (Brimful of Asha vi dice nulla?) come negli origami funk di Tin Drum dei Japan. Terzomondismo disco, Afrika Bambaataa e eleganza decadente, disco music in overdub e rumori da sottoscala, Dinosaur L e funk ipercinetico, Steve Reich e Larry Levan. I Clash che vanno da Futura 2000, in duplice filar. Era ma sarà. Nei Rapture come in Rapture di Blondie, dove gli innesti di sassofono firmavano l’opera di Thomas Wright Scott, musico uno e trino nel saltabeccare da Starsky And Hutch (sua la sigla, giuro) ai L.A. Express, da Barbra Streisand a Frank Sinatra passando per The Blues Brothers. Che la via più lunga è sempre quella più veloce da percorrere. Mi credete ora, quando parlo di emicrania? Chi poteva dunque venirne a capo, in quell’epoca pre internet? L’unica era lasciar fluire le informazioni dosandole col contagocce, in posologia di quanto basta e alla bisogna.

Insomma: parecchi avevano infilato le mani su quelle intuizioni disco mutanti, senza manco sventolarle a mo’ di saluto. E io osavo ancora genuflettermi solo sui Primitives, i Front 242 o i Wedding Present? Perdendomi l’unica cosa veramente gratis – lì fuori – ovvero la conoscenza? Con la prima connessione degna di cotanto nome esplorai come un Google Maps fuori sincrono l’opera di David Van Tieghem, deflorandola proprio da Strange Cargo. Che esce nel 1989 e Discogs setaccia e propone come rhythmic noise, abstract ed electro dimenticandosi tante cose o forse solo per mancanza di spazio e di appigli concreti. Lo riapproccio proprio da quella Flying Hearts di poco sopra, gemma che ricordavo di curcuma elegante e ritrovo intonsa nella sua bellezza da Yellow Magic Orchestra cubica e rinchiusa in una rete di farfalle argentate. Lascio che si dipani per la stanza come un bagnoschiuma Vidal di cristalli liquidi e intanto scorro con le dita lungo il retro della copertina riscoprendo nomi che farebbero la gioia di ogni essere umano rinchiuso in uno studio di registrazione: da François Kevorkian a Kate McGarrigle (la mamma di Rufus e Martha Wainwright, né più né meno), da Paul Rice (uomo su Powaqqatsi di Philip Glass e Words For The Dying di John Cale) a Lenny Pickett della Saturday Night Live Band o – ancora – a quella Roma Baran che i più attenti sapranno manovratrice di singhiozzi Casio in O Superman (e un’altra mezza dozzina di album) di Laurie Anderson. Undici brani nei quali il sospetto di venir assalito da orde di onanistici groppi e grappoli armonici scardinabili solo da Q.I. uber alles è forte, provenendo da cotanto nome. Ma la mia memoria è buona e non aveva scorie di jazz retroverso o cervellotici sincretismi. Me lo ricorderei, avrei immediatamente eretto le mie difese immunitarie in 4/4.

Flying Hearts non poteva sbagliare segnalando un percorso infido e dunque Strange Cargo ha ampio timone per manovrare sui mari della nostra tranquillità. Si riesce a tenere a bada da subito quando la traccia omonima, in delicata produzione house venusiana di Kevorkian, ti scoppia come un chewing gum in prossimità dell’ipotalamo. Una amniotica e cinematografica Tell It To My Heart di Taylor Dayne all’ombra di Riuichi Sakamoto. Si veste pop suo malgrado nonostante un suono obsoleto da tre generazioni di sintetizzatori. Sinuosi intrecci e felpati zampilli che bagnano anche la tentazione Real World di Volcano Diving ovvero ‘ritmosofia’ tra un Peter Gabriel soffuso e seppiati Dolphin Brothers; o l’ambientale suite di Hell Or High Water, affascinante come una passeggiata sulla luna dipinta di giallo. Domo arigato. Stratificazioni di trilli e tintinnìi, vibrisse di suono, percussioni dub, accenni di vibrati, melodie effettate, di questo è concepita Eye Of The Beholder, ma non fai in tempo ad accorgertene che arriva Flying Hearts e ti ritrovi a Discoring, una domenica pomeriggio, con in mano quattro minuti e nove secondi di italo disco polare, qualcosa che Mike Francis o i Novecento avrebbero annesso senza indugio al loro canzoniere, fossero stati prodotti dai Flying Lizards o distratti da Ann Steel. Pensi alla Love Of Life Orchestra, a quella New York che aveva creato fonema ritmico e strade maestre e capisci di non aver mai capito un cazzo.

Giro il padellone nero e lascio che il Fernet goccioli su They Drive By Night, inchino asiatico piegato su suoni obsoleti ma anche su un sax epatico che ti porta su su su, da qualche parte dove l’atmosfera è rarefatta o forse solo dove finiscono le nottate del Loft. S’accompagna benissimo a The Ghost Writer Theme, chiesastico inno ambient da Warp anni novanta. Il giardino pensile di David Van Tieghem brulica di lussureggiante armonia: acqua, muschiose ninfee e elettricità si spargono dal ventre di Particle Ballett in un florilegio di percussioni, campane tibetane, cimbali, venti del nord e porcellane romantiche. New Age come potrebbe esserlo un Wim Mertens convertito al Synclavier. O ancora quella Yesterday Island che la segue nella liquida scia. Haruomi Hosono di Omni Sight Seeing (Epic, 1989) avrebbe gradito assai. All’arrivo di Carnival Of Souls cominci a intravedere sembianze Womad, il voodoo, carnevali fusion e un luminoso globo trance con le fattezze di Jon Hassell. Togliete i jack dagli ampli del Donald Fagen di The Nightfly, sbattetelo su una serie Amazon Prime e suonerebbe così. L’omelia che porta in dissoluzione il disco si chiama She’s Gone e chiude la porta a tutte le feste di domani. Proviene ectoplasmica da un imprecisato punto dello spazio. Decostruttivismo astratto senza spigoli, particelle in risonanza, funk afasico, fusion che affoga in piscine muschiate, nightclub per ametiste e nerd. Musica per copule irriverenti.

Molto simile al precedente Safety In Number, Strange Cargo unisce i puntini che vanno dal cuore al cervello, dal Monte Rushmore alla Via Lattea, dal Paradise Garage al MOMA, dai synth a chissà cosa. Certo, essere Screamadelica non ha prezzo ma per tutto il resto – lì, in qualche galassia dimenticata e dall’atmosfera rarefatta – c’è Strange Cargo.

Michele Benetello


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